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A day in the life

Paolo Cognetti

Un giorno in montagna (la sua montagna) con lo scrittore delle ‘Otto montagne’. Ne esce un racconto e un confronto intimo, tra birre, cani e l’essere davvero ‘altrove’

Testo e foto di Alessandro Treves

Quando ho finito di leggere Le otto montagne oltre che avere una gran voglia di camminare e abbracciare mio padre ho anche pensato di voler andare a conoscere chi era riuscito con così tanta leggerezza e semplicità ad entrare nelle dinamiche famigliari come in quelle sociali, a parlarmi così da vicino della mia famiglia e del mio lavoro, riuscendo nell’impresa di spolpare fino all’universale (in fondo in fondo i sentimenti umani sono comuni e, se spogliati di tutto l’attorno, anche tremendamente simili) pur lasciando nel racconto anche una fetta così importante di se stesso.

Quest’uomo vive tra Milano e Brusson (Valle d’Aosta), e l’idea di incontrarlo a Milano non mi sfiora nemmeno: o montagna, o nulla. Lo idealizzo come si fa con i veri miti a noi contemporanei, non posso conoscerlo in un appartamento milanese, sarebbe come andare allo zoo per vedere come sono fatte le tigri. Ne ho la conferma quando leggo il luogo dell’appuntamento, ‘Il pranzo di Babette’ a Estoul, che per il mio feticismo galoppante è come andare a incontrare Warhol alla Factory o Hemingway a Cuba.

Dopo tre ore di viaggio in cui prima la città sfila fuori dal finestrino, poi autostrada e relativi caffè in autogrill, e poi, piano piano, iniziano a spuntare le montagne tutto attorno e sempre più vicine, saliamo verso Brusson, fino al paesino dove vive Paolo, poche casette e un luogo centrale e di riferimento: Babette, appunto. Parcheggio in fretta cercando di limitare il ritardo, salgo le scale di corsa e mi trovo davanti Monica, la sua agente, che sembra molto severa e che poi si conferma assolutamente tale. (Ci siamo poi conosciuti meglio alla Mostra del Cinema di Venezia e io mi sono platonicamente innamorato di lei e del suo compagno Guido, mentre ballavo alle feste al Lido. Ma questa è un’altra storia.)

Paolo è dentro, lo trovo seduto a un tavolino che beve una birra e non esito a ordinarne una anche per me, sia mai che da montanaro quale sono lascio bere da solo un altro montanaro. Mi scuso per il ritardo e nello stesso momento, vedendo la mia cana Libera annusare Laki, il cane di Paolo, spero che tra i due non avvengano litigi per non iniziare subito con il piede sbagliato. I cani si annusano allo stesso modo in cui Paolo mi studia, e mi rendo conto effettivamente di dove sono: sto bevendo birra con Paolo Cognetti al Pranzo di Babette.

Facciamo qualche chiacchiera e io dalla fretta ho pure lasciato la macchina fotografica nella borsa nel portabagagli, quindi non sto a pensare alle foto che vorrei fare e mi godo questo incontro, questa birra bevuta con il sole che mi scalda la faccia e queste montagne tutte attorno mentre Paolo mi racconta con la sua voce calma che è in quella cucina che ha lavorato e che quella al bancone è la Babette della Felicità del lupo.

Finiamo la birra e ci diamo appuntamento a casa sua poco sopra: lui ovviamente prende la strada a piedi con Laki, che lo anticipa, e io guido fino alla sua baita guardandolo arrivare mentre inizio a frugare nella borsa cercando un paio di rullini da mettermi in tasca per non dover più pensare ad altro che a fare foto e ascoltarlo.

Lo sento parlare in cucina mentre mi guardo attorno nella grande stanza al piano terra, tutta di legno, davanti a noi il prato con in mezzo un tavolo, e poi inizia la vallata dolcemente in discesa coperta di erba corta di pascolo. Ogni tanto mi affaccio in cucina e adesso stanno spelando le patate, mi offro di aiutare e il mio compito è di preparare la tavola: Cognetti è uno così, uno di quelli che non ti abbracciano quando arrivi, che ti studiano se non ti conoscono e che allo stesso tempo ti concedono tutto lo spazio per essere te stesso anche se ti trovi nel suo. Mi piace quando ti lasciano fare cose così, preparare la tavola, abitare uno spazio facendo cose di casa è il primo modo per sentirsi a proprio agio.

Alle pareti ci sono i disegni di Nicola Magrin, grande amico di Paolo che ha disegnato tutte le sue copertine e che dopo, nei racconti, verrà fuori, nelle sbronze insieme alle feste e nei trekking in Nepal. È bello vedere come si illuminano gli occhi di Paolo quando parla di lui, si vede il bene che si vogliono e me ne ero accorto già in un’altra occasione: ero stato a una presentazione di un libro di acquerelli di Magrin e a presentarlo era proprio Paolo. In quel caso, non avevo minimamente avuto il coraggio di andarmi a presentare: come dicevo, oltre che non abbracciarti quando arrivi non è nemmeno uno che ha la faccia che non vede l’ora di conoscere un altro fan.

Intanto il pranzo è pronto e ci sediamo a tavola, è vegetariano e io come al solito sono affamato ma cerco di darmi un contegno. Paolo si siede davanti a me e c’è un clima da rifugio, tutti insieme sulle panche a passarci le pentole per servirci, bevendo prosecco e ascoltando i racconti su quando hanno girato Le otto montagne, con Luca Marinelli che interpreta Berio, l’alter ego di Paolo, e Alessandro Borghi che fa Bruno il montanaro.

Racconta dei tre mesi trascorsi con Marinelli che studiava ogni sua mossa e di come invece Borghi è arrivato pochi giorni prima dell’inizio delle riprese e si è come trasformato in uno che in montagna non solo ci è nato, ma anche che non l’ha mai lasciata. Attori diversi con diversi modi di essere e fare l’attore (personalmente, da quando li ho visti in Non essere cattivo, non vedevo l’ora tornassero a fare qualcosa insieme).

Paolo osserva, mangia piano e non si scompone, e io inizio a sentirmi “a casa”: gli faccio un po’ di foto tra un bicchiere e un boccone di patate e un po’ di formaggio di lì con marmellate fatte in casa, è un pranzo godurioso. Non so spigarmela questa cosa, ma è come se in montagna tutto fosse amplificato: avete presente il panino con il formaggio che ti fa la signora del rifugio quando arrivi sudato?

Imparagonabile rispetto al mangiarlo in città, non per il gusto ma per il significato. Idem per tutto il resto, la montagna amplifica tutto, il formaggio, la solitudine, la compagnia, i silenzi e i pensieri. La montagna mette fame e allo stesso tempo ti sfama con la sublimazione dei sensi.

Mentre scrivo mi viene in mente invece quello su cui insiste Paolo: la montagna non va idealizzata, ci tiene a sottolineare come gli umani di città si riferiscano alla natura come a un’entità tutta unita e un poco astratta, mentre li tutto ha un nome, il ruscello, la riva, il bosco, il prato. E se ha un nome ha anche un suo mondo, un suo essere, un suo suono e un suo odore.

Penso che uno dei motivi per cui ora ci si debba così impegnare a trattare meglio il mondo in cui siamo è anche per una progressiva spersonalizzazione e allontanamento del mondo della natura a noi. Ricordo una storia che avevo sentito di Tiziano Terzani: aveva messo gli occhi a tutti gli alberi attorno a casa sua per far capire a suo nipote che erano esseri viventi proprio come noi. E un altro fan di Terzani è proprio Paolo, che mentre siamo seduti davanti a casa sua bevendo caffè da tazze di latta mi racconta del rapporto con Folco, dell’ammirazione che ha per Terzani Senior, mi racconta della sua visione dell’anarchia e di Henry David Thoreau, e mi piace vedere come si sono attratti, come anime simili.

È come se vedessero la loro visione non solo convalidata, ma che li sta anche portando a dividere il percorso con persone che ammirano. Per questo mi piacciono le persone come Paolo, che piantano davanti alla loro casa gli alberi del loro percorso, come lui ha piantato betulle e pini, come ha messo dei sassi che si è portato a casa dai suoi viaggi nel piccolo ruscello che gli scorre davanti alla porta.

"Ho voglia di scrivere qualcosa di nero riguardo alla montagna, è come se per ora avessi sempre rifiutato di guardare a quel lato, ma c’è, è presente, e sempre di più ne sono consapevole". Ognuno di noi ce l’ha, e in montagna viene tutto amplificato. Io stesso so di averlo e forse non l’ho mai guardato veramente. E poi penso per lui sia anche una liberazione, mi chiedo come se la viva con i cartelli per le strade che portano a casa sua: "il paese delle otto montagne".

Mentre camminiamo nel bosco per raggiungere la radura in cui si svolgeva il festival che si era inventato qualche anno fa, lo fermano le persone, gli chiedono foto. Sono abituato a quando fotografo qualcuno per strada al fatto che venga fermato da persone che lo riconoscono, ma su un sentiero di montagna mi sembra più bizzarro, mi pare più un’invasione qui di quando accade in città, qui si viene per stare tranquilli, mi dico, ma poi vedo anche che le persone che lo fermano qui hanno un modo decisamente più docile che quando si trovano sull’asfalto.

Paolo è un anarchico che sa badare a se stesso prima che gli altri gli impongano delle regole, e che crede nella comunità al punto di creare un luogo per ospitare scrittori, un rifugio e una residenza d’artista per chi racconta a parole, con un dormitorio tutto fatto di legno, e accanto a ogni letto una finestra e una piccola scrivania.

Mentre camminiamo nel bosco mi racconta di come sia diventato più piccolo il suo mondo da quando sempre più persone lo conoscono, che gli amici di un tempo sono rimasti ma che è molto difficile farne di nuovi, vedo la sua tenerezza e vulnerabilità, spesso penso che il successo possa essere molto difficile da gestire e che inevitabilmente ti porti a separarti dal mondo. Penso che parte del suo stare in montagna sia anche questo, stare tra i montanari è un modo per non perdere il contatto con tutto il vero del mondo, e più quel vero è un po’ scontroso e più ha potere di riportarti a terra.

Mi parla del restare, del rimanere, del non continuare a spostarsi, “mi sono rasserenato ultimamente: il fare yoga parla bene del mio momento, il mio momento del fare come gli alberi mi dice che non possono spostarsi se hanno un problema ma devono cavarsela lì per lì, senza muoversi come noi animali facciamo abitualmente, evitando i problemi, andandocene via”. Mi viene da pensare, da come scrive, che Paolo li abbia guardati da vicino e non evitati, non perché sia risolto ma perché sembra in pace con il suo essere, qualunque cosa sia, ti trasmette tranquillità mentre parla, e poi è curioso, mi piace il suo non fare la star e farmi domande sulle cose più diverse.

Il pomeriggio scorre tra chiacchiere e foto, cioccolato che in montagna non manca mai e caffè, Laki e Libera sono sempre accanto a noi e per fortuna non hanno litigato, scendiamo verso Babette per una birra al tramonto e poi è tempo di tornare alla città. Mentre guido penso che ogni tanto non è facile essere famosi, e una volta che lo si è per aver scritto dei libri è difficile scriverne altri con argomenti diversi da quelli che ti hanno fatto conoscere; ma che se più persone usassero così la loro fama questo mondo sarebbe un posto più sano, se più persone si impegnassero a creare comunità come Paolo sta facendo sarebbe più facile vedere che il futuro può essere davvero luminoso.

E, da anarchico, non posso che dire questo: anarchia è darsi delle regole prima che se le diano gli altri, e allo stesso tempo rendersi conto delle proprie responsabilità, abitare il mondo nel modo più corretto possibile secondo noi stessi, costruirsi e crescersi perché volersi bene è la prima regola per stare bene.

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