A lungo mi sono posto un quesito: chi è Frank Zappa? Qual è il suo genere? Le domande sono scaturite quando, anni orsono, mi sono trovato innanzi al corpus discografico del genio di Baltimora. Altre band, altri artisti sono sempre riuscito a incasellarli: quello fa pop, quello prog, l’altro new wave, l’altro ancora è un cantautore e via dicendo. Con Zappa ho passato un sacco di tempo a non capirci nulla, a non sapere come e dove collocarlo. E sono sicuro che tutt’oggi ci sono persone che la pensano come io la pensavo. Perché Zappa è inclassificabile.
Solo qualche tempo dopo, penetrando le molte facce della sua discografia, mi sono accorto che mi stavo sbagliando, il mio tentativo di incasellare Zappa in questa o quella nicchia di generi era totalmente assurdo. Zappa è una specie di caleidoscopio che a seconda di come lo ruoti cambia faccia. O meglio, la faccia rimane sempre la stessa, quella sardonica con i baffi e la mosca. Una faccia che dalle foto sembra dirti «non sforzarti di capire, non potrai mai farlo». Zappa è sempre stato avanti e sempre lo sarà, quindi sempre sfuggirà alle catalogazioni, alle definizioni.
Dando per compreso tale assunto ho potuto muovermi meglio in quello che è il suo universo. E ho potuto comprendere che tutto nasce da uno smisurato amore per certe frange della musica contemporanea (Edgard Varèse in primis) unito ad altrettanto smisurato amore per il rock’n’roll. Entrambe musiche dello Zappa adolescente, che per tutta la vita rincorrerà una specie di equilibrio tra questi due amori antitetici. Come unire Louie Louie e Ionisation in un unico brano? Sarebbe come se in Italia qualcuno avesse voluto cercare un punto d’incontro tra Cuore matto di Little Tony e Serenata per un satellite di Bruno Maderna. Cose folli che solo i folli possono pensare. Ma i folli spesso sono i più illuminati, non hanno paletti in testa e riescono a spingersi verso luoghi che il senso comune eviterebbe.
E così ha fatto Zappa in tutta la sua carriera e si è divertito a far calderoni di roba tra l’altamente orecchiabile e l’avanguardia pura. E ha messo in scena incredibili cabaret a base di scenette deliranti sul palco e testi che definire assolutamente NON politically correct è un eufemismo. Frank mette tutti alla gogna servendosi del suo humour, bastona usi e costumi della società americana, parla sboccato, non ha paura di prendere per i fondelli chiunque, a qualunque sesso, razza o ceto appartenga. Zappa è una persona libera che osserva ciò che gli sta intorno e ne trae sempre spunto per incredibili testi dotati di gustosi doppi sensi che, a uno studio attento, sono perfette analisi del mondo moderno.
Frank Zappa è un personaggio libero (Absolutely Free si chiama uno dei suoi album), di una libertà così forte da dare fastidio. Libertà che a un certo punto gli fa venire addirittura in mente di candidarsi come presidente degli Stati Uniti, libertà che permette di scegliersi i migliori super-musicisti sulla scena che poi fa sudare sette camicie per eseguire le sue partiture (moltissima musica di Zappa nasce direttamente su spartito, come i pezzi classici), libertà che gli ha fatto incarnare decine di sé: lo Zappa rockstar, lo Zappa jazzista, lo Zappa compositore “serio”, lo Zappa guitar hero, lo Zappa politicante, lo Zappa intrattenitore.
Il 21 dicembre 2020 Frank Zappa avrebbe compiuto 80 anni. Per l’occasione ho pensato che sarebbe stato interessante focalizzare i suoi 10 album assolutamente indispensabili. Non so se una cernita come la mia gli avrebbe fatto piacere, probabilmente mi avrebbe insultato (come spesso ha fatto con i giornalisti musicali: «Buona parte del giornalismo rock è composto da gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere» ebbe a dire un giorno) asserendo che ogni sua opera era qualcosa della massima importanza nel suo percorso come compositore. Nonostante ciò ho deciso di farmi carico di tale compito ingrato ma utile: farmi strada tra il suo immenso corpus discografico (un centinaio di titoli tra album in studio e dal vivo) e fornire, magari a chi lo conosce poco, una serie di lavori essenziali da cui partire per poi addentrarsi a conoscere più a fondo la sua ricerca. Non una classifica, ma un ventaglio di ciò che Zappa ha proposto in vita, un tentativo di mostrare le sue differenti facce in modo da iniziare a comprenderlo. Anche se, come dicevo all’inizio, ogni tentativo sarà da considerarsi solo come un tentativo, non ci sarà mai modo di affermare «Zappa è questo, Zappa è quello». Perché Zappa è tutto.
1“We’re Only in It for the Money” (1968)
All’inizio ci sono i Mothers of Invention, la stralunata band che Frank mette in piedi per dare in pasto al mondo le sue prime scorribande musicali. Moltissimi ancora parlano di tal gruppo con un senso di nostalgia, perché qui c’è uno Zappa giovane e fresco, disposto a divertirsi e divertire con una congrega di musicisti magari non all’altezza dei grandi nomi con cui collaborerà in futuro, ma sicuramente compatti e dotati ognuno di personalità ben definita. Forse anche troppo per lo spirito da leader del nostro. We’re Only in It for the Money (con la sublime parodia di Stg. Pepper’s in copertina, tanto simpatici e carini erano i Beatles quanto sporchi e marci sono Zappa e i suoi) è un capolavoro stretto tra altrettanti capolavori come l’esordio di Freak Out (1966), Absolutely Free (1967) e Uncle Meat (1969). Money ha però un più spiccato senso melodico e canzoni immediatamente seducenti unite in una lunga suite che alterna momenti demenziali a seriose sortite nell’avanguardia. I testi se la prendono in larga parte con i rappresentanti del flower power, descritti da Zappa come poveri mentecatti presi dai loro slogan di pace & amore, ma in realtà borghesi che sfuggono dalla vera realtà.
2“Hot Rats” (1969)
Nel 1969 Zappa dà il benservito ai Mothers e si imbarca nella sua seconda prova solista (la prima era stata, l’anno precedente, Lumpy Gravy, composizione avanguardista a base di chiacchiere registrate, melodie e dissonanze assortite). In Hot Rats Zappa cambia parecchio le carte in tavola rispetto al periodo Mothers. Anzitutto tira fuori un disco in gran parte strumentale, poi la musica si fa meno tendente all’ironia si concentra su una serie di scorribande jazz-rock che caratterizzano anche il suo prossimo futuro. L’album è uno dei più importanti nella storia del rock per il suo equilibrio perfetto tra diversi generi e una serie di composizioni che faranno la fortuna del nostro, su tutte Peaches en Regalia, uno dei suoi brani più conosciuti, dotato di ritmo scanzonato, melodia graffiante e arrangiamento da paura. Zappa si fa accompagnare dal polistrumentista Ian Underwood e da una serie di batteristi. Ma l’ospitata più gustosa è quella di Captain Beefheart, amico-nemico di Frank (che gli produrrà Trout Mask Replica) che mette in mostra la sua voce di cartavetro nella mitica Wille the Pimp, storia del pappone Willie descritto dalla testa ai piedi (i capelli, i pantaloni color kaki, le scarpe lucide), mentre nella hall di un albergo parla con una delle sue “ragazze” con tono ambiguo e pieno di doppi sensi.
3“Burnt Weeny Sandwich” (1970)
I vecchii Mothers sembrano rinascere, ma in realtà non è vero, Burnt Weeny Sandwich contiene infatti un mix di inediti di studio e live (caratteristica di Zappa è quella di presentare spesso dal vivo brani che non compaiono sui dischi in studio) incisi tra il 1968 e il 1969. L’album è in prevalenza strumentale, con rocamboleschi cambi di scenario che rendono i brani decisamente imprevedibili nel loro muoversi tra rock sghembo, psichedelia, jazz, combinazioni strumentali vicine alla classica contemporanea e i consueti momenti grotteschi. Da Holiday in ai 18 esaltanti minuti di The Little House I Used To Live è pura goduria zappiana. A inizio e fine disco poi, giusto per scombinare le carte, ci sono un paio di stranianti doo-wop: WPLJ e Valarie, cover di hit dei Four Deuces e di Jackie & The Starlites. E quando Zappa canta lascivo certi testi d’amore, lasciando intravedere tutti i doppi sensi del caso, c’è da sbellicarsi.
4“Just Another Band from L.A.” (1972)
A un certo punto Frank torna sui suoi passi, mette in piedi una nuova versione dei Mothers of Invention (con dentro i due ex Turtles Howard Kaylan e Mark Volman, detti Flo & Eddie) e si imbarca in dischi in studio (Chunga’s Revenge, 1971) e tour nei quali mette da parte i recenti sfoghi jazz-rock per tuffarsi in un’orgia di divertimento e dissacrazione. Lo Zappa di questo periodo è puro cabaret con accenni rock’n’roll, blues, doo-wop e via andare. Just Another Band from L.A. è un live registrato a Los Angeles nel 1971 che contiene uno dei colossi della discografia zappiana: i 24 e passa minuti di Billy The Mountain, un vero delirio tra musica e demenzialità che narra l’intricata vicenda di una montagna parlante di nome Billy, della sua “adorabile” moglie Ethel e di un albero che cresce sulle sue spalle. Un bel pretesto per una critica al vetriolo di usi e costumi della cultura americana.
5“The Grand Wazoo” (1972)
Non contento da lì a poco Zappa torna al jazz-rock per concludere una trilogia iniziata con Hot Rats e proseguita con Waka/Jawaka (1972). The Grand Wazoo rappresenta un altro grande momento di Zappa-music quasi del tutto strumentale e intrisa di succulente invenzioni. L’album viene registrato in un momento particolare: Zappa è confinato su una sedia a rotelle a seguito dell’aggressione subita sul palco da un fan che lo ha scaraventato nella buca dell’orchestra, durante un concerto a Londra. Per non lasciare troppo spazio all’ozio della convalescenza, si butta a scrivere partiture su partiture. The Grand Wazoo è una sorta di concept che narra le gesta di Cletus Awreetus-Awrightus, imperatore alla guida di un esercito musicale impegnato in una lotta contro i Mediocrates De Pedestrium, ovvero il mondo dello show business che instupidisce le masse con pop di bassa lega.
6“One Size Fits All” (1975)
One Size Fits All è uno dei dischi più prog di Zappa. Oddio, a dire il vero tutta l’opera zappiana è l’emblema stessa del progressive. Diciamo che in questo album è come se Frank avesse ascoltato un po’ di dischi di questo genere e avesse pensato «adesso vi faccio vedere io». E inizia con una roba sbalorditiva: Inca Road, 9 minuti di fuochi d’artificio, una band incredibile con dentro (solo per citarne alcuni) George Duke alle tastiere, Chester Thompson (poi nei Genesis) alla batteria e la straordinaria Ruth Underwood a svariate percussioni. Tempi dispari, cambi ritmici come se piovesse, fughe mozzafiato con gli strumenti in partiture fuori da ogni realtà, assoli di chitarra, tastiere e vibrafono che uno pensa «è impossibile suonare in quel modo». Eppure. Oltre ai numeri più progressive il resto dell’album vira sulle atmosfere pop dei dischi immediatamente precedenti (Over-Nite Sensation, 1973, e Apostrophe, 1974), quelli della fase zappiana più fortunata a livello di vendite. Con il nostro intento a piegare il pop ai suoi voleri, mai il contrario.
7“Joe’s Garage” (1979)
Tre atti (pubblicati prima su un singolo LP e poi su un doppio) di vero spasso. E per “spasso” intendo divertimento puro, anche solo a sentire come diavolo suonano qui i musicisti (tra i tanti Terry Bozzio, Vinnie Colaiuta, Tommy Mars, Warren Cuccurullo), evidentemente frustati a sangue da Zappa in ore e ore di prove fino a ottenere la perfezione. L’opera si avvale del misterioso Central Scrutinizer per narrare le avventure di Joe, dal ricordo del garage in cui suonava con la sua band fino all’incontro con una strana comunità religiosa (non è nominata, ma si stratta di Scientology), alla descrizione di svariate pratiche sessuali, compresa quella virtuale ante-litteram, al ritrovarsi in una nazione in cui è proibita ogni forma di musica. In Joe’s Garage Zappa dà veramente il massimo, mettendo insieme tutte le istanze musicali esplorate finora, che sono tante e si incastrano alla perfezione in pezzi che esplorano tutto lo scibile, dal rock, al reggae, al prog, al jazz, al punk, alla disco, al rap e tutto quello che vi viene in mente. Una vera Zappa-enciclopedia.
8“Shut Up ‘n Play Yer Guitar” (1981)
Questo è per chi ama lo Zappa chitarrista. Paradossalmente (vista la complessità della sua musica e le performance richieste agli esecutori) non è dotato di tecnica straordinaria, almeno se paragonato a mostri che hanno suonato con lui, come Steve Vai. Frank suona molto “a cuore” lasciandosi andare in quelle che sono vere e proprie oasi all’interno di molti suoi brani. Oasi che si protraggono per svariati minuti nei quali Frank si perde nei suoi sempre ispirati soli. Per mettere in luce questo aspetto nel 1981 fa uscire un cofanetto con 3 LP pieno zeppo di assoli estrapolati dalle oasi create in svariate esibizioni dal vivo, isolati e trasformati in brani veri e propri. Se avete bisogno di farvi una cultura chitarristica questo è lo Zappa che fa per voi.
9“Jazz from Hell” (1986)
Negli anni ’80 Frank capisce che non esiste un musicista così bravo da interpretare alla perfezione le sue partiture. Nonostante le fatiche titaniche alle quali ha sottoposto turnisti e orchestrali la sua ossessione non si è placata. A chi affidarsi quindi per eseguire le sovrumane musiche che ha in mente? Per non avere a che fare con umani imperfetti e per non pagare infruttuosi stipendi? Ma a una macchina naturalmente. Succede che Frank si innamora del Synclavier, sintetizzatore e campionatore musicale in grado di suonare l’insuonabile, basta scrivere lo spartito lui esegue senza lamentarsi o chiedere soldi. Jazz from Hell è basato in larga parte su questo aggeggio, otto pezzi strumentali nei quali si può capire quanto la mente di Zappa si sia spinta oltre. Oltre il rock, il jazz, la musica classica e contemporanea in un uragano di note realmente impossibile. Curiosità: anche se autore di un disco senza testi Frank non sfugge alla censura. La RIAA (l’associazione americana dell’industria discografica) applica infatti all’album l’adesivo “Parental Advisory” per contenuti espliciti. Ciò a causa del titolo di un brano: G-Spot Tornado.
10“The Yellow Shark” (1993)
Verso la fine della sua esistenza Zappa viene a contatto con l’Ensemble Modern, gruppo tedesco di 18 elementi diretto da Peter Rundel e specializzato in musica contemporanea. Dopo svariate brutte esperienze con orchestre le cui esecuzioni non lo hanno soddisfatto, il nostro è titubante. Ma alla fine accetta portando molti suoi brani (alcuni nati esplicitamente per ensemble orchestrale, altri riarrangiati per l’occasione) a essere magnificamente eseguiti dal vivo a Francoforte, a Berlino e a Vienna e poi documentati in The Yellow Shark. Fino all’ultimo però Frank non perde il vizio di essere dissacratorio, specie quando (in omaggio alle sue origini italiane) intitola un serissimo pezzo di classica contemporanea Questi cazzi di piccione (sic) e lo dedica ai volatili che invadono Venezia.
Con l’avanzare della malattia (un tumore alla prostata) Zappa è sempre più debilitato e a volte non riesce ad assistere ai concerti, ma quando lo fa la sua soddisfazione è grande, in qualche caso riesce addirittura a dirigere l’orchestra trovando finalmente la quadratura del cerchio in una formidabile unione tra alto e basso. Zappa si impone definitivamente come ciò che fin dall’inizio è stato, non una semplice (per quanto particolare) rockstar, ma uno dei più grandi compositori dell’era moderna.