Se c’erano dubbi sui Greta Van Fleet dal vivo, sono stati spazzati via dal primo urlo di Josh Kiszka. Il cantante di questa band di piccoli fenomeni da Frankenmuth, cittadina del Michigan in cui evidentemente non c’è molto da fare oltre che imparare a memoria la collezione di vinili dei genitori (e forse anche dei nonni), sale sul palco dell’Alcatraz di Milano vestito come a un festa di Halloween a tema hippie e spara un acuto graffiante con una naturalezza impressionante, aprendo una sorta di varco temporale in cui la band composta dai suoi fratelli Sam e Jake e dal batterista Danny Wagner si infila con l’attacco di Highway Tune, il primo singolo con cui nel 2017 si sono piazzati al numero uno della classifica Mainstream Rock in America per quattro settimane consecutive.
Sappiamo che i Greta Van Fleet sono una versione in miniatura dei Led Zeppelin, però sanno suonare. Salgono sul palco con una formazione essenziale chitarra-basso-batteria con Jake Kiszka (il vero fenomeno del gruppo) che suona una Gibson rossa con una pulizia e una potenza impeccabili; niente tastiere, ma un Mellotron e un Hammond sul palco, nulla di preregistrato, due file di Marshall alle spalle. È quello che ha catturato l’attenzione dei pezzi grossi del rock, stupiti e quasi costretti a dire la loro dalla qualità sorprendente di questa band. «In confronto a tutta la roba che gira adesso vedere quattro ragazzini che suonano con tre strumenti e due amplificatori è una cosa buona», ha detto per esempio Slash. «Penso possa essere d’ispirazione per tanti».
Il senso dell’operazione Greta Van Fleet è esattamente questo: avvicinare al rock una generazione che non guarda più al rock. «È successo tutto più in fretta di quanto potessimo immaginare», hanno detto i Greta Van Fleet. «Ma c’è una rinascita del rock’n’roll in atto e siamo fieri di farne parte». È vero: in un momento in cui non è più il punto di riferimento per stile, atteggiamento ed esigenza espressiva, il rock torna ad essere un suono ai margini, recupera il proprio spirito radicale e può immaginare in piena libertà la propria evoluzione. Il punto è che non può essere così uguale a sé stesso.
Va detto che i Greta Van Fleet sono talmente derivativi da far perdere il significato negativo al termine. Hanno una scaletta perfetta, dieci canzoni, una cover (The Music Is You di John Denver) e due bis (i singoloni Flower Power e Safari Song) in cui fanno tutto quello che devono fare, compresi un paio di assoli da cinque minuti di Jake Kiszka, Sam Kiszka che come John Paul Jones lascia il basso per un diluvio di Mellotron nel momento più ispirato del concerto, l’immersione blues-psichedelica di Age of Men e Watching Over, fanno una rivisitazione ai limiti della perfezione del suono che va dai Led Zeppelin agli Aerosmith passando per il virtuosismo dei Deep Purple e tengono un livello di energia sempre alto, che sembra fatto apposta per far perdere al pubblico la cognizione del tempo. La questione però resta aperta: se voglio ascoltare i Led Zeppelin o gli AC/DC con Bon Scott alla voce ascolto i Led Zeppelin o gli AC/DC con Bon Scott alla voce.
C’era il dubbio che i Greta Van Fleet potessero essere un misto tra un karaoke di Las Vegas e la band di School of Rock (non gli adorabili ragazzini guidati da Jack Black, ma i No Vacancy, quelli che vincono la Battle of the Bands) e non è così. Hanno un Grammy in tasca vinto con l’EP From the Fires e un album di debutto Anthem of the Peaceful Army che nel 2018 è andato benissimo in America e nonostante enfatizzino tutti i luoghi comuni sulla messa in scena delle rock band anni ’70 si meritano il successo. È fastidioso pensare che il futuro del rock possa essere un ritorno al passato così sfacciato, ma una delle missioni del rock dal vivo è quella di travolgerci, farci divertire e trasportarci in un’altra dimensione, e questo i Greta Van Fleet lo fanno benissimo. Come dice Josh Kiszka salutando il pubblico alla fine del concerto con un altro dei suoi urli: “Can you feel it?”.