Era iniziato in sordina, giusto sessant’anni fa, con quelle prime cover beatlesiane incise dai giovanissimi Fausto Leali e Ricky Gianco. Ma nel giro di un paio d’anni il beat avrebbe dominato palinsesti e classifiche nazionali (soprattutto quelle dei 45 giri, in un mercato ancora calibrato su hit da tre minuti o giù di lì). È l’epoca dei complessini e delle riviste (Ciao amici, Big, Giovani), dei caschetti sempre più lunghi, dell’invasione britannica e delle messe beat, del Piper a Roma e del Paip’s a Milano e a Genova.
Quando nel 1966 una nutrita delegazione di paladini del nuovo genere sbarca a Sanremo (Caterina Caselli, Equipe 84, The Renegades, Françoise Hardy e gli Yardbirds abbinati a Lucio Dalla per Pafff… bum!) si capisce che l’ondata ribelle sta per raggiungere il suo culmine, ma anche che gli restano un paio d’anni scarsi prima di istituzionalizzarsi definitivamente e lasciare spazio a una lunga risacca.
La RAI e le major vorrebbero addomesticare il genere accomunandolo ai ritmi estivi e concilianti del surf e del twist, ma quei giovani musicisti hanno già lasciato in eredità canzoni intrise di costume, protesta, proto-femminismo e sensibilità ambientale. Una generazione che canta la propria stessa evoluzione, mentre all’orizzonte si intravedono la psichedelia, il progressive e la canzone d’autore.
Casco d’oro
Caterina Caselli
1966Nell’anno di grazia 1966 il più iconico dei caschetti nostrani conquista il palco dell’Ariston rilevando un brano originariamente scritto per Celentano dai fedelissimi autori del Clan: Nessuno mi può giudicare. Il passaggio di genere tra i due interpreti si traduce in una rivendicazione di libertà, urlata e declinata al femminile dalla più grande cassa mediatica nazionale del tempo. Da un Festival all’altro per altri due classici, Un uomo d’oro e Perdono, presentati rispettivamente al Disco per l’Estate e al Festivalbar. E in questo esordio beat di Caterina c’è anche tanto altro.
Per quando noi non ci saremo
Nomadi
1967Dalla Sassuolo della Caselli alla Novellara dei Nomadi la distanza è davvero esigua, e poco più di un mese dopo quel Sanremo il verbo “giudicare” riappare nel vocabolario beat grazie a Daolio e compagni. Ma qui il verbo è coniugato al plurale, Come potete giudicare; il che fa del brano il cantico degli gnagnòun (slang tutto emiliano), i giovani capelloni che scandalizzano l’italietta dell’epoca con il loro look (sullo stesso tema si ascolti anche la meno nota I capelli lunghi di Gene Guglielmi). Lungo la via Emilia i Nomadi incontrano il folk beat del giovane Francesco Guccini, ricevendone in dono una manciata di piccoli capolavori e un secondo inno generazionale, Dio è morto. Altro scandalo, con uno storico paradosso: censurato dalla Rai, il brano viene trasmesso dalla radio vaticana. Anche per questo, l’opera su 33 giri è il primo grande successo di una band che di generazioni ne vedrà avvicendarsi parecchie.
Un ragazzo di strada
Corvi
1966Siamo ancora sulla via Emilia, giusto qualche chilometro più a ovest. Il complesso parmense innalza ulteriormente il livello dello scontro, non più soltanto generazionale ma anche di classe e di genere. Un conflitto tradotto in immagini dal look noir, consono a tanto nome, e soprattutto espresso in musica dalla voce roca di Angelo Ravasini (assolutamente in controtendenza rispetto al canone del tempo), dal sound rollingstoniano e dal fuzz che incattivisce le chitarre di Fabrizio Levati e dello stesso Ravasini. È un beat aspro e introverso, che invecchia molto meglio rispetto alla media dei suoi coetanei.
Per quelli come noi
Pooh
1966In un certo senso sono invecchiati bene anche i Pooh, dei quali è sorprendente andare a ripescare i primi brani, ritrovandovi contenuti che adesso faremmo fatica ad ascrivere alla penna e alla voce di Roby Facchinetti. Che qui, peraltro, è al suo esordio nella band, anch’essa di nascita emiliana e paladina di un beat che guarda già alla psichedelia, al rock duro (si ascolti La vostra libertà) e al western; strano mix che li accomuna ai Corvi. È l’anno di Nessuno mi può giudicare, ma i versi di Brennero ‘66 sono troppo audaci anche per un Sanremo così aperto alle novità: il brano, che parla di un militare italiano ucciso dai terroristi altoatesini filoaustriaci, viene escluso dal Festival per la crudezza del suo testo. Da riscoprire.
Che mondo strano
Rokes
1966Dall’Inghilterra che è improvvisamente ombelico del mondo arrivano un paio di band che portano con sé un pedigree madrelingua non soltanto per l’accento esageratamente british dei loro frontman. I Rokes di Shel Shapiro si ritrovano in Italia quasi per caso, notati da Teddy Reno e portati al successo nazionalpopolare dalla pubblicità della Algida (“Posso dire una parola? C’è un Algida laggiù che mi fa gola”, l’irresistibile slogan). Poi arriva Mogol, che ritaglia su un originale di Bob Lind l’ennesimo testo dal carattere generazionale (e in forma di disputa “accusa contro difesa”) di quell’anno: Che colpa abbiamo noi. E in quel movimentatissimo ‘66 sono ben tre gli album sfornati dai “Beatles d’Italia” (sic), l’ultimo dei quali spicca per la quantità e la qualità degli inediti, per la verve contestatrice della title track e del singolo È la pioggia che va, per la varietà degli arrangiamenti che vanno dal folk-rock al klezmer di Se io fossi povero.
Quelli
Quelli
1969Tra i tanti complessi per i quali il beat rappresenterà una palestra propedeutica in attesa di un rock più duro e maturo, non possono mancare i Quelli. In pratica il nucleo della futura PFM, con le partecipazioni più o meno speciali di Alberto Radius e Teo Teocoli. Un nucleo che diventa pervasivo come gruppo di turnisti, marchiando i dischi di Lucio Battisti, Mina, De André e Celentano e, di conseguenza, il sound di buona parte dei successi della seconda metà degli anni Sessanta. A loro nome, invece, un unico 33 giri. Come d’abitudine per l’epoca, una raccolta di brani già incisi come singoli negli anni precedenti, per una sorta di storia conclusiva del beat italiano.
I Ribelli
Ribelli
1968Come gruppo di supporto nascono anche i Ribelli, la cui formazione iniziale viene reclutata dal Molleggiato in persona già nel 1959. Diventano così i sessionmen del Clan, incidendo per Celentano, Ricky Gianco, Don Backy e altri, fino al passaggio alla Ricordi nel 1967. Nel frattempo alla voce è arrivato un giovane cantante e tastierista di origine greca: Demetrio Stratos. E così, con Pugni chiusi, Chi mi aiuterà, Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto, siamo già oltre il beat.
Stereoequipe
Equipe 84
1968Un album a suo modo storico, il primo a uscire in Italia soltanto in stereo. Inoltre, va sottolineato che per questo 33 giri la band modenese può addirittura giovarsi di un registratore a otto piste nello studio Ricordi di via dei Cinquecento a Milano: un cinema parrocchiale che all’occorrenza diventa sala d’incisione (i Beatles, in quel momento, viaggiano ancora a quattro tracce). Anche in questo caso la maggior parte dei pezzi è già uscita in 45 giri, il che ne fa una sorta di greatest hits per la band modenese: Nel cuore nell’anima, 29 settembre, Un angelo blu, e lo strumentale Intermission Riff, che porta anche in Italia il suono del sitar.
The Best Records in the World
Camaleonti
1966Ben prima di Spotify, i Camaleonti propongono la loro playlist su vinile, pubblicando un album d’esordio che è una lunga scaletta di cover internazionali con testo tradotto alla meglio, secondo il rodato modus operandi dei discografici del tempo. Tra le tante, Norwegian Wood diventa Se ritornerai, Get Off Of My Cloud dei Rolling Stones si trasforma in Come mai, mentre la dylaniana If You Gotta Go, Go Now viene tradotta in Non sperarlo più. Infine, tra i temi caldi del beat italiano, va segnalata I capelloni (liberissimo adattamento da Over And Over di Bobby Day), il cui incipit non cerca metafore né finezze poetiche: “Sulla fronte i capelli ci scendono giù / ma non li taglieremo più / e questa moda cavernicola del tempo che fu / puoi seguirla pure tu”.
1999
Lucio Dalla & Gli Idoli
1966Il famigerato Festival del ‘66 resterà memorabile anche per quel momento tanto alto quanto imprevedibile, destinato a entrare nel mito, che è Paff… Bum!. Da una parte gli Yardbirds, dall’altra un giovanissimo Lucio Dalla, reduce dalla militanza nei Flippers, altro complesso proto-beat. L’esordio discografico del futuro cantautore, accompagnato dagli Idoli, è un beat intriso di rhythm & blues che omaggia James Brown e affida a Sergio Bardotti testi che ironizzano sulla guerra (Quando ero soldato) e sulla droga (L.S.D., un anno prima di Lucy In The Sky With Diamonds…). L’ennesimo successo targato 1966? Niente affatto: le vendite vanno malissimo. Ma Lucio, a differenza dei suoi Idoli, avrà modo di rifarsi.