«Jazz e hip hop sono due estensioni della cultura afroamericana, come due rami dello stesso albero. C’è un reciproco riconoscimento tra i musicisti di questi due generi, un riconoscimento che ha trent’anni di storia», dice Ashley Kahn – storico della musica e giornalista, autore di libri fondamentali su classici come A Love Supreme – a proposito del rapporto tra jazz e hip hop, tema che esplorerà sabato 9 novembre durante un keynote organizzato da JazzMI.
«Gruppi come A Tribe Called Quest, Gang Starr e De La Soul non si consideravano eredi del soul o dell’R&B, ma del jazz. Non è un caso che uno dei primi singoli dei Tribe sia Jazz (We’ve Got), tra questi generi esiste un legame naturale: entrambi credono nell’autenticità e nel potere della voce individuale; entrambi amano l’improvvisazione e il groove; entrambi sono legati a un senso di comunità», continua Kahn, che allarga il campo delle analogie anche a elementi più strettamente musicali. «Ci sono molte idee condivise: la tradizione jazz è fondata sul “prendere in prestito” idee altrui, strutture, melodie e armonie usate come fondamenta per invenzioni musicali nuove. Se guardi all’hip hop, l’unica differenza sta nella strumentazione. Nel mondo jazz l’idea del sampling è considerata un sacrilegio, ma allo stesso tempo i jazzisti sono capaci di citare 15 canzoni diverse in un assolo. Sonny Rollins era una sorta di archivio ambulante di vecchie melodie, se ci pensi non è così diverso da un grande produttore».
L’incontro esaminerà questa storia d’amore nella sua interezza, analizzando i successi e gli errori nati da quest’unione. Per preparaci meglio all’evento, abbiamo chiesto a Kahn di scegliere cinque album fondamentali nati dall’intreccio tra i due generi. «Questi album rappresentano un momento specifico nella storia della musica e, allo stesso tempo, dimostrano quante idee e innovazioni siano scaturite dall’incontro tra artisti apparentemente diversi».
“The Low End Theory” A Tribe Called Quest (1991)
«The Low End Theory è stato un album rivoluzionario, una delle prime volte in cui un collettivo hip hop ha portato in studio un vero musicista jazz per registrare insieme musica originale. Ovviamente sto parlando di Ron Carter, membro del Miles Davis Quintet degli anni ’60 con Herbie Hancock e Wayne Shorter. L’hanno invitato in studio, hanno registrato la musica e poi ci hanno rappato sopra. Un disco fondamentale».
“Jazzmatazz Vol.1” Guru (1993)
«Jazzmatazz è il primo album di sample prodotti esclusivamente sulla base di un catalogo jazz. Prima di Guru i DJ mescolavano funk, soul, a volte anche il rock. Ma Jazzmatazz è un disco unico, è un progetto a tema jazz ed è ancora celebrato come un disco fondamentale. Guru ha dimostrato quanto potesse essere sofisticata la musica nata dall’unione di questi due generi».
“Hard Groove” The RH Factor (2003)
«Gli anni che vanno dal 1990 al 2000 rappresentano una sorta di “Second Golden Age” del rapporto tra jazz e hip hop. Questo disco ha una storia divertente, perché è nato in un momento preciso e in un posto specifico, cioè gli Electric Lady Studios. Lì, all’epoca, Common, Roy Hargrove e i Roots erano impegnati a registrare i loro progetti: passavano da una sala all’altra, si scambiavano idee musicali, si aiutavano. Il progetto RH Factor è nato così, nel bel mezzo di un momento straordinario per la storia della musica. Questo disco dimostra che il rapporto tra jazz e hip hop non è a senso unico, ma è fruttuoso per entrambi».
“Black Radio” Robert Glasper Experiment (2012)
«Robert Glasper è la star del momento. È una star del jazz, dell’R&B e dell’hip hop. Lavora bene con i musicisti jazz, ma anche con i rapper. Non potevo non inserire un suo album in questa lista, e ho scelto Black Radio perché ha vinto il Grammy R&B, non quello jazz, e perché è l’album che ha portato Glasper a collaborare con Kendrick Lamar per To Pimp A Butterfly. Glasper è quello che in America chiamiamo “A Triple Threat”: è un performer, un compositore e un produttore apprezzato in entrambi i generi».
“In The Moment” Makaya McCraven (2015)
«Makaya è nella lista perché ci permette di capire cosa sta accadendo adesso. Con il suo disco volevo dimostrare che quello tra jazz e hip hop è un matrimonio che dura da 30 anni, un matrimonio ancora felice e che produce musica meravigliosa. Makaya McCraven, in particolare, è un jazzista che usa tecniche hip hop, come il sampling e il cut and paste. Nel mondo dei vecchi musicisti il suo approccio è un sacrilegio, teoricamente prendere una performance e tagliarla a pezzetti è vietato. Eppure Makaya l’ha fatto. Non solo, il suo approccio è la dimostrazione di quanto sia importante l’idea di comunità, un’idea sparita dall’hip hop durante il periodo gangsta. Makaya ha registrato con musicisti di Chicago e Londra, e durante il suo tour organizza improvvisazioni aperte a cui tutti possono partecipare. È un produttore, un bandleader e un grande musicista, e rappresenta il futuro».