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Anche in Italia esiste il progressive R&B

Artisti italiani e immigrati di prima e seconda generazione celebrano la musica afroamericana con cui sono cresciuti. C'entrano il processo di digitalizzazione e il desiderio di svecchiare la nostra canzone

Foto: Giacomo Carlini

Il termine urban applicato alla musica inizia solo oggi a farsi strada anche in Italia, e da un paio d’anni a questa parte viene usato con abbondanza e compiacenza da gran parte dell’industria discografica. Curiosamente, però, proprio mentre noi cominciamo a familiarizzare con questa parola, dall’altra parte dell’oceano, dove in teoria è stata coniata, la tendenza si inverte decisamente. Nel giugno del 2020, infatti, dopo numerose proteste da parte di artisti neri (capitanate da Tyler, the Creator, che ha affermato che «fa schifo il fatto che ogni volta che chi ha il mio aspetto fa un disco che travalica i generi, venga catalogato come musica urban»), i Grammy Awards hanno deciso di cambiare il nome alla categoria fino all’anno scorso nota come Best Urban Contemporary, ribattezzandola Best Progressive R&B. Il che, per i musicisti afroamericani, è molto più accettabile, in quanto urban è considerato un eufemismo dispregiativo ad indicare il tipo di musica grezza e ignorante che ascoltano le masse illetterate nei quartieri poveri.

La categoria oggi nota come Best Progressive R&B raccoglierà le avanguardie di pop, hip hop, soul, jazz e R&B fatta da artisti di ogni etnia, a patto che la loro musica abbia una matrice e una derivazione orgogliosamente nera. Il che può sembrare una distinzione puramente semantica, ma è fondamentale, perché buona parte di chi fa musica nera nel mondo – ivi compresi molti italiani – non sembra riconoscere appieno le radici ritmiche e sociali del genere. Basti pensare a tutti i fan del rap che dichiarano di votare Lega, o che non apprezzano che i propri idoli come Salmo o Gemitaiz si occupino di politica, o a tutti i giovanissimi e bianchissimi trapper inconsapevoli che usano la parola “ne*ro” come se non fosse offensiva per una larga fetta della popolazione mondiale.

Curiosamente, però, proprio mentre sorgono tutte queste contraddizioni nel mercato musicale italiano, sorge anche per la prima volta una vera e propria scena progressive R&B anche da noi. O almeno, questa sembra l’interpretazione unanime di molti artisti, sia bianchi che neri, cresciuti qui. Persone con un talento innegabile, ma anche con una consapevolezza nuova su molti temi cari ai loro colleghi nel resto del mondo. «Capita spesso che mi definiscano come un esponente della black music italiana, ma siccome io sono bianco, non è corretto», spiega ad esempio Davide Shorty, uno dei più interessanti e poliedrici artisti afferenti a questo segmento. «Io voglio solo celebrare i generi musicali che mi hanno cresciuto e formato, quelli che ho imparato ad amare crescendo».

Davide Shorty. Foto Ambra Parola. Styling: Aurora Zaltieri

Nato a Palermo, da undici anni Davide Shorty vive e fa musica a Londra («Una città che mi ha cambiato la vita e mi ha aperto la mente, facendomi capire tante cose, liberandomi da invidie e piccolezze e aiutandomi a trovare l’ispirazione: avevo bisogno di un ambiente creativo e pieno di contaminazioni, in cui non mi sentissi giudicato tutto il tempo»). Per diffondere le sue canzoni, però, ha scelto l’Italia, nelle sue manifestazioni e piattaforme più mainstream, oltretutto: prima X Factor, nel 2015, dove si è classificato terzo, e ora a Sanremo Giovani, per cui si è qualificato per la finale proprio venerdì scorso con il brano Regina. Nonostante il suo sound sia ben definibile da chi coltiva ascolti internazionali, la giuria di casa Rai ha faticato un po’ a inquadrarlo. «Sentire qualcuno che definiva il mio genere fusion o mi accomunava a Marcella Bella e Jovanotti è stato davvero strano», ride. Secondo lui, dalle nostre parti c’è un problema fondamentale con tutto ciò che non suona conforme alle aspettative. «Se continuiamo a pensare che questa musica non sarà mai capita, se continuiamo a propinare alla gente canzoni fatte solo con tre accordi e però ci lamentiamo che esistono solo canzoni fatte con quei tre accordi, non si arriva da nessuna parte». Per Shorty tutto è parte di un’unica matrice, e il jazz e il diretto progenitore dell’hip hop: «Sono ossessionato dalle parole perché da piccolo mi sfuggivano, essendo dislessico». E l’importante è non imitare, ma lasciarsi ispirare. «Quando mi è capitato di dividere il palco con Robert Glasper, e ha scoperto che in Italia c’erano persone che rielaboravano lo stesso tipo di musica che faceva lui, ha alzato le braccia al cielo e ha detto: “Che bello che perfino a migliaia di chilometri di distanza ci sia qualcuno che vuole celebrare la nostra stessa musica”».

Anche secondo i Technoir, uno dei gruppi più innovativi e interessanti della potenziale scena progressive R&B italiana, i limiti non sono nella testa e nelle orecchie del pubblico. Jennifer Villa (nata in Italia ma con origini ghanesi) e Alexandros Finizio (discendenza greca) sono di Genova, e si sono trasferiti a Milano qualche anno fa per fare musica. «Spesso c’è più chiusura da parte degli addetti ai lavori che da parte del pubblico. Gli ascoltatori abbracciano volentieri i cambiamenti, mentre chi pensa per segmenti di mercato magari fa più fatica a capire», racconta Jennifer. «Soprattutto in un panorama che ora è dominato dall’it pop e dal rap, sembra non ci sia quasi più spazio per altro». I Technoir si definiscono un duo electro-soul, anche se fanno fatica a collocarsi in un unico genere. «Quello che facciamo in Italia è ancora molto difficile da proporre, un po’ per la lingua, un po’ per le sonorità che non sono molto comuni», dice Alexandros. «Anche per questo, abbiamo sempre guardato più all’estero: eravamo già decisi a trasferirci altrove, a Londra o a Berlino, ma la pandemia ci ha frenato. Stiamo benissimo qui, fosse per noi non ci sposteremmo, ma dobbiamo pensare alle prospettive future. Il grande sogno sarebbe Los Angeles, perché la nostra scena di riferimento è quella. Sogniamo la Brainfeeder di Flying Lotus».

Il titolo del loro splendido ultimo album uscito nell’autunno 2020, Never Trust the Algorythm, è un riferimento al fatto che la dimensione online ha preso quasi il sopravvento sulla vita reale. «Per un musicista oggi è più importante avere la foto giusta su Instagram o essere presenti nelle playlist giuste su Spotify, piuttosto che avere una canzone davvero forte», dice Alexandros. «Il nostro è soprattutto un invito ad essere curiosi, soprattutto perché una band come la nostra è difficilmente categorizzabile».

Technoir. Foto: Giacomo Carlini

A proposito di categorizzazioni, entrambi sono favorevoli ai cambiamenti decisi dai Grammy Awards: ad Alexandros il nome Best Progressive R&B piace di più, «perché fa capire l’importanza che riveste l’R&B nella musica moderna, e dà atto del fatto che l’hip hop oggi è diventato quello che era il rock negli anni ’60 e ’70». Jennifer è d’accordo, ma «se cambia solo quello e non la sostanza, non ha senso. Se a un gruppo afroamericano affibbiano solo le nomination per il Progressive R&B anche se fa tutt’altro genere, è tutto come prima. Oggi c’è la moda di ribattezzare le cose, ma chissà se c’è vera volontà di cambiare qualcosa». E sul potenziale paradosso dei bianchi che fanno musica nera, per loro l’importante è avere rispetto per la materia e non scimmiottare. «Altrimenti il rischio è di cadere un po’ nel ridicolo, soprattutto agli occhi di chi ascolta tanta musica che arriva dall’estero», sottolinea Jennifer. «Io stessa ho origini africane, non afroamericane, quindi in qualche modo sto facendo un genere musicale che non appartiene alla cultura della mia famiglia. Non bisogna fare finta di avere inventato qualcosa: se non dai tributo alle radici del genere, suona un po’ stonato».

Tra chi ha sempre dato il giusto tributo alle radici del genere, anche in Italia, ci sono i milanesi Black Beat Movement, che si definiscono da sempre un collettivo alternative soul. Il bassista del gruppo, Luca Bologna, ha da qualche settimana lanciato anche un progetto solista sotto il nome di Kidd Mojo, e anche in questo caso l’etichetta applicabile potrebbe essere tranquillamente quella di progressive R&B, a cavallo tra musica suonata e beatmaking. Per un gruppo che sfoggia la parola “black” nel nome, pur essendo tutti bianchi, è imperativo il rispetto per la materia, che hanno studiato a fondo. La solidarietà con i colleghi afroamericani è quasi scontata. «Fino a poco più di cinquant’anni fa, in America esisteva ancora la segregazione razziale nelle scuole: i giovani di oggi sono i figli dei primi neri ad essersi davvero emancipati a livello legale e sociale», ricorda Kidd Mojo. «Se discendi da una famiglia di schiavi, come puoi rapportarti serenamente ai discendenti dei tuoi oppressori? È chiaro che sentirai di non dovere niente a loro e a quelli come loro. È un processo di riconciliazione lungo e difficile, e siamo solo all’inizio».

L’ottimo album di Kidd Mojo, Dionysia, esce per la label internazionale Hyperjazz, e vanta il featuring di uno dei nomi internazionali più interessanti e innovativi di sempre: quello della cantante e produttrice americana Georgia Anne Muldrow, che partecipa alla traccia Pearls. «Con i Black Beat Movement tengo le fila delle idee di tutti, e mi piace molto farlo. Con il passare del tempo mi sono accorto di avere sviluppato le capacità e un sound per potermi dedicare anche a un progetto tutto mio», spiega Luca Bologna. «Quando ho delle produzioni che mi convincono, mi butto e provo a mandarle ad artisti che stimo, anche se sono infinitamente più famosi di me. Magari ho avuto culo, chissà! Ma quando ha sentito il beat Georgia Anne Muldrow si è presa benissimo e ha accettato immediatamente».

Oggi, con la digitalizzazione, tutti riescono ad avere accesso a musica che arriva da qualunque scena possibile e immaginabile. «Puoi sentire tutto ed essere influenzato da tutto. Questo, chiaramente, ha aiutato anche molti musicisti italiani ad innamorarsi di sonorità che non appartengono alla nostra tradizione, ma a quella afroamericana, e a filtrarla e a rielaborarla con il nostro gusto. E in una città come Milano in particolare, che è già molto internazionale e che ha fatto dello stile la sua cifra, una cosa del genere può avere molto appeal». È consapevole che il suo non è un prodotto per le masse: «Questo progetto è una nicchia nella nicchia, ma i feedback sono ottimi: i miei brani suonano nelle radio di Inghilterra e Giappone, il disco sarà distribuito in storici negozi di dischi in tutto il mondo, e mi fa davvero effetto. Quello che verrà dopo, lo vedremo».

Rahma Hafsi sulla copertina dell’EP ‘Courage’

In Italia c’è anche chi torna alle origini black dopo una lunga deviazione: è il caso di Rahma Hafsi, nata in Tunisia ma cresciuta a Livorno, che proprio venerdì prossimo uscirà con un nuovo EP, Courage, costituito da brani inediti suonati one take, in presa diretta. «Ho alle spalle diverse esperienze come cantante: ho cominciato scrivendo in inglese e facendo soul e R&B. Poi, però, ho esplorato varie strade». Anche lei nella stagione 2011/2012 ho partecipato a X Factor, e quattro anni fa ha fondato un gruppo di nome Abbracci Nucleari, «in cui cantavo e scrivevo in italiano con sonorità più elettroniche. Ero un po’ stanca di dover rappresentare per forza la musica black, anche per il mio aspetto: capelli afro, carnagione scura, origini africane… Tutti si aspettavano quello, da me, ma io volevo farlo perché lo sentivo, ed è stato un lungo tragitto. Questo non è un progetto costruito a tavolino: sentivo davvero il bisogno di tornare alle origini».

A convincerla è stata anche una recente esperienza con una casa discografica italiana, la Ishtar: «Ho scritto un po’ di brani per loro e uno di essi, Never Stop Dreaming, è stato poi interpretato da Mario Biondi. Lì mi sono resa conto che esisteva il modo di trasmettere quello che volevo senza compromessi, che le possibilità c’erano, se mi sentivo di farlo: e così ho accettato la mia essenza e ho ripreso la mia strada». Non si sente particolarmente rappresentata dal concetto di progressive R&B, però: «“Progressive” è un aggettivo quasi scontato quando è applicato alla musica, che per definizione è sempre in costante evoluzione. L’importante non è l’etichetta o la categoria, ma che non tarpino le ali alle persone e a ciò che rappresentano».

Indipendentemente dai singoli punti di vista, però, tutti loro concordano sul fatto che anche da noi sta nascendo una sorta di scena di artisti che hanno solide credenziali, ascolti in comune e punti di riferimento che vanno oltre quelli consueti. Oltre ai nomi citati in questo articolo, impossibile non menzionare Serena Brancale, Ainé, David Blank, Veez-O, i THINKABOUTIT, Alsogood, Valentina Wena, Alessia Marcandalli, Sans Souci e molti altri. Nonché molti che già sperimentavano in quest’ambito in tempi non sospetti: Ghemon, Neffa, Enzo Avitabile, Pino Daniele. Cosa succederà a questa neonata fucina di creatività è ancora da capire, ma un’osservazione di Kidd Mojo sembra riassumere alla perfezione i tempi che corrono, indipendentemente dall’aspetto prettamente musicale: «La crisi del coronavirus ci ha fatto capire quanto è fragile il nostro settore, ma anche che bisogna rimanere più uniti, se vogliamo campare tutti in un ambiente culturale sano e prolifico. In caso contrario, siamo destinati a estinguerci».

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