Quando Tupac Shakur è stato ucciso, nel 1996, aveva pubblicato già quattro album, recitato in sette film e affrontato innumerevoli tour, interviste e concerti; era un artista estremamente prolifico, oltretutto, e dopo la sua morte sono usciti altri otto album inediti, cosa che ha alimentato a lungo le leggende metropolitane sulla sua presunta esistenza in vita, nascosto su una qualche isola tropicale.
Non si può dire lo stesso per il rivale di sempre Notorious B.I.G., che è morto anche lui in un tragico agguato nel 1997. Ai tempi aveva all’attivo solo l’album di debutto, il capolavoro assoluto Ready to Die; il secondo, Life After Death – sì, questi titoli profetici sono una tragedia nella tragedia – fu pubblicato due settimane dopo la sua morte, e gli album postumi non vogliamo neanche contarli, perché sono delle operazioni abbastanza raffazzonate, messe insieme alla meglio con strofe scartate da altri lavori. Il materiale che abbiamo a disposizione per ricordarlo, insomma, è molto scarso in termini di quantità, il che lo rende ancora più prezioso.
Quello che però finora pochi sapevano è che uno dei suoi soci, D-Roc, aveva l’abitudine di portare sempre con sé una piccola videocamera e riprendere la vita in tour, in studio, per strada, nei backstage. Biggie diceva che gli sarebbe stato utile per ricordare i bei momenti e per capire cosa funzionava nei suoi concerti e cosa no. Tutte quelle riprese private sono confluite in un documentario prodotto da Voletta Wallace, la madre del rapper, e ora disponibile su Netflix anche per gli italiani. E qui apriamo una piccola parentesi a beneficio degli addetti ai lavori e dei fan dell’hip hop, con una preghiera a chi si occupa di distribuire e commercializzare in Italia i sempre più numerosi contenuti sul rap provenienti da oltreoceano: per favore, PER FAVORE, fateli tradurre a qualcuno che conosca lo slang e capisca l’argomento, perché frasi come “aveva il flusso migliore” (leggi: flow) o “sono 48 bar di puro fuoco” (leggi: barre) ammazzano la nostra vibe in una maniera che neanche Kendrick Lamar riuscirebbe ad esprimere a parole. Chiusa parentesi.
Biggie: I Got a Story to Tell vede la partecipazione delle persone più vicine al rapper, dagli stessi D-Roc e Voletta al rapper/produttore Diddy, che ne seguì la carriera e lo portò al successo con l’etichetta Bad Boy, fino agli amici di sempre e alla moglie (e madre del suo secondogenito) Faith Evans. Naturalmente i suoi brevi e intensissimi 24 anni di vita sono già stati sviscerati in tutte le salse sotto forma di saggi, biopic, serie tv e podcast, perciò non c’è nessuna rivelazione inedita o particolarmente succosa all’interno di questo nuovo lungometraggio. Ciò che I Got a Story to Tell aggiunge, però, è un elemento più intimo e caloroso, fatto di piccoli dettagli, come la sua mania di canticchiare vecchie canzoni R&B, o il fatto che non riuscisse ad addormentarsi senza un po’ di musica country in sottofondo. Insomma, è un prodotto che non è volto necessariamente a celebrare il monumentale artista che tutti conosciamo, ma piuttosto a svelare i pensieri e i sentimenti di un ragazzo giovanissimo, tanto timido e insicuro quanto sbruffone e ironico, tanto responsabile e legato ai suoi affetti quanto incline a sbagliare, a fare casino e a ferirli.
Proprio per questo motivo, probabilmente, il tempo dedicato al racconto di ciò che lo ha portato al successo è di gran lunga maggiore di quello dedicato agli anni della fama. Si dà grande spazio alla storia di sua madre, un’immigrata giamaicana che lo concepì giovanissima dopo un’avventura con un uomo sposato che scomparve nel nulla; alle estati dalla famiglia in Giamaica, e agli anni dell’adolescenza tra Bed-Stuy e Clinton Hill, Brooklyn, dove ben presto cominciò a spacciare crack agli angoli delle strade per arrotondare, come facevano molti altri suoi coetanei; all’eterna attesa del debutto discografico, che non arrivò mai abbastanza presto e lo costrinse a continuare per anni a guadagnarsi da vivere come pusher, visto che nel frattempo era nata la sua prima figlia. Tutta la sua determinazione a farcela, ma anche tutto il suo pessimismo sulle sue reali possibilità di uscire dal disagio, emergono perfettamente in Ready to Die, che non a caso è un disco in cui le pulsioni di morte sono contrapposte a una voglia fortissima di cambiare vita. E quando quella vita cambia, la storia accelera a dismisura, tanto che l’intervallo tra l’uscita del primo album e la morte è compresso in appena 20 minuti di montaggio. Ma forse è giusto così: tutto ciò che Notorious B.I.G. era diventato, tutto ciò che avrebbe poi rappresentato per generazioni di amanti dell’hip hop, era già evidente da molto prima, senza bisogno di focalizzarsi troppo sulle faide, i pettegolezzi e lo scintillio della vita da rapstar.
A distanza di esattamente 24 anni dalla sua morte, commuove ancora ascoltare le parole di Voletta Wallace che confessa sorridendo di avere ascoltato gli album di suo figlio una sola volta, dopo la sua morte, perché lui le aveva detto che «non è musica per maggiori di 35 anni, ci sono troppe oscenità dentro». O rivedere le immagini del suo corteo funebre, con i fan gioiosi che si accalcano per le strade di Brooklyn per celebrare il loro idolo come avrebbe voluto lui, con una festa, e non con il lutto nel cuore. Il livello a cui Biggie è arrivato, come artista e come rapper, è tuttora considerato ineguagliabile da tutti i suoi colleghi: è e resterà il più grande di sempre, e questo lo ammette perfino chi preferiva Tupac. Nessun documentario o commemorazione ci restituirà mai la vitalità e la grandezza di album come Ready to Die o Life After Death, ma è bello, giusto e lodevole che la sua famiglia continui a tenere acceso il suo ricordo.