Black Wall Street, ecco di che cosa voleva parlare Prince. All’inizio del Novecento, un gruppo d’imprenditori neri aveva comprato alcuni terreni a Tulsa, Oklahoma. Erano diventati una enclave ricca, uno dei primi esempi di prosperità di una comunità afroamericana negli Stati Uniti. Nella primavera de 1921 un ragazzo nero fu accusato di avere violentato una bianca. Il distretto fu razziato, ci furono 300 morti, Black Wall Street fu distrutta. Per Prince, era l’esempio perfetto dell’interconnessione fra razzismo e imprenditorialità. Negli ultimi mesi di vita fantasticava di scrivere un libro che avrebbe contribuito a risolvere il problema.
È uno degli episodi che Dan Piepenbring racconta in The Beautiful Ones. L’autobiografia incompiuta (Harper Collins, disponibile dal 14 novembre). Più che un’autobiografia incompiuta, racconta l’autore a Rolling Stone, è un’autobiografia abbozzata. Per quattro mesi, Piepenbring ha collaborato con Prince alla stesura del libro, un progetto interrotto dalla morte del musicista. Quel che resta è un volume diviso in quattro parti: il racconto di Piepenbring degli incontri con Prince; uno scritto del musicista sui primi anni di vita; una raccolta di fotografie e testi autografi; il trattamento originale del film Purple Rain.
«Non voleva scrivere un’autobiografia tradizionale», spiega Piepenbring, «né aveva interesse a demistificare il suo personaggio. Al contrario, amava il mistero. Non voleva che il libro servisse a risolvere il puzzle della sua personalità». I due si parlarono per l’ultima volta al telefono il 17 aprile 2016. «Ciao Dan, sono Prince. Volevo dirti che sto bene». Sarebbe morto quattro giorni dopo.
1 L’autore ha avuto il lavoro grazie a un saggio
Dopo avere selezionato un certo numero di potenziali co-autori, Prince chiese loro di scrivere un saggio sul rapporto con la sua musica. «Era un compito paralizzante», racconta Piepenbring. Lo scrisse di getto e sbagliò l’attacco: «Quando ascolto Prince, ho la sensazione di violare la legge». La frase scatenò l’ira del musicista. «La musica che faccio non ha niente a che vedere con il violare la legge. Scrivo in armonia».
2 L’autore non sa perché è stato scelto
Editor di Paris Review, Piepenbring non era una star del giornalismo, eppure fu preferito agli altri candidati. «E davvero non saprei dire perché. Prince amava sperimentare, gli piaceva l’idea di lavorare con un autore non affermato. Apprezzava il fatto che non avessi preconcetti. La svolta è avvenuta quando gli ho chiesto perché mai volesse pubblicare per Harper Collins giacché l’industria discografica aveva ereditato i suoi metodi peggiori proprio dai grandi editori. S’illuminò. Capì che parlavamo lo stesso linguaggio». Piepenbring non era una grande firma ed era fan di Prince: è stato forse scelto perché malleabile? «Non lo escludo», ammette il giornalista. «Da una parte, Prince amava coltivare nuovi talenti. Dall’altra, voleva mantenere il controllo e sapeva di poterlo esercitare con un autore che non era un suo pari».
3 Prince stava ragionando sulla mortalità
La scomparsa di amici, di alcuni famigliari e del figlio aveva reso Prince consapevole della sua mortalità. È uno dei motivi che lo spinse a raccontare la sua storia in un libro, una decisione connessa al tour Piano & A Microphone durante il quale inframmezzava le canzoni con brevi racconti. «In un modo o nell’altro, aveva capito che era giunto il momento di elaborare il passato».
4 Era un mix di ordine e libertà
Negli appunti che Prince consegnò a Piepenbring descriveva il padre come un credente devoto e responsabile, la madre come uno spirito libero. Uno rappresentava l’ordine, l’altra la libertà. «Questa dualità era dentro di lui, era ciò che lo rendeva umano. Il funk era la chiave di lettura della sua vita. Anche lui, come quello stile, era una mix perfetto di disciplina e improvvisazione».
5 Voleva parlare dello sfruttamento dei neri
«E ha scelto un co-autore bianco: strano, eh? Del resto, le sue band sono sempre state interrazziali». Nella testa di Prince, razza e sfruttamento della creatività erano strettamente connessi. «Sapeva che gli artisti neri venivano trattati diversamente dai colleghi bianchi. È una parte essenziale della storia che voleva raccontare». Durante il loro primo incontro a Paisley Park, la residenza del musicista a Minneapolis, Prince chiese a Piepenbring: «Possiamo scrivere un libro che contribuisca a risolvere il problema del razzismo?».
6 Faceva musica per re-immaginare se stesso
Prince era impegnato nella ridefinizione costante della sua personalità e metteva in musica non la persona che era, ma quella che avrebbe voluto diventare. Viveva nel presente, eppure conservava foto e oggetti del passato, alcuni dei quali sono riprodotti nelle pagine di The Beautiful Ones. Quando Piepenbring è entrato nuovamente a Paisley Park dopo la morte del musicista, si è stupito nel ritrovare un portafoglio appartenuto al padre. «Lo aveva conservato per tutto quel tempo. Quando l’ho visto mi sono venute le lacrime agli occhi».
7 Non amava più i testi hot
Quando qualcuno suonava una delle sue vecchie canzoni spinte, Prince chiedeva di fermare la musica. «Credo derivasse dalla fede, era testimone di Geova. Fuggiva dalla sessualità che era stata una componente fondamentale della sua vita creativa». Non era diventato un bacchettone. Parlava apertamente delle sue avventure sessuali. «E lo faceva con un’ironia che un tempo non aveva».
8 Poteva ritirare la biografia dalle librerie
«Un giorno, a New York, mi si avvicinò e mi chiese: ti hanno pagato? Voleva che fossimo complici, che facessimo squadra nell’avanzare le richieste all’editore». Prince insistette per inserire nel contratto una clausola inusuale: la facoltà di chiedere il ritiro della biografia dalle librerie qualora non si fosse più riconosciuto nel testo. «Harper Collins fece resistenza. Sarebbe stato un precedente estremamente pericoloso». Prince non mollò e la clausola fu inserita nel contratto. In caso di ritiro dalle librerie, però, il musicista avrebbe pagato a Harper Collins una somma ingente a titolo di risarcimento.
9 Non amava le radio
Era convinto che radio e case discografiche non avessero alcun interesse a far conoscere al pubblico i grandi talenti. «Diceva che avrebbero dovuto favorire la diversità e invece standardizzavano i gusti. Una volta trovato un Ed Sheehan o una Katy Perry, cercano di replicarne la formula. Il music business non ha più a che fare con la musica, ma con le personalità delle star, così diceva. Non è una novità. Nel film Purple Rain a un certo punto viene inquadrato un graffito su un muro. Dice: distruggi la top 40».
10 Paisley Park non era Neverland
Prince non viveva separato dal mondo. «Era informato su quel che accadeva, era aperto alle novità, viveva nel suo tempo. Paisley Park, era un posto isolato, l’ideale per creare, ma non era disconnesso dalla realtà». Se Neverland di Michael Jackson era pensato come un posto magico, Paisley Park era un luogo di lavoro. «Prince era stanco di essere considerato una specie di alieno. Il libro era il suo modo per dire: guardatemi, sono umano».