Volete avere una rappresentazione perfetta di come sia cambiato Sanremo, di come sia clamorosamente mutata la Weltanschauung rivierasca? Allora, ambientazione: fine serata del venerdì sera dedicato alle cover. Parte lo svelamento della classifica parziale. Nel momento in cui viene annunciato il nono posto de La Rappresentante di Lista, s’alza il boato di disapprovazione dell’Ariston. Sì: boato di disapprovazione.
Prendetevi questo fotogramma come punto di riferimento, e riavvolgete il nastro: tornate di nuovo alla Sicilia, sì, ma stavolta non sotto forma di Dario Mangiaracina e Veronica Lucchesi, ma di Carmen Consoli, anno 1997. Come racconterà la stessa Carmen: «Al primo feedback di chitarra elettrica, salendo sul palco ed accendendo l’ampli, ho visto le facce sconvolte del pubblico». E qualche anno più tardi, 2000, altro fotogramma: un quintetto torinese dall’aria più o meno no global porta la cassa in quattro, la dance da club culture con tanto di acidate e un testo un po’ d’amore un po’ sull’uso di sostanze, cambiando così la geografia del Paese reale in fatto di musica, ma restando tuttavia un corpo clamorosamente estraneo per l’Ariston e per tutto ciò che l’Ariston rappresentava all’epoca (arrivarono undicesimi, i Subsonica: sanremisti e sanremologi si sorpresero pure per un risultato così alto).
Ecco. Be My Baby delle Ronettes rifatta da La Rappresentante di Lista con l’aiuto di Cosmo, Margherita Vicario e Ginevra nella serata cover di Sanremo 2022 è la cosa più vicina a Tutti i miei sbagli mai apparsa da quelle parti, a distanza di oltre vent’anni. E incredibilmente, perché per il resto nel Paese non ci si è mossi granché, stiamo ancora qua a parlare di Berlusconi come centro della politica, il pubblico dell’Ariston questo rifacimento lo ha evidentemente adottato, lo ha fatto suo. Nonostante la confusione creata da Cosmo coi suoi breakbeat a cascata e gli arpeggi acid da Roland 303. Nonostante un’impostazione della cover lontana da ogni canone sanremesco.
Chi vi scrive non è un fan sfegatato de La Rappresentante di Lista. E al primo ascolto, Ciao ciao mi è sembrata – boh – una copia muscolare e anabolizzata (grazie al tocco di Simone Privitera, come ammesso dagli stessi Dario e Veronica) di quello che potevano fare i Ridillo un paio di decenni prima. Di più: il vezzo del giochetto bambinesco (il “ciao ciao” ripetuto del ritornello) è un tic nervoso marchio di fabbrica della scena indie italiana che ho sempre trovato abbastanza stucchevole, detta con molta diplomazia, e il fatto che Niccolò dei Cani questo malefico tic l’abbia denunciato ancora un decennio fa (Non c’è niente di twee) non ha fermato il fenomeno, anzi, maledizione. Non trovo quindi nulla di divertente in “Con le mani ciao ciao”, e ancora di meno in “Con il culo ciao ciao”; ma so di molte indie headz che invece sono andato in sollucchero già solo per questo: perché fare i balletti scemi è la rivincita dell’adolescente triste di periferia primi anni 2000, che quando aveva 17 anni tutti lo scherzavano perché non ascoltava commerciale. Nel frattempo l’adolescente indie del 2020 era ed è già commerciale di suo (l’indie italiano attuale è il nuovo pop banale e rassicurante di largo consumo, punto), quindi i balletti stupidi sono – come dire? – nativi. Problema risolto.
Ora, preveniamo le critiche: sappiamo bene che Ciao ciao è anche ben altro. Che ha cioè una profondità di senso che va oltre l’incitazione infantile del ritornello. Anzi, la suddetta incitazione crea un bel contrasto coll’argomento principale del brano, che evoca una ben immediata fine del mondo, perché come dice Dario de LRDL in una chiacchierata fatta poche ore prima l’esibizione del venerdì, «la fine del mondo di cui parliamo in Ciao ciao è allegorica, sì, ma non stiamo parlando di un futuro lontano, distopico. La fine del mondo è qui, è oggi. Non è un problema che riguarderà i nostri figli, che avranno a che fare con guasti ambientali, ecologici. No: è un problema che riguarda già noi».
Ma a proposito della esibizione del venerdì sanremese, da cui abbiamo iniziato questo racconto/ritratto de LRDL: anche lì c’è la dimostrazione che Veronica e Dario sono qualcosa di più di un duo che fa scelte di comodo e paracule, scelte più che incoraggiate visto che il pedigree indie & fresco & puccioso oggi apre le porte del successo. Cosmo per dire lo hanno voluto loro come socio nell’avventura-cover, non si sono fatti imboccare dalla discografica, e hanno voluto proprio il pacchetto completo: l’imbastardimento musicale da club alternativo, e la vis polemica (con quello «Stop greenwashing!» in diretta che tanto sarà piaciuto all’animalotto a sei zampe main sponsor dell’edizione 2022 del Festival).
Se guardiamo a cosa hanno fatto gli altri giovani al festival (ah, ricordiamo: in Italia si resta giovani fino ai 40 anni, nel caso di Claudio Martelli fino ai 60 e passa), vediamo invece molto più conservatorismo: Blanco e Mahmood bravissimi, assolutamente bravissimi, ma sembrano i nonni di se stessi; Sangiovanni sceglie Fiorella Mannoia (Fiorella Mannoia!); Irama fa sembrare giovane Grignani, il giovane nipote combinaguai da marcare stretto; Truppi canta De André e Lauro la Bertè nella sua versione più neoclassica; Aka 7even, HighSnob e Hu si sanremizzano fino all’annullamento di sé; Rkomi infine si butta su Vasco – e Vasco era fresco quarant’anni fa, per poi diventare un monumento nazionalpopolare – e meno male che lo fa con un notevole riarrangiamento space-funk dei Calibro 35, così almeno si svecchia un po’. E abbiamo detto “svecchia”, non “sveste”, ché Rkomi è bravo, ma il pop educato ed ecumenico in cui lo hanno infilato – anche col brano da Personal Jesus comprata all’Eurospin presentato in gara – lo invecchia di botto di vent’anni. E non sarà il cantare a torso nudo a togliere questa verità, dalla sua carta d’identità musicale.
Quindi ecco, solo La Rappresentante di Lista ha avuto il coraggio di mettere il muso avanti, fra le nuove generazioni. Almeno per quanto riguarda il momento della carta bianca delle cover. E in questa maniera, nel fare così, hanno omaggiato al meglio le loro origini indipendenti, sì, radici indie, proprio quelle: radici a cui tengono davvero, non per posa o convenienza, ma perché gli appartengono. E lo vedi questo dal piglio educatissimo e sorridente ma in filigrana un po’ perplesso con cui affrontano il circo delle interviste improbabili, un circo in cui Sanremo è l’eccellenza, con tutto il demi-monde delle radio commerciali di provincia e dei sitarelli di gossip che mandano in Riviera inviati intraprendenti ed improbabili a cui, se parli dei Pavement, ti chiedono perché stai parlando di arredamento – e comunque loro il laminato lo comprano da Mondo Convenienza. Sorridono e rispondono a tutto con educazione, Veronica e Dario, e hanno l’aria molto divertita e mai snob: ma si vede che in contemporanea si stanno chiedendo «ma che è ‘sta roba qui, ma che davvero?»,
Loro il successo l’hanno voluto e lo vogliono. Non in maniera svaccata e post-vanziniana come Tommaso Paradiso, e non in maniera scazzato-buonista come Coez o Ultimo; ma fin dall’inizio della loro carriera hanno inseguito il pop – per divertita passione culturale più che per calcolo – e fin dall’inizio della carriera hanno sottoposto la loro musica a continui aggiustamenti pur di aumentare sempre più la loro fanbase. Loro poi sono lontani anni luce dal normcore dei Pinguini Tattici Nucleari, sempre per amore di pop iper-contemporaneo giocano invece coi vestiti, con gli immaginari, con la fluidità di genere e di ruolo estetico-sociale; e nel caso di quest’ultima, beh, se li conosci poco e li guardi distrattamente puoi pensare sia una scelta di comodo e un cavalcare la moda del momento, ma se invece li ascolti con attenzione capisci che loro sono proprio fatti così, si scambiano i ruoli, ecco, con affettuosa spontaneità, e con zero calcolo a favore di political correctness hipsterica.
Ma tutto questo, che oggi funziona, fino a pochi anni fa, sarebbe stato comunque un corpo estraneo, all’Ariston. Amadeus invece è riuscito in una operazione mefistofelica: ha svecchiato l’insvecchiabile, aka Sanremo, e per riuscirci ha mantenuto alcuni bastioni di conservazione micidiale (gli sketch dalla comicità vecchia come il cucco, le vallette, in generale un’aria da “signora mia” che avrebbe fatto orrore già a Guido Gozzano oltre un secolo fa); dei paletti così forti che, come detto prima, gli stessi artisti (semi)giovani decidono di invecchiarsi di loro sponte pure quando lasciati con libertà di scelta, una volta entrati nella bolla. Ma musicalmente parlando, una mutazione c’è stata comunque davvero, al Festival, ed è stata naturale, organica, tanto da aver toccato perfino il pubblico presente in sala all’Ariston. Pubblico che vede LRDL lontana dal podio e allora fischia, ulula, li adotta, li difende, lì dove invece fino a nemmeno troppo tempo fa li avrebbe trovati un pittoresco corpo estraneo, in attesa di Zarrillo.
Veronica e Dario non sono Zarrillo. Sono pop, vogliono essere popolari, ma ci stanno riuscendo divertendosi più di altri e restando se stessi più di altri. Pacificamente fieri dell’alterità delle loro radici. Non male, dai.