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10 album figli di ‘The Wall’ dei Pink Floyd

Dai Nine Inch Nails ai Muse, passando per Tool, Dream Theater e Radiohead, ecco le opere influenzate dalla storia di Pink e dal concept di Roger Waters

The Wall non è solo uno degli album-simbolo dei Pink Floyd. The Wall è una filosofia. Quella di abbattere le barriere che si interpongono tra se stessi e il mondo, barriere mentali ma anche musicali. The Wall non è solo la storia del paranoico Pink, è anche un concentrato di rock in mille declinazioni: psichedelia, folk, funk, prog, metal. Come tutti i grandi capolavori, l’opera dei Pink Floyd vanta innumerevoli tentativi di imitazione, ma solo chi ha saputo cogliere in pieno la sua filosofia ha vinto. Questa lista non è dedicata alle copie del famoso doppio, ma a chi, come Roger Waters e soci, ha messo in musica una storia più o meno introspettiva e visionaria non avendo paura di osare. Facendo sì sì che i muri crollassero.

Queensrÿche “Operation: Mindcrime” (1988)

Basta ascoltare i primi istanti del terzo album degli americani Queensrÿche per essere immersi in un’atmosfera figlia di The Wall. Voci concitate che sfociano in Anarchy-X danno il via all’album che ha sancito la nascita ufficiale del prog metal. Operation: Mindcrime racconta di droga, religione, cervelli impazziti, prostituzione e via delirando. Il tutto tra furibondi scenari chitarristici, cambi di tempo e ariose ballate. Attenzione al successivo Empire (1990), contiene Silent Lucidity, la Comfortably Numb degli anni ’90.

Marillion “Brave” (1994)

La storia di una ragazza trovata in stato confusionale dalla polizia sul Severn Bridge, il ponte che collega l’Inghilterra al Galles, spinge la band inglese fautrice della rinascita del prog rock a imbarcarsi in un doppio album (solo il vinile, il cd è singolo) dalle atmosfere oniriche e ammalianti. Prog sì, ma quasi del tutto scevro dalle influenze anni ’70 e rivestito di hard rock, elettronica e folk celtico. Il chitarrista Steven Rothery fa il possibile per evocare il tocco e la passione di David Gilmour, riuscendoci in pieno.

Nine Inch Nails “The Downward Spiral” (1994)

Nelle interviste dell’epoca Trent Reznor era chiaro: l’album intendeva mischiare influenze derivate dagli ascolti compulsivi di Low di David Bowie e di The Wall. Colpisce la voglia di traslare le atmosfere dei dischi ispiratori in un contesto personale fatto di industrial, techno, metal, momenti in cui suono e rumore si fondono in qualcosa di unico. La trama del concept è quanto di più vicino ci possa essere ai temi cari a Roger Waters: alienazione, paranoia, depressione, perversione. Il tutto per raccontare la sottomissione al sistema del protagonista.

Dream Theater “Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory” (1999)

Dopo i Queensrÿche, i Dream Theater sono i grandi animatori della scena prog metal americana, virtuosi fino all’eccesso, ma anche capaci di tessere straordinarie melodie, testi di grande caratura e composizioni sempre cariche di sorprese. Prendendo le mosse dalla Metropolis contenuta in Images and Words (1992) i cinque immaginano una vicenda che muove i passi da una seduta psicanalitica e si snoda in un emozionante turbinio tra thriller ed esoterismo. Un album monumentale che corre sul filo di una crescente tensione.

Radiohead “Kid A / Amnesiac” (2000 / 2001)

Che i Radiohead siano definiti da più parti i Pink Floyd moderni non è una novità. La band di Oxford nutre infatti lo stesso amore per le atmosfere venate di psichedelia, che nel loro caso si uniscono a una ricerca nell’ampio alveo della musica elettronica. In questi due album gemelli (in origine dovevano uscire come doppio album, ma si optò per separarli) si uniscono anche astrazioni varie che in questo mix unico faranno scuola. Nei due album non ci sono legami ai temi trattati da Waters, ma la sensazione di oppressione e claustrofobia strisciante è la stessa.

Tool “Lateralus” (2001)

 

Lateralus è il The Wall dei Tool, il che offre un inedito connubio tra le manifeste influenze derivate dai King Crimson e il suono floydiano. Concept album di oltre 80 minuti, Lateralus affronta tutti gli stati d’animo dell’essere umano, che percorre una strada che lo possa avvicinare a dio. Così come questo disco avvicina i Tool alla perfezione, al massimo delle loro potenzialità espressive, tra tribalità, virtuosismo, angosce metalliche e progressive.

Pain of Salvation “Remedy Lane” (2002)

Il protagonista della storia messa in scena dai Pain of Salvation è fotografato in una stanza di albergo mentre, grazie a una serie di flashback, ripercorre le sue esperienze più significative e dolorose. Ricorda qualcosa? Mentre i tributi a Pink Floyd e Yes si sprecano, la narrazione assume ritmi sempre più incalzanti, con riff rocciosi e immediatamente memorizzabili che si amalgamano con dolci parti di chitarra o pianoforte.

Mars Volta “Frances the Mute” (2005)

Una sorta di discesa nel maelstrom dal quale è sublime lasciarsi trascinare. Avviene grazie alla perizia compositiva ed esecutiva della band americana, più vicina ai Pink Floyd di inizio carriera ma colma di un furore strumentale senza pari. Il tutto per sei brani di lunga durata, l’ultimo a superare addirittura la mezz’ora. Curioso e affascinante, il concept basato su un immaginario diario scovato da Jeremy Michael Ward (componente originario della band morto di overdose nel 2003) racconta la vita del suo misterioso autore, molto vicina a quella vissuta da Ward. Occhio infine alla copertina, più floydiana che mai grazie al lavoro dello studio Hipgnosis di Storm Thorgerson, responsabile di gran parte dei lavori grafici del gruppo inglese.

Muse “Black Holes and Revelations” (2006)

Nell’omaggio ai Pink Floyd, i Muse si spingono oltre, con un’altra immaginifica opera grafica a cura di Hipgnosis e parte della registrazioni effettuate negli studi francesi nei quali The Wall era stato realizzato, i Miraval di Le Val, in Francia. I Muse riescono nell’impresa di essere assai più avveniristici dei Pink Floyd, con accentuate tendenze elettroniche, jazz, soul e r&b che si fondono a grandi aperture melodiche e classicheggianti. La filosofia di fondo è però la stessa, creare una musica che fornisca forti sensazioni e visioni, che scenda nei meandri della psiche anche grazie a testi che si soffermano su politica, cospirazioni, guerra, potere e manipolazioni.

Steven Wilson “Hand. Cannot. Erase.” (2015)

Nel 2015 il genio del prog rock moderno offre una sua visione delle atmosfere più rasserenanti e auliche dei Pink Floyd, alternate a momenti in cui si preme sull’acceleratore del virtuosismo. Il disco è incentrato sulla storia di Joyce Carol Vincent, giovane donna trovata senza vita nel proprio appartamento a due anni di distanza dalla morte, lasso di tempo nel quale nessuno l’ha cercata, nemmeno la famiglia e gli amici. Con le chitarre di Steven Wilson e di Guthrie Govan che fanno magnificamente il verso a quella di David Gilmour, Hand. Cannot. Erase. si pone come il The Wall dei nostri giorni, il muro che la solitaria protagonista ha messo tra sé e il mondo, unito a quello derivante dall’alienazione tecnologica del nuovo millennio.

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