Ebbene sì. In origine erano Giorgia e Achille Lauro, i soliti noti insomma, su cui in molti avremmo puntato. Ma poi, è bastato poco, l’incognita che non ti aspetti ha felicemente sparigliato le carte della retorica e del già sentito e visto. E l’incognita di quest’anno si chiama Lucio Corsi.
In troppi non lo conoscevano, in pochi –io ero tra questi, che vanto! – ne avevano orecchiato qualche scampolo. Non un novellino, a dir la verità. Corsi è quello che, come si dice. ha fatto la gavetta. Eccome se ne ha fatta. La sua carriera parte da lontano, quando, ancora ragazzino, ispirato da gente tipo i Genesis e Peter Gabriel si esibiva nei locali di provincia intorno alla sua Vetulonia. Poi, la maturità scientifica e via alla volta di Milano per inseguire il suo sogno romantico: fare carriera nella musica.
Il primo EP nel 2014, l’anno seguente il primo di quattro album per Picicca dischi. Buono il riscontro della critica, ma la salita è ancora impervia. Tre anni dopo apre i concerti di Baustelle e Brunori. Nel 2019 entra nella famiglia Sugar, la più adatta a lui in effetti.
Non è mai stato fermo Lucio. Ha mosso un passo dietro l’altro, senza fretta, senza bruciarsi. Senza scalpitare.
Fino a oggi. E la notizia lieta è che adesso i pochi che lo conoscevano sono diventati tanti. E i tanti lo stanno apprezzando.
Lucio Corsi è la ventata di aria fresca che meritavamo in questa edizione da record senza sbavature né guizzo. Con la sua Volevo essere un duro ci legittima a sentirci tutti un po’ sfigati, ma senza lacrime e pietismo. Al più con un sorriso. Il suo pezzo è una ratifica universale all’imperfezione che si fa vanto attraverso un’ironia semplice ma sottile, portatrice sana di tenerezza e immedesimazione. Sono convinta che tutti quanti nel corso della vita avremmo voluto essere un duro, però “non sono nessuno, cintura bianca di judo, invece che una stella, uno starnuto”.
È il trionfo di una frivolezza seria questo motivo leggero, che si è imposto senza troppe aspettative né pretese e ha conquistato attenzione e apprezzamenti nonostante il suo interprete (e autore) non sia bellissimo, muscolosissimo, nudissimo. Nonostante questo piccolo Lucio, dal nome così ingombrante per la musica italiana, si presenti autentico nella sua fragilità, così diversamente duro eppure così forte da ammettere pubblicamente le sue debolezze facendone medaglia e vezzo.
Vederlo sul palco, sera dopo sera, con quelle movenze discrete, seduto al pianoforte con la disinvoltura di chi può anche suonarlo con la gamba sinistra piegata sotto al sedere, fa bene alla musica italiana oltre che al cuore. Lui che è autore di se stesso, merce rarissima ormai, che dal piano passa alla chitarra con l’incedere sicuro e disinvolto di una farfalla, faccia da folletto che si destreggia fra le note su un palco gigantesco senza arroganza eppure così sfacciato nella sua compostezza. Lui che non se la tira. Lui che scrive. Che non si prende sul serio. Che nella serata delle cover ha scelto nientepopopopo di meno che Topo Gigio per omaggiare Modugno (applausi a scroscio sulla fiducia). Lui che canta e interpreta, ma senza esagerare. E lascia un segno.
Lui, Lucio era quello che ci meritavamo in questi tempi incerti e malandati. Un assaggio di arte vera vestita di quella semplicità che rende universale e pop un prodotto intelligente. Un inno sobrio alla delicatezza e alla resistenza in questo mondo di duri mollissimi che troppo spesso finiscono per diventare l’esempio che non vorremmo per i nostri figli.
Era quello che non sapevamo di volere, Lucio Corsi. Una cosa facile ma non banale e meravigliosa, una medaglia d’oro di sputo fallita con il coraggio di ammettere quanto sia dura la vita per quelli normali, quelli che hanno paura del buio. E che ora possono finalmente gridarlo forte, e senza vergogna.