Gli hipster l’hanno scoperta, o spero riscoperta, grazie a Wes Anderson. E non è un male. Nella scena più deliziosa di quel deliziosissimo film che è Moonrise Kingdom, i due ragazzini ballano sul mangiadischi la canzone che forse definisce Françoise Hardy tutta: Le temps de l’amour. Il tempo dell’amore è il tempo di Françoise Hardy, da le premier bonheur (du jour) al (comment te dire) adieu, la stagione che viene e non va, il perno artistico ed esistenziale. La produzione di Hardy è una specie di monografia dell’amore, come l’ultimo modulo del corso di Letteratura italiana contemporanea (però francese, anzi universale) dell’università: io portai Caproni, non c’avrei visto male Hardy. Titolo del corso: “À quoi ça sert? e il pensiero poetico di chi fugge”.
Tutti cantano sempre e solo l’amore, direte voi, pure i Modà. E però se si dice “mettiamo una canzone d’amore”, forse vi verrà più facile far partire – su Spotify, siamo meno deliziosi di un tempo – Tous les garçons et les filles invece che [non so i titoli delle canzoni dei Modà, e un motivo ci sarà]. Tous les garçons et les filles è l’esordio in musica di Hardy, è la sua ...Baby One More Time, e quando si comincia così o si finisce con la conservatorship (scusaci, Britney) o si diventa canone. Per Françoise, la seconda.
Hardy, ragazza yé-yé però pervasa dall’ennui, inventa la canzone d’amore moderna, la nostalgia per le cose mai vissute (lei si crucciava di fronte “a tutti i ragazzi e le ragazze della mia età” che si amavano, e lei ancora no) che sarà il sentimento dei giovani tutti, ancora oggi. Ma soprattutto inventa uno stile, un’intenzione, un codice che sarà poi di tutte, da Jane Birkin (Serge Gainsbourg del resto tradusse per Hardy It Hurts to Say Goodbye, che diventerà la hit Comment te dire adieu) a Vanessa Paradis a Carla Bruni a, oggi, Juliette Armanet, Clou, P.R2B e tantissime altre che probabilmente qui ascolto solo io.
Françoise è l’anti-cantantona nostrana, l’anti-Mina, l’anti-urlatrice, anche se dopo i garçons e le filles incide subito un disco in italiano, e Quelli della mia età sarà il più venduto quell’anno (il 1963, lo stesso del Sorpasso e di Catherine Spaak: un caso? Non credo). Piaceva molto anche da noi, Hardy, forse proprio per questa sottrazione, per quel suo strano esotismo nello stare in scena, perché tutti pensavano “ma come canta questa?” (siamo un popolo che non capisce niente), ma poi come facevi a non cedere. Ci sarà anche Sanremo, la Rai, la cover della Via Gluck. In patria la citava Prévert, del resto parevano colleghi nel verseggiare su “i ragazzi che si amano”, altrove Bob Dylan.
C’era lo spleen, il broncio, quel certo rive-gauchismo però ancora non contaminato (o corrotto) dalla politica. E c’era la bellezza, ovviamente. Quel viso da parigina perfetta, borghesissima, anche se la biografia – quando non erano bio su Instagram – racconta una storia diversa. Era figlia di un uomo molto ricco, sì, ma sposato, dunque infanzia da rubricare sotto l’aggettivo “travagliatissima”, e poi un patrigno barone austriaco, favole da Mitteleuropa, viaggi, collegi, e forse da lì l’eterna malinconia.
Era la stessa bellezza della Deneuve, o forse più di Françoise Dorléac, l’altrettanto splendida sorella di Catherine morta tragicamente in un incidente giovanissima. Il primo a ingaggiare Françoise (Hardy) come attrice fu, non a caso, Roger Vadim, quello di Et Dieu… créa la femme (lui creò Brigitte Bardot), in un film con Monica Vitti e Jean-Louis Trintignant, Il castello in Svezia, oggi dimenticato. Poi arrivarono gli inglesi e gli americani, Clive Donner e John Frankenheimer, ma la carriera nel cinema non andò mai davvero.
Forse perché Hardy non poteva piacere a troppi (titolo italiano del primo film con la “femme” Bardot), o forse perché il cinema è una cosa di troppi, e lei invece è sempre stata una ragazza solitaria, anche quando “mon âge” aumenterà, e avrà i capelli corti da signora sempre parigina ma di quelle che passano per strada e quasi non te ne accorgi, e sarà un poco più rock, e si divertirà a collaborare coi più cool nell’essere uncool, le canzoni con Benjamin Biolay e i video con François Ozon, e avrà un figlio cantante e chitarrista (molto bravo) anche lui, Thomas Dutronc, figlio di Jacques, altro chansonnier e, ovviamente, attore.
La mia canzone preferita – una delle centomila – di Françoise Hardy è, la citavo al principio, Le premier bonheur du jour, la prima gioia del giorno, e forse lì c’è tutto, perché la prima gioia del giorno è sempre l’amore, ma ogni volta ci alziamo e sempre sospiriamo “bonjour, tristesse”, come lei ci ha insegnato a fare.