Rolling Stone Italia

25 anni dopo, ‘Rent’ è ancora un simbolo gioioso di precarietà

Un virus assassino, dipendenze, gentrificazione, povertà, esistenze da reinventare giorno per giorno. Il mondo descritto dal musical che debuttò nel 1996 somiglia al nostro presente

Foto: XAMAXullstein bild via Getty Images

Nella vita esistono poche certezze. Una di queste è che anche i più feroci detrattori dei musical – quelli che proprio non sopportano che gli attori inizino a cantare nel bel mezzo di un’azione, quelli che trovano melensi gli arrangiamenti per orchestra e i virtuosismi vocali, quelli che detestano i balletti e le coreografie – di solito cambiano idea dopo aver visto Rent. È capitato nel gennaio 1996, quando lo spettacolo debuttò, e capita anche nel gennaio 2021, quando questo capolavoro assoluto spegne 25 candeline in sordina, perché i teatri sono chiusi causa Covid e le celebrazioni impossibili, ivi compreso il cosiddetto tour d’addio che avrebbe dovuto solcare l’America e l’Europa con centinaia di repliche.

Motivo in più per approfittare di questi ultimi giorni di vacanza per riguardare la versione cinematografica del 2005, ormai diventata un classico film da festività, visto che la scena si svolge tra il Natale del 1989 e il Natale del 1990. È molto fedele a quella teatrale, anche perché include tutti gli attori della produzione originale di Broadway (con l’eccezione di Tracie Thoms e Rosario Dawson, che sostituirono Fredi Walker e Daphne Rubin-Vega, ormai troppo attempate per interpretare delle dicannovenni).

La locandina del film del 2005 tratto dal musical

Il motivo di questa fascinazione è da ricercarsi in svariati fattori. Prima di tutto, il contesto: lontano anni luce dai mondi fiabeschi di molte altre opere simili, Rent è ambientato all’interno di un ex fabbricato industriale di New York, occupato da un gruppo di giovani e visionari squatter che non sono in grado di pagare l’affitto in una delle città più care del mondo, ma non vogliono rinunciare ai loro sogni di gloria. C’è Mark, regista indipendente di belle speranze; Roger, ex cantante di un gruppo rock alla ricerca della sua musa perduta; Mimi, ballerina che per mantenersi si esibisce in un locale di lap dance; Maureen, performer e attivista lesbica che con la compagna Joanne rivendica l’occupazione degli immobili sfitti come atto di ribellione sociale; Angel, drag queen; Tom, studioso di roboetica che viene costantemente cacciato dalle università in cui insegna per le sue idee radicali. E c’è anche Benny, che ha sposato la figlia del proprietario dell’edificio ed è passato dall’altra parte della barricata e ora tenta di sfrattare i suoi ex amici per buttare giù il palazzo e costruire dei nuovissimi studi cinematografici, al servizio dell’industria dell’entertainment e non più dell’arte fine a se stessa.

Al di là della trama, però, l’aura che circonda il musical nasce da una tragica fatalità, che lo ha reso leggendario (suo malgrado) ancora prima del debutto. L’autore, Jonathan Larson, aveva vissuto davvero per un po’ come squatter ed era considerato uno dei giovani compositori e sceneggiatori più promettenti della scena teatrale newyorkese, anche se non aveva ancora prodotto molto, tant’è che a Rent lavorò per anni seduto in una tavola calda dell’East Village. Dopo molti sforzi e sacrifici, riuscì a mettere in piedi la prima rappresentazione in un teatro indipendente lontano dalle luci di Broadway, il che è più di quanto molti suoi colleghi riescano a fare in un’intera carriera. Ma la notte prima del debutto, il 25 gennaio 1996, successe l’imponderabile: Larson morì improvvisamente per un aneurisma dell’aorta, a soli 36 anni.

Sconvolto dal dolore, il cast decise di andare in scena comunque in suo onore, ma senza ballare sul palco: sarebbero rimasti semplicemente immobili, cantando le canzoni una dopo l’altra. Impresa che si rivelò impossibile, perché arrivati a metà rappresentazione, durante la performance di La vie bohème, si lasciarono travolgere dalle emozioni e ricominciarono a muoversi in libertà. Da allora, in ricordo di quella serata, ogni replica di Rent si apre con gli attori, immobili sul palco, che intonano insieme la canzone che forse più di tutte simboleggia lo spettacolo: Seasons of Love. Un brano che si chiede retoricamente in che unità scegliamo di misurare un anno di vita di una persona: nei 525.600 minuti che lo costituiscono? In tazze di caffè? In risate? In lacrime? In tramonti e albe?

Vagamente ispirato ai temi della Bohème di Puccini, Rent mantiene tutto il romanticismo delle sue atmosfere, ma senza mai scadere nello sdolcinato. Anzi, a dirla tutta quando uscì era considerato fin troppo crudo da una parte del pubblico e della critica: tra i personaggi principali, tre hanno l’Aids e due combattono con una forte dipendenza da eroina. Sia a Broadway che nel film, la rappresentazione delle piaghe che afflissero New York e molte altre metropoli del mondo negli anni ’80 e ’90 è estremamente esplicita: spaccio, violenza a ogni angolo della strada, scambio di siringhe, povertà estrema, gentrificazione. Ci sono dei momenti che spezzano letteralmente il cuore, come il coro intonato da un gruppo di supporto per persone positive all’HIV che, in un’epoca precedente agli anti-retrovirali, erano praticamente condannate a morte certa: “Perderò la mia dignità? A qualcuno importerà? Domani mi sveglierò da quest’incubo?”.

Non bisogna però fare l’errore di considerarlo un’opera triste, anzi: Jonathan Larson era una persona estremamente spiritosa ed è continuamente evidente all’interno del musical. Come quando Roger e Mimi restano soli in una stanza buia rischiarati dalla luce della Luna, ma Roger fa notare che «forse non è affatto la Luna, ho sentito dire che Spike Lee sta girando in fondo alla strada». O come quando Benny taglia il riscaldamento all’intero palazzo alla vigilia di Natale nella speranza di far fuggire gli inquilini, e Tom esclama esasperato «Buon compleanno, Gesù!».

L’affitto del titolo non è solo quello dell’alloggio che i protagonisti non riescono a pagare, ma il simbolo di un’esistenza precaria, da reinventarsi gioiosamente giorno per giorno per non soccombere al sistema. L’intera sceneggiatura è pervasa da un senso di riscatto e positività travolgente, come a trasmettere che, nei momenti più difficili e davanti agli ostacoli più insormontabili, chi vive nel presente gode delle piccole cose e mette tutto se stesso in ciò che fa è destinato a vincere comunque, anche se la società lo considera un outsider e un perdente. Non a caso, la rappresentazione si chiude con l’intero cast che canta questi versi: “Non c’è un’altra strada / non c’è un altro modo / non c’è un altro giorno all’infuori di oggi”.

A livello di sound, le canzoni di Rent riflettono la tradizione e l’attualità americana, con arrangiamenti che suonano ancora oggi contemporanei: il rock di Out Tonight e One Song Glory, il pop di I’ll Cover You, la slam poetry di Over the Moon, gli echi anni ’70 di Santa Fe, il rap di Today 4 U. Tutte godibilissime anche al di fuori del contesto del musical, sono diventate ormai delle hit e delle ispirazioni saccheggiate da chiunque, tant’è che la canzone di Natale di quest’anno di Radio Deejay, It’s All About Love, è proprio un rifacimento di Seasons of Love.

In questi ultimi venticinque anni, le dimostrazioni della rilevanza di Rent sono state innumerevoli. Innanzitutto, ha lanciato nella stratosfera le carriere di attori e cantanti allora quasi esordienti, come Anthony Rapp, Jesse L. Martin, Adam Pascal, Idina Menzel e Taye Diggs. Trasferitosi a Broadway a tempo di record, sull’onda dell’entusiasmo del pubblico, lo spettacolo è stato in cartellone ininterrottamente dal 1996 al 2008, diventando così uno dei più rappresentati della storia teatrale newyorkese, con oltre 5000 repliche. È stato nominato a dieci Tony Awards, gli Oscar dei musical, e ne ha vinti quattro; a Jonathan Larson, inoltre, è stato assegnato il premio Pulitzer postumo per la migliore opera teatrale. Chissà con che metro avrebbe misurato un anno come il 2020 (e il 2021, che è ancora tutto da scrivere).

Iscriviti