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50 anni dopo, ‘Tapestry’ di Carole King è ancora una grande storia di empowerment

Il 10 febbraio 1971 usciva il capolavoro della cantautrice americana, uno dei grandi dischi pop degli anni '70. Trasformazione, emancipazione, indipendenza: non sembra una storia del 2021?

Foto: Jim McCrary/Redferns/Getty Images

È facile dare per scontato Tapestry. È come se il secondo album di Carole King, al pari di altri capolavori del 1971, dal quarto dei Led Zeppelin a Blue di Joni Mitchell, sia sempre stato lì. Ai tempi, è stato in vetta alla classifica per 15 settimane, un traguardo che oggi sembra impossibile (con l’unica eccezione di Adele: 21 è stato primo per 24 settimane). Chi non c’era nel 1971, magari ricorda la versione di Where You Lead contenuta in Una mamma per amica.

E però Tapestry non può essere riassunto dai dati di vendita, dall’ubiquità, dai quattro Grammy vinti. Le storie contenute in quelle 12 canzoni gli conferivano una risonanza e una portata rare nel pop dell’epoca. Alcune di queste storie sono ancora attuali.

Chi ha visto il musical Beautiful lo sa: prima di Tapestry King era un’artista di tutt’altro tipo. Viveva sulla East Coast, era sposata col collega songwriter Gerry Goffin, aveva dei figli e intanto scriveva e registrava demo all’interno di quella specie di catena di montaggio del pop che era il Brill Building. Dopo la separazione da Goffin e il trasferimento in California nel 1968, King ha voltato pagina, abbracciando un nuovo stile: più Laurel Canyon, meno Times Square. Una traccia di questo passaggio è contenuta in Tapestry, per via della nuova versione di Will You Love Me Tomorrow, la hit del 1960 scritta da Goffin e King per le Shirelles che crea un legame col passato di autrice pura. L’arrangiamento più soft faceva capire che King era diventata un’artista più adulta, meno interessata ai suoni da Top 40.

C’è dell’altro. L’uscita di Tapestry coincise con l’avvento del movimento per i diritti delle donne. In quello stesso anno I Am Woman di Helen Reddy saebbe diventata il primo grande inno pop femminista. E sempre nel 1971 sarebbero usciti Blue e il debutto di Carly Simon. Tapestry comunicava il cambiamento culturale in atto fin dalla copertina dove King, in maglione grigio, posava seduta vicino alla finestra nella sua abitazione a Los Angeles. Era sola, eppure sembrava sicura, a suo agio, padrona di sé. Le pettinature e gli abiti femminili che indossava negli anni ’60 erano reliquie del passato, appartenevano a un’altra vita.

Tutta questa fiducia in sé, questa forza rinnovata si è riversata nelle canzoni di Tapestry scritte in gran parte da Carole King, anche per quanto riguarda i testi, una cosa per lei nuova. Il primo pezzo I Feel the Earth Move esprimeva in modo gioioso la sensazione d’essere travolti da un nuovo amore, ma il pianoforte suonato da King e gli assoli scambiati col chitarrista Danny Kortchmar proiettavano un senso di forza, l’idea che la protagonista fosse padrona di sé (King sapeva esattamente come voleva che i suoi dischi suonassero e ha sempre guidato le session, anche se ufficialmente Tapestry è prodotto da Lou Adler). Non diversamente, la narratrice di It’s Too Late esamina la fine di una relazione come un dato di fatto: è razionale, non sconvolta. Per il 50° anniversario è stata pubblicata la outtake Out in the Cold, già apparsa come bonus track nella ristampa su CD del 1999. È una confessione di infedeltà e una riflessione sul prezzo che si paga ed è espressa in modo razionale e adulto, è quasi un gesto di empowerment.

Tapestry, dove appaiono anche Joni Mitchell e James Taylor, all’epoca una coppia, si inserisce perfettamente nel filone cantautorale che stava cominciando a dominare il pop. In You’ve Got a Friend, rifatta da Taylor in quello stesso anno, e in Home Away King dimostra di possedere doti d’introspezione, pari a quelle dei colleghi. La sua versione di (You Make Me Feel Like a) Natural Woman, che aveva scritto con Goffin qualche anno prima, era spoglia e disadorna, specialmente messa a confronto con l’interpretazione di Aretha Franklin. Le nuove versioni delle vecchie canzoni di King erano spettrali, erano indie prima dell’indie.

Per quanto si identifichi King con i suoi amici celebri e con il cantautorato confessionale tipico di quegli anni, Tapestry è più di ogni altra cosa un grande disco pop. Carole King si era messa alle spalle gli studi di New York, ma non il mestiere e nemmeno la capacità di creare grandi melodie in grado di trascendere gli arrangiamenti per voce e chitarra tipici dell’epoca. Beautiful aveva un che di Broadway, il pezzo sul ribelle fuorilegge Smackwater Jack era R&B bello mosso, Where You Lead (con uno dei testi scritti dalla collaboratrice Toni Stern) evocava lo stile effervescente del Brill Building. Gli altri cantautori cercavano di suonare funky e sembravano legnosi. Lei no.

Ma la storia più grande racchiusa in Tapestry, quella che ancora ci parla, ha a che fare con la reinvenzione personale. Tramontava l’epoca degli autori assoldati per scrivere canzoni per terzi. Sempre più band e cantanti scrivevano il proprio materiale ed esprimevano senza filtri i propri sentimenti. Carole King aveva appena compiuto 29 anni, cominciava a intravedere la mezza età e annunciava nelle canzoni che aveva finalmente trovato sé stessa. È una storia rilevante nell’era Covid, con le persone che ripensano le loro esistenze e le loro carriere e ne approfittano per mettere in pratica i cambiamenti che hanno sempre desiderato? Ce lo dirà il tempo, ma se quelle persone prenderanno finalmente quelle decisioni, Tapestry sarà lì ad aspettarle.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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