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10 album registrati da Steve Albini che forse non conoscete

Non solo Nirvana o PJ Harvey. Sono centinaia i dischi super underground su cui ha messo le mani l’uomo dell’Electrical Audio. Ecco un piccolo campione, dai Whitehouse ai Melt Banana. Ascoltate a vostro rischio e pericolo

Foto: Marc Broussely/Redferns

La morte di Steve Albini ha scioccato tutti, tanto che per molti rappresenta la fine di un’era: quella della produzione fieramente DIY, che non scende a patti, che premia l’urgenza e che, al di là delle questioni relative alle tecniche di registrazione, le sue fisse per l’analogico, il suo modo singolare di piazzare i microfoni, si basa su un’etica ferrea. Albini si considerava alla stregua di un idraulico che va pagato per il suo lavoro. E in effetti come idraulico ha anche salvato il culo a molti dall’allagamento. Se con In Utero ha salvato in parte la credibilità dei Nirvana un motivo ci sarà.

Il problema è che molti si ricordano di Albini solo per questo episodio, che è anche uno dei meno importanti. Se pensiamo al fatto che i dischi da lui prodotti – a parte ovviamente quelli dei suoi gruppi, gli immensi Big Black (di cui scegliamo Atomizer), i grandissimi Rapeman (di cui scegliamo l’EP Budd) e i monolitici Shellac (di cui scegliamo il disco che sta per uscire, il postumo To All Trains) – sono più di 200 (da non accreditato ne avrà registrati 1000), ci rendiamo conto che è molto difficile fermarsi solo sulle prove di nomi più o meno famosi nell’underground e nel mainstream alternativo.

In questo articolo passiamo in rassegna un campione di 10 esemplari scelti arbitrariamente nella sua sterminata discografia “per altri”. Albini era anche uno che scriveva di musica, probabilmente mi perdonerà dall’alto per aver accettato questa proposta “oscena”, ma è un tentativo per andare oltre ai facili epitaffi dei fan da Facebook.

Griller

UT

1989

Nonostante Albini sia stato spesso oggetto di speculazioni a causa delle sue provocazioni e indicato come un “sexist jerk” (cosa che pensava anche Cobain prima di entrarvi in contatto), i fatti parlano diversamente. Lo dimostra, a parte i successivi lavori con PJ Harvey, Cath Carroll, Joanna Newson e via discorrendo, la produzione dell’ultimo album delle Ut, storica formazione all female del giro no wave newyorkese in circolazione dal 1978 e ispirazione per band femministe come Le Tigre e soprattutto Babes in Toyland che a piene mani hanno preso da queste assolute pioniere. Lui ne era grande fan, nonché compagno di etichetta, la Blast First, ironia della sorte proprio nel periodo Rapeman tanto da confezionare per loro una produzione che riesce a levigare e a rendere più evidente la cruditè del loro sound senza snaturarlo o ripulirlo: semplicemente ti arrivano forma e sostanza in maniera intellegibile e potente. Il caos della band anzi sembra essere tanto più avvolgente quanto la bellezza delle loro eclettiche canzoni, mai ferme su se stesse, a volte quasi come se Patti Smith si ricoprisse di salsa prog. Inutile dire che è un disco eccellente, colpevolmente poco ricordato da una certa intellighenzia rock, quella che da sempre – in fondo – è stata il nemico numero uno di Albini.

Salt Lick

Tad

1990

Come abbiamo detto, quando si parla di grungeAlbini non è solo il produttore di In Utero. Anzi, il suo sound ha accompagnato, forgiato e sostenuto i primi vagiti del movimento, essendo di casa alla Sub Pop. Ne è un esempio eclatante la produzione per questo disco dei Tad, band che è effettivamente prime mover del genere (ma era molto di più, sforando anche nell’alt metal), coi musicisti che posavano da boscaioli brutti, grassi e cattivi. Niente a che spartire con la figaggine arty di Cobain, anche se Nirvana e Tad hanno condiviso un tour europeo nel 1989 con Cobain ad occuparsi dei problemi gastrointestinali di Doyle, tenendogli le ciotole dove vomitare e ricordargli di prendere le medicine anti diarrea (la cosa ispirerà Imodium dei Nirvana poi ribattezzata Breed). In quanto a impatto, Salt Lick fa sparire In Utero dei Nirvana (saranno altri i pregi di quell’album, ma raggiungere la furia dei Tad è impossibile), come è chiaro che il modo di “berciare” di Tad Doyle e i suoi riff assassini hanno influenzato non poco Cobain e soci, che nello scritturare Albini arrivano senza dubbio fuori tempo massimo. Detto questo, per una band come i Tad che nel primo album si proponevano di eliminare in un sol colpo melodia e armonia, c’è evidentemente una svolta in cui sembra tutto, se non accessibile, “definito”. È merito chiaramente di Albini, reduce non a caso dalla produzione di Surfer Rosa dei Pixies), che riesce a valorizzare quelle briciole di canzoni in mezzo a tante cannonate strumentali, dando loro una forma à la Big Black, cristallina eppure maleodorante. L’aiuto di Albini permetterà ai Tad di firmare per una major e pubblicare Inhaler, avendo in un certo senso focalizzato il loro sound entro precisi parametri in cui il “macello” diventa non tanto fine a se stesso quanto comunicazione a tutto tondo di una realtà indiscutibile: quella dei veri outsider.

Thank Your Lucky Stars

Whitehouse

1990

Una cosa che non si ricorda spesso di Albini è il suo legame con gli atroci paladini del power electronics, i quali non si sono mai piegati a compromessi nei loro estremismi: l’attitudine è quanto di meglio per Albini. Testi crudi su stupri, misoginia, serial killer, neonazismo e in generale per tutto quello che rappresenta l’abominio umano, approccio per cui il noise è a tutti gli effetti il superamento del punk (perché imparare tre accordi se possiamo darci giù col rumore?), ed è qualcosa che i Big Black rappresentano appieno (nella loro missione di tirare fuori la spazzatura americana da sotto il tappeto non avevano certo tempo per lo snobismo). Bene, i Whitehouse proprio con Albini tornano dopo uno iato di anni, con il leader William Bennett a fondare una nuova etichetta: il disco segna un passo avanti nel sound della band in quanto Albini li ingigantisce come se avesse in mano una lente d’ingrandimento. I sintetizzatori urlanti, i droni gonfi di eco distorti, i martellanti suoni di percussione, le urla cataclismiche, la sensazione di trovarsi di fronte la registrazione di un test atomico sono centuplicati tanto da rendere il gruppo più deforme che mai perché le loro pustole sonore ora appaiono sul loro corpo concettuale in modo vivido. Un grande ritorno per un grande disco quindi. Albini rimarrà fedele alla band per altri tre album, contribuendo alla reputazione dei Whitehouse che diverranno fondamentale ispirazione per i “peggiori” act di Japanoise e di elettronica sperimentale a venire.

Scratch or Stitch

Melt Banana

1995

A proposito di Japanoise, Albini ha dato una spinta al genere, producendo artisti come Zeni Geva di K.K. Null o gli efferati Space Streakings. Dovendo fare una selezione scegliamo il secondo album dei Melt Banana (pupilli di K.K. Null, che li presenta ad Albini), formazione tra le più importanti dello speed noise rock contaminato da grindcore, elettronica, jazz core e j-pop schizoide: insomma definirli è abbastanza difficile. Albini tira fuori fuori il calibro “missilistico” di questi quattro terroristi nipponici (in questo caso registrati da Jim O’ Rourke). Già nel loro esordio Speak Squeak Creak Albini si occupava dell’ingegneria del suono, in questo caso sottolinea non solo il loro approccio sonoro terrorista, ma anche la loro “aura” da manga viventi. Scratch or Stitch permette al gruppo di entrare nel mercato statunitense (con un tour di supporto ai Mr. Bungle) e riuscire nel miracolo di farsi passare su MTV. È il disco che contiene il maggior numero di grandi classici della band, immancabile in qualsiasi live. Cosa non meno importante, è che il disco consacra lo stretto rapporto di Albini con l’etichetta di riferimento, la Skin Graft, per la quale produce gran parte delle band in scuderia forgiando il sound del movimento neo wave degli anni 2000.

Gub

Pigface

1991

Tornando al discorso power electronics/industrial, Albini si è “macchiato” anche della produzione del primo album in assoluto di questo supergruppo con a capo Martin Atkins, ex PIL/Killing Joke e in quel periodo batterista dei Ministry insieme a William Rieflin, altro co-fondatore. La loro idea era di creare una band aperta, basata su collaborazioni estese a tutto il territorio sperimentale e industrial. Gub è il disco più rappresentativo, in cui troviamo la partecipazione di membri di Ministry, Skinny Puppy, David Yow dei Jesus Lizard e Trent Reznor dei Nine Inch Nails prima che facessero il botto. Suck è qui nella sua prima versione, scritta appositamente per i Pigface e poi recuperata più avanti, che Albini tratterà in modo scarno impedendo a Reznor di farcirla di synth. Il disco suona come una versione noise rock dell’industrial, praticamente un crossover tra le cose della label Wax Trax! e i Rapeman (approccio che in qualche modo influenzerà molte delle produzioni a venire nell’ambito del genere). Esempio della grande perizia di Albini è l’allucinante War Ich Nicht Immer Ein Guter Junge? in cui ci sono solo una voce spoken e due batterie che vanno spedite in asincrono su un synth dalle frequenze moleste: tutto gira in una potenza tanto ben confezionata quanto malsana, che è esattamente il prodromo del grande successo dell’industrial su larga scala. Albini partecipa anche come musicista in molti brani del disco, dividendosi tra chitarra basso e sintetizzatore: da riscoprire.

After Murder Park

The Auteurs

1996

Gli Auteurs di Luke Haines, uno degli autori più intelligenti della musica inglese, e di Alice Readman sono uno di quei casi incredibili di genialità incompresa che chiedono vendetta al cospetto di Dio. Dopo aver stregato la critica e seminato con il loro debutto New Wave le basi dell’esplosione Brit pop, si sono giustamente spostati altrove quasi subito, pagando a caro prezzo il loro coraggio. Così mentre gente come gli Oasis capitalizza (anche ingiustamente), gli Auteurs pubblicano After Murder Park, dirottando il loro sound verso le asperità di Albini e quindi verso una palette sonora più scura e cruda che rende gli arrangiamenti poderosi e drammatici. Nel 1995 si chiudono in studio e dopo sole due settimane il disco è già bello che pronto per uscire: l’etichetta Hut però – scelta bizzarra – lo blocca per un anno, forse pensando a una generico cambio di tendenze musicali. Probabilmente uno dei motivi dello scarso successo del disco è proprio quello di uscire così tardi, ma è ovviamente l’approccio anti Brit pop in un periodo in cui vi era il picco commerciale del genere a rendere After Murder Park un gioiello di anticonformismo. Albini riesce con i suoi microfoni a trasformare gli Auteurs da grandiosi autori di canzoni indie a capiscuola di una misantropia melodica terrificante che probabilmente dopo di loro non ha più avuto eguali. Da recuperare assolutamente.

Further Complications

Jarvis Cocker

2009

Quando parliamo di Brit pop non possiamo non pensare ai Pulp, che sono tra le band che lo hanno inventato. Pur riuscendo ad avere successo solo nel 1994, sono in giro dal 1978. Probabilmente è questa sensazione di essere della “vecchia guardia” ad aver creato connessione tra Albini e Jarvis Cocker. Nel 2006 il cantante decide che è ora di scrivere un disco solista omonimo e vista la buona accoglienza generale vuole bissare. Incontra Albini al Pitchfork Music Festival e i due cominciano a provare un po’ di canzoni insieme. Further Complications è una sterzata di Cocker verso una specie di indie zozzissimo, che ha più da spartire col rock che altro, senza però abbandonare l’ironia ciarlatana che lo contraddistingue e la capacità di surfare sui vari generi rubando lo stretto necessario per uscirne impunito. Albini riesce ad amplificare e a iniettare di elettricità i brani di Cocker, renderli pulsanti nella sezione ritmica, facendo esplodere come uno gnomo a molla da una scatola il grande sberleffo del nostro che gioca a fare l’intellettuale cialtrone, sostenendone il cazzeggio e manipolando gli spunti disco dance, musical, hard rock, new wave e glam. Il disco supera le aspettative e arriva al numero 19 della classifica inglese, entrando anche nelle charts americane. Scrittura a parte, l’idraulico Albini qui fa davvero miracoli.

Neoclassico

Neo

2011

Albini ha avuto sempre una passione per le band italiane, probabilmente anche a causa delle sue origini (i parenti sono per la maggior parte piemontesi). E quindi lo vediamo in sede di produzione con gli Uzeda, gli Zu, i Three Second Kiss, che sono i primi nomi a venire ricordati quando si parla dell’americano in azione con i gruppi della nostra penisola. Anche i romani Neo nel 2010 hanno avuto l’americano dietro la consolle del loro disco Neoclassico, galeotto un tour negli Stati Uniti con tappa a Chicago. Albini si approccia all’andazzo freecore del trio (da sempre imprevedibile, tanto cervellotico quanto scaciato) rispettandone le radici jazz, non imponendosi sul suono dall’alto, ma anzi creando una spinta dal basso punkettona che dà fondamenta al resto, tirando fuori anima e corpo della band che non è solo furia ma anche cuore, sebbene infranto. Aspetto molto importante per capire che razza di produttore fosse Albini: si dice che quando si comincia a capire che dietro a un certo disco c’è un certo producer, la sua carriera è praticamente finita. È invece chiaro che Steve non ha alcun interesse a cadere nei cliché e che il suo lavoro è sempre stato a servizio della band di turno, non il contrario. I Neo con questo album ottengono conferme dalla critica e probabilmente anche la “maturità” di scrollarsi di dosso i loro riferimenti musicali per una via personalissima (dai Contortions a Capitan Beefheart passando per Coltrane e Coleman, sì, ma con Steve Albini i Neo sono i Neo).

Blow It Out Your Ass It’s Veruca Salt

Veruca Salt

1996

Una cosa molto interessante di Albini è la capacità di trasformarsi in guru, o a volte psicologo, del suono e delle band. Almeno agli occhi di determinati gruppi, i quali una volta raggiunto il successo si sentono da questo schiacciati e si rivolgono a lui per cercare una nuova verginità, o nei casi meno gravi un modo per uscire da una routine. Accadde ai Nirvana in crisi di identità di In Utero e tra i tanti anche ai Veruca Salt di Nina Gordon e Louise Post. Nata nel 1992 a Chicago nella scia dell’alternative rock del periodo, la band inizia a fare breccia tra le college radio dopo un tour con le Hole e il singolo Seether, clamorosa hit di MTV che trasforma il gruppo suo malgrado in celebrità di facile ascolto. Pressati dalla crescente fama, dalla casa discografica e da MTV (noto il caso in cui fecero togliere dai palinsesti dell’emittente il video del loro successivo singolo Number One Blind perché insicuri del risultato), i Veruca Salt decidono di prendersi un momento di riflessione, reagendo nel 1996 con l’EP Blow It Out Your Ass, It’s Veruca Salt, composto da due brani scritti da Louise e due da Nina, che è chiaramente un tentativo di essere più aggressivi verso il mondo dello show biz col quale non vogliono più avere a che fare. È loro prova più weird e incazzosa, in cui si parla dei luoghi comuni sulle cantanti donne, dei media che fanno cacare e del sollievo di esibirsi fuori dagli Stati Uniti. In copertina sono avvolti nella carta igienica: è per dire di Albini non è morbida, anzi ti fa lo scrub alle chiappe. Sfuzza che è un piacere e si lascia andare a territori à la Shellac quando i tempi si dilatano, e quando i brani sono più pop li copre invece con feedback, rumori molesti e noise rock assortito. Ne esce un ritratto ibrido delle due anime dei Veruca, sta all’ascoltatore decidere da che parte stare. Di sicuro Albini in questo caso si pone al di là del bene e del male…

Drunk Tank

Drunk Tank

1991

Albini ha lavorato con tantissimi gruppi fondamentali (ricordiamo anche i post synthcore Six Finger Satellite di Machine Cusine), così come band che si sono cacati in tre ma che hanno creato un culto (per esempio gli psichedelici High Dependency Unit, che lui produce in Fire Works). Ecco, probabilmente i Drunk Tank non sono arrivati neanche a quello, ma nel 1992 sembrava dovessero salire sul carro di una major, il tutto con la ciliegina sulla torta di una Peel Session. Purtroppo come molti nella storia del rock, non sopportano le tensioni e si sciolgono quasi subito. Albini però li eterna con l’omonimo album di debutto del 1991, un disastro di furia antisociale, rabbia furiosa (giustamente Piero Scaruffi scriveva del cantante come di un licantropo), uno sputare sangue dalle chitarre e una sezione ritmica che suona come ossa rotte, probabilmente peggio dei Jesus Lizard e dei Big Black messi insieme nei loro armonici dissonanti e armonie corrotte che eruttano in faccia all’ascoltatore. Pane per i denti di Albini, che si trova a suo agio nel potenziare quello che è già per sua natura un sound distruttivo, tanto da incidere a tutti gli effetti una pietra miliare del noise rock. Ora, il problema è che il disco è talmente estremo nelle sue conclusioni da aver letteralmente frantumato la stessa band che l’ha creato. Ma anche questo è il tocco di Steve Albini: un re mida capace di tramutare la merda in oro e sconvolgere chi è già sconvolto. E che in questo periodo di banalità fin troppo prevedibili, ci manca già moltissimo.

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