Mentre la mia musica conquistava l’Europa, in Inghilterra e negli Stati Uniti stava esplodendo uno stile decisamente diverso: il cosiddetto punk. Di quel movimento mi piacevano molto i Ramones, band di rock “duro e puro”, essenziale, un po’ come i miei amati Stones. Il biennio 1977-78 è stato anche quello della disco music, nella quale trovavo cose interessanti, vedi Barry White e i suoi fantastici arrangiamenti di archi, oppure Donna Summer e il famoso Munich sound di Giorgio Moroder, un grande musicista di cui mi piacque tantissimo la colonna sonora del Metropolis di Fritz Lang. In quel periodo ascoltavo anche i Kraftwerk e prima di questi mi avevano colpito band come Tangerine Dream e Popol Vuh. La musica elettronica mi ha sempre interessato e reputo Sonic Seasonings di Walter Carlos (che poi è diventato Wendy) un vero capolavoro, un doppio album, tutto suonato con il Moog, che mi aveva fatto conoscere Paul Buckmaster.
Con tutta questa musica che girava intorno, io mi apprestai al passo discografico successivo e per registrare il nuovo album, Cogli la prima mela, andai in Germania, a Monaco di Baviera. A ripensarci, mi rendo conto di quali anni frenetici fossero quelli, da un disco di successo a un tour europeo tutto esaurito non mi fermavo un attimo e non smettevo di imparare cose nuove, anche rispetto alle tecniche di registrazione. La scelta di Monaco di Baviera fu messa in campo proprio perché volevo un disco perfetto dal punto di vista sonoro. Devo infatti confidarvi che io sono da sempre appassionato di tecniche di registrazione e che, per apprenderle al meglio, mi recavo spesso negli studi di Plinio Chiesa, il fonico di parecchi miei dischi, solo per imparare. Andavo in incognito (era semplice, bastava mi facessi la coda), mentre magari stavano lavorando altre persone, e osservavo tutto per carpire ogni segreto di quell’arte.
Un giorno però rischiai di essere scoperto, a riconoscermi fu addirittura Raul Casadei, il quale chiese se per caso non fossi Branduardi. Gli fu risposto: «Si figuri se Branduardi viene qui a perdere tempo». Fu molto divertente. Così imparai a microfonare gli strumenti e a usare il mixer, a un certo punto diventai anche piuttosto bravo, posso dirlo senza falsa modestia, infatti la versione in francese di Cogli la prima mela la mixai da solo e spesso nei miei dischi ho affiancato il fonico durante i mixaggi. Mi sono fatto una cultura su tutto quello che era analogico, sui mixer che costavano magari un miliardo di vecchie lire, sui nastri da due pollici o da un quarto di pollice, sul Dolby, l’effetto di riduzione del rumore, sui compressori, le frequenze e gli equalizzatori.
Erano tutte cose che mi appassionavano moltissimo. Con la rivoluzione del digitale, poi, sono diventato un po’ meno bravo, anche perché avrei dovuto ricominciare da capo a studiare. In ogni caso manovro ancora bene il mixer e sono conosciuto nell’ambiente come uno dei pochi musicisti ad avere un bagaglio tecnico non indifferente e una grande «paletta», come si suol dire, un ottimo orecchio: distinguo bene le frequenze, so quando tagliare o aggiungere e normalmente ci becco sempre. Ho anche uno studio privato tutto computerizzato, a parte il mixer che è per metà analogico e mi serve per suoni come il basso, la batteria o le chitarre acustiche, per i quali è imbattibile. Poi conservo un cimelio: uno Studer a due piste ancora perfettamente funzionante, una macchina fantastica che tengo con grande cura, il miglior registratore che sia mai stato costruito. Il mio antro sonoro è piazzato in una delle case in cui abito. Dico “case” perché c’è quella in cui viviamo io e Luisa e un’altra, nel giardino immerso in un ampio bosco, nella quale si trova appunto lo studio. Queste abitazioni sono state realizzate, su disegno di un architetto canadese, dalla Ille, una ditta del Trentino specializzata nella tecnologia del legno. Arrivai a loro dopo una lunga ricerca e da più di venticinque anni ci lega un’amicizia solida quanto le case che hanno costruito per noi.
Al Country Lane Studios di Monaco, dove fu realizzato Cogli la prima mela, possedevano un costosissimo Solid State Logic, il primo mixer automatizzato in Europa, con il quale potevi memorizzare i mixaggi. Oltre a usufruire di questi ritrovati tecnologici, rimasi stupito dalla bravura dei musicisti dell’orchestra sinfonica della radio bavarese: furono fantastici, così come il quartetto arabo che avevamo portato dal vivo. Nel disco c’è uno dei miei pezzi più celebri: Il signore di Baux, una canzone sul potere che è stata la sigla di inizio e fine delle trasmissioni della radio nazionale francese. Il castello di Les Baux-de-Provence – situato nell’omonima cittadina nei pressi di Avignone – sorge in cima a un cucuzzolo che domina il paesaggio e ha una storia molto strana: da un momento all’altro tutti i suoi abitanti sono spariti senza lasciare traccia. È una leggenda oscura, inquietante, così come la musica che ho scritto ispirandomi a questa vicenda, con un bellissimo giro di basso inventato da Gigi Cappellotto che crea una pulsazione nervosa, tesa. Di Cogli la prima mela mi piace ricordare anche il brano finale, Ninna nanna – che è diventato un grande successo nella versione in francese, L’enfant clandestin – e la canzone che titola l’album, la terza in tre anni ad arrivare in cima alle classifiche.
Cogli la prima mela divenne il mio disco più venduto, pur ricevendo delle critiche contrastanti. Del resto tutto si perdona, fuorché il successo. Con me la critica non è mai stata particolarmente tenera, solo in anni recenti la situazione si è ammorbidita e sento di essere compreso meglio in ciò che faccio, prima ero visto sempre un po’ come quello delle filastrocche, dei palchi faraonici… e, a proposito di palchi, come non ricordare quello immenso della Fête de l’Humanité, all’aeroporto di Bourget, a Parigi, nel 1980? Con più di centoventimila persone, decine di telecamere, schermi, enormi gru, non so quante migliaia di metri quadri di palco disegnato dal celebre architetto Oscar Niemeyer. In quel contesto mi sentii schiacciato da tanta imponenza, minuscolo… col senno di poi posso dire che quell’esibizione è stata l’inizio di una svolta. Finito il concerto, uscimmo stremati e facemmo le foto con i dischi d’oro e di platino che avevamo vinto in Francia, c’erano anche Luisa e Sarah, che era piccolissima e si era addormentata sui bauli per gli strumenti. Tante cose, tanto successo e tanta grandezza.
Io però a un certo punto, sarà stato anche l’avvicinarsi dell’età matura, iniziai a capire che non mi sentivo più del tutto a mio agio negli stadi strapieni, con tutte quelle ovazioni, quelle centinaia di concerti con numeri pazzeschi. Prima ero solito sfogare tutta l’energia con corse, salti, capriole, poi cominciai a sentire il bisogno di situazioni più a misura d’uomo. Anche il mio modo di interagire sul palco cominciò a stancarmi, avvertivo che dietro tutto questo c’era una sorta di isteria, non lo sentivo più affine a quello che ero. Quando fai quei superconcerti, ogni scenografia, ogni gesto deve essere accentuato. Ecco perché mi viene da chiamarla isteria, era tutto troppo esagerato. Pensavo non ci fosse bisogno di quaranta luci, che i gesti potessero essere meno marcati, meno evidenti.
In occasione del concerto a Parigi successe anche una cosa piuttosto inquietante: il pomeriggio prima dell’esibizione ero con Luisa e a un certo punto si avvicinò una ragazza molto dolce ed educata che chiese se c’era modo di avere un biglietto. Vista la buona impressione che ci aveva fatto, la facemmo entrare e le permettemmo di assistere al soundcheck, con evidente gioia da parte sua. Poi non la rivedemmo più. Dopo qualche mese, una sera che ero a casa, sentii suonare il campanello, erano passate le ventuno e mi chiesi chi potesse essere a quell’ora. Andai ad aprire la porta e mi trovai di fronte quella stessa ragazza. Rimasi sbigottito e le chiesi cosa facesse lì. Lei mi disse che aveva lasciato la Francia per venirci a trovare con il proposito di diventare una sorta di governante, occuparsi di Sarah e del giardino, che all’epoca era grande tre metri per tre. Il mio stupore, misto a una certa preoccupazione, crebbe sempre più. Le dissi che non sarebbe stato possibile, che Luisa voleva badare da sola alla bambina e che al giardino ci potevo pensare io. A quel punto lei tirò fuori un coltello a serramanico, se lo mise sul polso e mi disse: «Adesso voglio vedere cosa fai».
Con grande sangue freddo dissi a Luisa di prendere Sarah e di andare al piano superiore, dopodiché cercai di calmare la ragazza e rimasi a parlare con lei fino almeno alle cinque del mattino. Per tutto il tempo il coltello rimase sul suo polso. In quelle ore mi raccontò di abitare a Pau, un paese distante una ventina di minuti da Lourdes, e di avere un figlio che si chiamava, pensate un po’, Parsifal, che aveva dato in affido a una famiglia. Dopo averla a lungo ascoltata, riuscì a convincerla a uscire di casa e a venire in macchina con me fino all’aeroporto. Lei acconsentì e quando arrivammo scoprii che da lì a poco ci sarebbe stato un volo proprio per Pau. Le comprai quindi un biglietto, ma lei a quel punto ricominciò a dare in escandescenze con tutta la gente che ci guardava. Alla fine riuscii a farla imbarcare e da quel momento non l’ho mai più rivista. Un’avventura conclusasi positivamente, per fortuna, che testimonia il tipo di fanatismo che si era creato intorno alla mia figura.
Tempo dopo successe anche un altro fatto, questa volta più divertente: una mattina ero a casa e sentii i cani abbaiare. Uscii fuori e vidi un camper. All’interno riconobbi un uomo che avevo incontrato sempre in Francia, a Lille, vicino al confine col Belgio. Il tipo se ne stava tranquillo con una canna per l’acqua in mano e mi disse: «Sai, abbiamo deciso di passare le vacanze qui da te». Senza scompormi gli feci presente che, se non fosse andato via subito, avrei chiamato i Carabinieri. Tornò al suo camper, mise in moto e partì immediatamente.
Queste sono tra le più eclatanti, ma mi sono capitate decine di storie con fan che non si accontentano dell’incontro ai concerti ma vogliono entrare nel tuo privato, prendere quasi un pezzo di te. Recentemente uno è addirittura riuscito a introdursi in una chat privata tra Luisa e le nostre figlie, non so assolutamente come abbia fatto… sono situazioni inquietanti da parte di persone evidentemente disturbate, che travalicano l’amore per un artista. Amore che per fortuna la maggior parte dei miei estimatori mi ha sempre dimostrato in maniera educata, infatti ho un rapporto bellissimo col mio pubblico.
Il periodo di Cogli la prima mela va ricordato anche per l’incontro con il manager di Frank Zappa. Questi era convinto che io potessi sfondare negli USA e mi offrì di trasferirmi lì per almeno cinque anni, durante i quali avrebbero pensato loro a tutto: alla casa, alla scuola per Sarah, alla macchina… io però non ho mai rincorso il sogno americano, l’american way of life, non mi interessava essere parte di quella società e di quella mentalità. Per cui rifiutai.
Una cosa che invece accettai immediatamente fu la partecipazione al grande concerto a Milano, che sarebbe dovuto servire a raccogliere fondi per le cure di Demetrio Stratos. Io non seguivo molto gli Area, ma ho sempre riconosciuto in lui un grande talento. Demetrio era uno che riusciva a fare bicordi, tricordi addirittura, con la voce. Un vero virtuoso e uno studioso del canto, un caso unico. A Milano suonammo io e Maurizio da soli, ricordo grande partecipazione da parte del pubblico in un’occasione che mosse tanti musicisti, per una volta tutti uniti per cercare di aiutare un amico malato. Purtroppo Demetrio non ce la fece e il concerto si trasformò in un sentito tributo a questo grande artista.
Nel 1980, in un momento interlocutorio che anticipava grandi cambiamenti, uscirono altri due dischi che in qualche modo misero il punto su diverse cose. Il primo è Concerto, un triplo album dal vivo registrato rigorosamente su due piste, senza alcuna sovraincisione, senza trucco e senza inganno, comprimemmo solo un po’ il suono per renderlo più potente. Dal disco fu tratto anche un film, diretto da Dory Zard, che i distributori avrebbero voluto chiamare Cogli la prima mela, cosa che a noi non andava. Per cui lo distribuimmo autonomamente solo per pochi giorni in parecchie città italiane, un po’ come si fa oggi. Non era un banale film sui concerti, anche se gli spezzoni live non mancavano, era soprattutto un documentario su tutto ciò che avveniva dietro le quinte, voleva mostrare il grande lavoro per ogni singola esibizione, i viaggi, le prove, i rapporti interpersonali. Testimoniava inoltre i preparativi del concerto che avevamo organizzato a Villa Doria Pamphili. Questa esibizione fu però impedita dal maltempo: pioggia e vento incredibili che addirittura piegarono le strutture in ferro del palco. Così ci trasferimmo in fretta e furia al teatro Tenda a Strisce dove riuscimmo a suonare, con grande disappunto delle migliaia di persone che non ce la fecero a entrare.
Pochi mesi dopo arrivò anche Gulliver, la luna e altri disegni, che è la ristampa de La luna con una nuova copertina e un brano in più, Gulliver, genialmente arrangiato da una vecchia conoscenza: Paul Buckmaster. A lui si deve l’idea del ritmo, del battimani e del tamburo etnico. Ricordo che, in occasione del nostro incontro, Paul rimase molto stupito: mi aveva lasciato acerbo esordiente e mi ritrovava alle prese con grosse difficoltà a camminare per strada, visto che tutti mi riconoscevano. In Gulliver, la luna e altri disegni approfittai per remixare i brani de La luna ricantandone alcuni e cambiandone l’ordine. A conti fatti non saprei dire se la versione originale del disco sia più bella, forse sì. O forse sono belle entrambe, la prima più crepuscolare (complice anche la copertina notturna), la seconda più aperta nei suoni e un poco più solare. Due facce della stessa medaglia, e forse anche del mio carattere.
Tratto dal libro Confessioni di un malandrino. Autobiografia di un cantore del mondo di Angelo Branduardi con Fabio Zuffanti, prefazione di Stefano Bollani (Baldini + Castoldi)