Nelle ore in cui si consumavano le ultime speranze ucraine di evitare la guerra e poi durante il primo giorno dell’invasione da parte delle forze russe, a una squadra speciale della televisione pubblica ucraina era stato assegnato un compito considerato di primaria importanza strategica: ottenere l’esclusione della Russia dall’Eurovision Song Contest.
In quei giorni, non pochi in Italia si sono sorpresi nel sentire infilati tra le notizie dal fronte gli aggiornamenti sullo scontro diplomatico attorno a questo festival, largamente percepito nel nostro Paese come una volgare baracconata. Com’era possibile che il governo ucraino sotto attacco avesse tempo di occuparsi dell’Eurovision? Invece, si trattava di un terreno di scontro simbolico attorno al quale Ucraina e Russia si sfidano da quasi due decenni. Il risultato di quell’operazione può essere considerato il primo successo dell’Ucraina nella risposta all’invasione russa e forse, da questa storia, così come da cosa accadrà al festival stesso, c’è molto di più da imparare di quanto possa apparire a prima vista.
Dopo alcune resistenze da parte dell’Unione Europea di Radiodiffusione, che organizza la competizione e ne rivendicava l’apoliticità, il 25 febbraio la Russia viene infatti esclusa dalla manifestazione, grazie anche all’insistenza dei Paesi baltici a sostegno della mozione ucraina. La partecipazione dell’Ucraina viene invece confermata (non era scontato, dato che al tempo dell’assai minore invasione russa del 2014, avevano deciso di ritirarsi) e stando alle previsioni dei bookmaker si presenterà all’edizione di quest’anno, ospitata a Torino dal 10 al 14 maggio, come assoluta favorita alla vittoria finale.
I suoi artisti si esibiranno al palasport del capoluogo piemontese mentre sulle loro case continueranno a piovere bombe e molti ritengono che ciò gli garantirà il favore dei votanti. Ma non sarà certo la prima volta che accade. Basti pensare alla prima partecipazione della Bosnia-Erzegovina, nel 1993: Muhamed Fazlagić, in arte Fazla, dovette addirittura schivare di notte i colpi dei cecchini e dei mortai che assediavano Sarajevo per raggiungere il palco dell’Eurovision. Né queste situazioni in passato sono state sinonimo di vittoria. La stessa Bosnia quell’anno arrivò sedicesima. Oppure si prenda il caso della Germania: tredicesima nell’anno in cui venne eretto il muro di Berlino e quattordicesima quando fu infine abbattuto.
La differenza è che l’Ucraina, fin dal suo ingresso in gara nel 2003, ha saputo trasformare il palcoscenico dell’Eurovision in un vero strumento di soft power: ottenendo successi che hanno contribuito in modo decisivo a ridefinire la sua immagine e il suo ruolo in Europa e le cui conseguenze molti ritengono si siano viste anche nel sostegno ricevuto a partire dall’attacco russo.
Oltre a essere la più grande manifestazione musicale al mondo, infatti, l’Eurovision rappresenta anche una vetrina unica sugli equilibri geopolitici e culturali europei. Questo in gran parte grazie al regolamento che vieta di votare per gli artisti del proprio Paese: la vittoria può essere ottenuta solo attraverso il sostegno altrui, trasformando la gara in una dimostrazione della forza delle proprie relazioni e amicizie internazionali. E negli ultimi venti anni solo la stessa Russia e la Svezia possono aspirare a competere con l’Ucraina per investimenti, impatto e costanza dei risultati. Con l’Italia potenziale nuova realtà emergente.
La prima vittoria ucraina all’Eurovision arriva a sorpresa già alla sua seconda partecipazione, nel 2004: Ruslana con Wild Dances rappresenta tutto quello che va di moda in quel periodo, ovvero grida a squarciagola e abbigliamento provocante, su basi musicali tra l’Europop e il sudamericano, in una sorta di eterna imitazione di Shakira. Sono anni di dominio da parte dei Paesi dell’est, che contando sui “blocchi di voto” reciproci hanno ribaltato le vecchie gerarchie della manifestazione. Al ritorno in patria, Ruslana viene accolta come un’eroina e la sua vittoria si ritiene abbia alimentato direttamente il senso di identità nazionale, contribuendo al crescente distacco dalla Russia.
Quell’autunno scoppia la cosiddetta Rivoluzione Arancione e la stessa Ruslana si fa notare tra i manifestanti in piazza, primo passo di una nuova carriera che la porterà anche in Parlamento. Quando l’anno successivo l’Ucraina ospita la propria prima edizione dell’Eurovision, al governo c’è un nuovo governo esplicitamente filo-occidentale e in quell’occasione viene abolita la necessità di visto per i cittadini dell’Unione Europea. Ma a far arrabbiare ancora di più Mosca è la canzone che l’Ucraina porterà all’Eurovision del 2007.
Verka Serduchka è una drag queen già nota nella televisione ucraina, ma la sua apparizione all’Eurovision supera ogni livello di delirio parodico che si fosse mai visto alla competizione europea: tra musica techno, coreografie caotiche e attillatissimi costumi e copricapi metallici, sembra di assistere a un rave di Teletubbies post sovietici. Ma non è solo evasione: se ufficialmente le parole del ritornello ripetono l’espressione senza senso “Lasha Tumbai”, il modo in cui queste sono pronunciate da Verka Serduchka suona in modo assai sospetto come “Russia Goodbye”. Mosca protesta, ma la canzone sfiora addirittura la vittoria ed entra di diritto a far parte delle leggende dell’Eurovision.
Nel 2014 l’Ucraina si presenta con una coreografia con al centro un’immensa ruota da criceto, messa in moto da un ballerino, che entrerà anch’essa nell’iconografia del festival. Ma la nuova crisi politica e la conseguente invasione russa della Crimea portano al ritiro dall’edizione dell’Eurovision dell’anno successivo.
Al ritorno, nel 2016, il clima è cambiato e l’Ucraina, messe da parte le trovate goliardiche, aggira ancora una volta la censura dell’Eurovision, che vieterebbe i riferimenti politici, con una canzone che tesse un parallelo tra la deportazione dei tatari dalla Crimea al tempo di Stalin e l’occupazione della penisola sul Mar Nero da parte di Putin. La vittoria dell’ucraina Jamala scatena la rabbia del leader russo, che grida al complotto. La canzone della Russia sarebbe infatti arrivata prima, in base al televoto del pubblico, ma era scivolata addirittura al terzo posto una volta calcolato il 50% attribuito dalle giurie istituzionali di ciascun paese partecipante.
Negli anni successivi i due paesi continuano a sfidarsi a colpi di squalifiche, censure e provocazioni. Fino ad arrivare all’edizione di quest’anno, che in Ucraina già si era aperta tra le polemiche, prima ancora dell’invasione.
Dal 2016, una norma ucraina vieta infatti la partecipazione all’Eurovision a chiunque si sia esibito recentemente in Russia o nei territori occupati dalla Russia in Crimea. Proprio l’accusa di avere tenuto concerti in Crimea aveva dunque portato alla squalifica della cantante e rapper Alina Pash, che a inizio febbraio si era aggiudicata le selezioni ucraine per andare a Torino. Al suo posto sono quindi stati selezionati i secondi arrivati: i Kalush Orchestra, altro ensemble che mescola folk, elettronica e rap in un pezzo fortemente identitario.
Dopo le esibizioni delle sue prime partecipazioni all’Eurovision, infatti, più convenzionali e spesso in inglese, lingua franca della manifestazione, l’Ucraina ha gradualmente preso fiducia, presentando brani sempre più coraggiosi e distintivi anche dal punto di vista artistico. Il più delle volte con forti elementi etnici e, a partire dalla partecipazione dei Go_A nel 2021, anche in lingua ucraina.
Tra i componenti della Kalush Orchestra figura proprio uno dei membri dei Go_A, che l’anno scorso avevano ricevuto il massimo dei voti anche dal pubblico italiano (venendo in questo caso penalizzati dalle giurie, con buona pace delle accuse russe), con un brano a metà tra matrice folk e ipnotica base elettronica. Il brano di quest’anno aggiunge alla formula anche l’elemento rap, che sta vivendo un momento particolarmente vivace nelle scene dell’est Europa. Spesso mescolato a simili elementi tradizionali, in un genere ibrido che ironia vuole sia forse esemplificato al meglio dal quasi capolavoro Slova-parazity, pubblicato nei mesi scorsi dai russi Daite Tank (!).
Proprio il forte legame culturale e tra le diverse scene musicali dei Paesi dell’ex Cortina di ferro era stato negli ultimi due decenni l’elemento chiave della forza di questi paesi all’Eurovision. Spesso con la Russia in cima a questa gerarchia non ufficiale. L’Ucraina ha però gradualmente saputo costruirsi un ruolo da superpotenza del soft power proprio in contrapposizione a Mosca. E questo potrebbe avere contribuito a suscitare la sorprendente reazione unitaria europea, sia tra i governi che tra l’opinione pubblica, contro l’invasione russa: entrambe assai più marcate rispetto a quelle che per esempio avevano riguardato in passato la Georgia, o la stessa Ucraina otto anni prima.
Se questo basterà nel lungo periodo a fare la differenza sul più ampio scenario geopolitico è al momento presto per dirlo. Tanto che un’eventuale vittoria dell’Ucraina solleverebbe enormi dubbi sulla possibilità che il Paese sarebbe poi nelle condizioni di ospitarne l’edizione successiva.
Nel frattempo, la stessa Verka Serduchka, che per quindici anni aveva smentito la volontà di beffare Mosca con il suo brano Lasha Tumbai, costruendosi una carriera anche in quel Paese, ha cambiato idea: dopo l’invasione ha annunciato che d’ora in poi canterà il brano proprio come “Russia Goodbye”. E l’Eurovision Song Contest, nato nel secondo dopoguerra come strumento di pace e dialogo tra le potenze europee, poi vetrina dell’allargamento verso est, a Torino si ritroverà ancora una volta al centro della Storia.
Giacomo Natali è l’autore del libro Capire l’Eurovision. Tra musica e geopolitica, Vololibero.