Oggi che la musica può essere prodotta quasi direttamente da intelligenze artificiali, l’unico modo per capire dove inizia l’uomo e finisce la macchina è il disco dal vivo. Gli album live sono serviti per stabilire la validità o meno delle band più popolari. Le quali a volte, terrorizzate dall’ansia da prestazione, non mancavano di ritoccare alcune tracce in studio o addirittura lo reincidevano.
La vera cartina al tornasole del valore dei musicisti è quindi il solo. È spesso relegato a momento di passaggio dove l’artista mette finalmente in mostra il suo valore. In alcuni casi fanno storia a sé, diventando praticamente dei brani nel brano, a volte anche bizzarri perché, in fondo, il solo non ha regole, serve spesso a proiettarsi oltre i codici definiti e non si può risuonare in studio.
In questo articolo ne elencheremo alcuni davvero strani, particolari, spesso dimenticati, ma comunque esempi di libertà assoluta.
Brian May, “Brighton Rock” Queen, da “Live Killers”
Si sa che i Queen dal vivo erano una potenza, ma fino al 1979 non esiste documento audio ufficiale delle loro leggendarie performance. Poi esce Live Killers e finalmente c’è la possibilità di ascoltare a casa propria l’energia della band come se si fosse in un arena. Dentro Live Killers si affaccia il monumentale solo di Brian May su Brighton Rock. Se nella versione studio contenuta in Sheer Heart Attack è molto ridotto, su Live Killers esprime tutte le sue potenzialità. La cosa interessante è che May interagisce con un delay che ha un ritardo tale da sfiorare una loop station ante litteram, così da poter creare dei botta e risposta di chitarra con se stesso. L’esperimento spiazza i fan che si trovano improvvisamente catapultati in una one man band chitarristica, un numero fuori programma ma ad altissimo tasso sperimentale e psichedelico/cosmico (negli anni 2000 molti useranno questa tecnica, ma all’epoca May era uno dei pionieri).
Alain Groetzinger, “Drum Solo” Rockets, da “Rockets Live”
I Rockets sono stati un fenomeno di grandissimo successo soprattutto in Italia. Per documentare il loro boom mainstream nella nostra penisola nel 1980 danno alle stampe Rockets Live nel quale si dimostrano all’altezza delle aspettative e non solo un astuto progetto di marketing. Tra i tanti successi, fanno capolino anche brani inediti, che sono degli assolo ben precisi. Nel primo, Drum Solo, il batterista Alain Groetzinger fa sfoggio di effettistica alle pelli, tanto da dare un’idea di percussioni spaziali tra flanger delay e pad sintetici pilotati da un sequencer. Notevoli i momenti in cui i tom sparano dei raggi laser, evocando una specie di minimal techno ante litteram, con finale “classico” a sorpresa. Il secondo è Guitar Visions, in cui il chitarrista Alain Maratrat si butta in campi space rock/ambient frippiani mescolati con shredding metallari che sfociano nel noise puro ante litteram Sono entrambi brani piuttosto lunghi e a tutti gli effetti sembrano degli “esperimenti aperti” per osare e toccare lande altrimenti impossibili nel normale repertorio della band.
Tony Kaye, “Si” Yes, da “9012Live: The Solos”
Nel 1985 gli Yes concepiscono un disco live interamente costruito intorno agli a solo dei singoli elementi della band, legandoli uno all’altro. In 9012Live: The Solos troviamo brani dedicati all’estro di ciascun membro (o quasi, visto che l’ultima traccia è un duetto tra Chris Squire e Alan White che copiano e incollano frammenti di brani della band). Si di Tony Kaye si intrufola in atmosfere digitali ad alta definizione (con grande uso del midi) per poi tornare in territori prog con tanto di organo da chiesa neoclassico, e anticipa Solly’s Beard in cui Trevor Rabin sfoggia la sua tecnica alla chitarra classica in campi fusion pop, sfruttandone le capacità percussivo effettistiche. Chris Squire decide di impostare il tutto su un drone di basso distorto quadrato suonando Amazing Grace. C’è spazio anche per Jon Anderson che canta Soon semi-a cappella e dimostra d’essere uno dei migliori cantanti in falsetto in circolazione. Curioso che questo lavoro sia stato pubblicato come mini LP. È evidentemente un prodotto per promuovere il video-documentario omonimo, nel quale le capacità solistiche della band sono meglio valorizzate. Ma resta la grande bizzarria del tutto, e non è poco.
Jaco Pastorius, “Slang” Weather Report, da “8:30”
Nel 1979 i Wheater Report sono in piena era Pastorious e il live 8:30 è la testimonianza live di quel periodo florido. Fra le varie esecuzioni di brani, ecco una traccia in cui il bassista si esprime da solista senza freni. Slang è in un certo senso il suo manifesto di intenzioni, già dal titolo è un nuovo linguaggio nato da altre lingue. Parte con una versione fuori tempo di Dolores di Wayne Shorter, dopo una sassaiola di note velocissime accende il suo rack delay della MXR per doppiare in loop il suo basso suonandoci sopra. Non contento, dopo una serie di sovrapposizioni ipnotiche, si cimenta in un taglia e cuci tra brani di Hendrix (Third Stone from the Sun), di se stesso (Portrait of Tracy) e una citazione di The Sound of Music, spingendo a palla la distorsione e chiudendo in bellezza suonando il basso percuotendolo direttamente con la tracolla. Il caos che ne deriva è totale, a volte anche si esprime in rombi tuonanti, ed è assolutamente il vero Pastorious, quello a cui la fusion stava stretta e che voleva andare verso lidi sperimentali e rumorosi. Guardava già avanti a un modo di interpretare il basso come generatore di pura elettricità, cercando un confronto diretto col pubblico: ed è proprio grazie ai solo dal vivo che poteva, finalmente, lasciarsi andare a tale missione.
Ian Wallace, “Groon” King Crimson, da “Earthbound”
Il primo album dal vivo dei King Crimson esce nel 1972 e si distingue per il fatto di essere registrato in modo che potremmo definire proto lo-fi, direttamente dal mixer di palco, operazione coraggiosa all’epoca. Nonostante Fripp lo consideri un passo falso nella loro discografia, per noi rappresenta un punto di partenza per quella che sarà la scena a bassa fedeltà degli ultimi anni. All’interno di questo album di cinque tracce troviamo una versione di Groon di ben 15 minuti e rotti in cui il batterista Ian Wallace si esprime in un lungo assolo che a un certo punto, inaspettatamente, viene filtrato attraverso un sintetizzatore VCS3, per intenderci quello usato a piene mani dal primo Battiato e dai Pink Floyd. Il fonico di palco lo modula in tempo reale, ottenendo così un delirio percussivo ad alta intensità, fantascientifico e distorto in un modo tale che i Konono n° 1 potrebbero farne tesoro. Spiazzante per l’epoca, ancora oggi non manca di stupire tanto per l’assoluta efficacia tanto per la “gratuità” che porta i Crimson diritti in zona free (la versione che si può ascoltare qui sopra risale allo stesso anno, ndr).
Keith Emerson, “Piano Improvisations” Emerson Lake and Palmer, da “Welcome Back My Friends to the Show That Never Ends – Ladies and Gentlemen”
Nel 1973 gli Emerson Lake and Palmer incidono probabilmente il loro disco migliore, quello più avanguardista ed elettronico, ovvero Brain Salad Surgery. Come a sbugiardarsi subito e tornare nel territorio dei dinosauri, nel 1974 pubblicano un disco dal vivo addirittura triplo, dal titolo wertmulleriano che è poi l’ incipit del brano Karn Evil 9: Welcome Back My Friends to the Show That Never Ends – Ladies and Gentleman. Contiene gran parte dell’album di cui sopra risuonato dal vivo, poi il pachidermico Tarkus, ma ecco che a un certo punto spunta un solo di piano di Keith Emerson, dal titolo Piano Improvisations, proprio ad aprire il quarto lato. Contiene la Fuga di Friedrich Gulda e Little Rock Getaway di Joe Sullivan, ma impastati all’interno di frullate di tasti neri e bianchi. Nonostante il grandissimo rischio di pacchianata, gli 11 minuti e 54 di questo solo sembrano abbastanza deliranti da reggere almeno fino all’entrata della batteria atta a sostenere il frammento rubato a Sullivan. Emerson sembra suonare note che si sgretolano sui tasti a mo’ di vetro soffiato in frantumi. In futuro il giochetto non funzionerà più ed Emerson devierà i suoi solo neoclassici/ragtime in qualcosa di imbarazzante e inascoltabile. Qui il solo ha ancora il senso del territorio vergine da esplorare ingenuamente, aiutato anche dalla qualità non eccelsa delle registrazioni: una scelta pensata appositamente per dare maggior enfasi al realismo live delle performance.
Michael Anthony, “Ultra Bass” Van Halen, da “Live: Right Here, Right Now”
Dicevamo dei live riregistrati in studio: ecco, Live: Right Here, Right Now dei Van Halen (1993) è in pratica una mezza truffa, dato che è ritoccato in post produzione e soprattutto vede il cantante Sammy Hagar costretto a ricantare tutto il concerto guardandolo in videocassetta a causa delle modifiche che per forza di cose hanno alterato tutto. Di genuino in questo disco c’è appunto, forse, unicamente l’assolo di basso di Michael Anthony che sul palco si ritagliava un momento solista in cui – come Hagar annunciava al microfono – sfogava tutto il suo ego. In 5 minuti e 15 il bassista si prodiga nel solo più coatto mai sentito nella storia. Parte come se suonasse un brano dell’Alan Parsons Project (tutti arpeggi con delay) per poi finire in effetti di flanger che trasformano il basso in mero oggetto percussivo. Per non parlare della distorsione e dei feedback usati talmente a palla che di bassistico non rimane praticamente niente. In mezzo a tutto sto casino ci infila una parte di Sunday Afternoon in the Park, pezzo dei Van Halen contenuto nel disco Fair Warning, trasponendo la parte di tastiera direttamente sul basso. A volte sostenuto dal batterista, il solo di Anthony è da considerarsi un vero e proprio sfogo alla rigidità dei tour, in cui spesso suonare è come timbrare il cartellino dovendo eseguire spesso gli stessi pezzi ogni sera. In quanto alla coattaggine, beh, Michael Anthony sfoggiava un basso il cui corpo era la riproduzione di una bottiglia di Jack Daniel’s…
Ace Frehley, “Shock Me” Kiss, da “Alive II”
Nel 1977 i Kiss pubblicano il loro secondo doppio album dal vivo sfruttando il successo commerciale di Love Gun. Sulla carta riuscire a doppiare la leggenda di Alive! sembra un’impresa, eppure la sfida è vinta: Alive II diventa uno dei loro dischi più venduti, anche per la mossa intelligente di non impostare la scaletta con doppioni di Alive!, in modo da chiudere il ciclo dei recenti tre album in studio e ripartire di slancio. Anche qui non tutto fila come in un vero live, nel lato 4 i brani sono registrati sì dal vivo ma…senza pubblico. Fortunatamente c’è chi ribadisce lo scambio quasi simbiotico tra spettatori e band: costui è ovviamente il guitar hero per eccellenza, il grande Ace Frehley, che nell’esecuzione di Shock Me piazza un solo mozzafiato di due minuti e passa, probabilmente il migliore della sua carriera (aveva già abituato bene gli ascoltatori con il solo di She in Alive I, anche lì tanta roba, ma qui ovviamente c’è un rebooster). Ci trovi di tutto: tapping, rock-blues sanguigno, shredding, bending dall’alta carica sensuale e anche leggere strizzatine d’occhio al post punk (gli armonici naturali usati come effetto, stile Levene nei PIL). In sostanza un bignami dal palco della ricerca musicale di Frehley, sulla quale nessuna post produzione poteva e può nulla.
Cliff Burton, “Bass Solo” Metallica, dal video “Cliff ‘em All”
Facciamo uno strappo alla regola inserendo sì un album, ma in versione video. Nel 1987 i Metallica decidono di dare alle stampe un oggetto inconsueto come album ufficiale, una VHS che celebra la vita del loro grande bassista Cliff Burton, tragicamente scomparso nel momento in cui i Metallica erano all’inizio della loro clamorosa ascesa da band thrash di culto a icona generazionale e scalaclassifiche. In questo documento si storicizzano i primi tre anni di vita della band con un bel po’ di materiale dal vivo, e al suo interno ovviamente il focus è sul bassista. Che si prodiga in un paio di solo mozzafiato, in particolare nel primo Solo tratto da un live del 1985 al Metal Hammer Fest, in cui in un sol colpo dal suo “pezzo di legno” tira fuori arie bachiane, resuscita l’anima di Hendrix in versione basso con un poderoso uso di distorsione e wah mantenendo il suo spirito punk fatto di feedback lancinanti, tuonanti, e chi più ne ha più ne metta, dal tasso tecnico impressionante. Più che introduzione a For Whom the Bell Tolls, questo solo sembra una roba a sé, tanto che è chiaro che Burton avrebbe potuto reggere benissimo il palco anche senza i suoi soci: fa tutto da solo, addirittura sembra anticipare i Lightning Bolt di parecchie misure, indicando il futuro da autentico fuoriclasse.
Robert Smith, “Voodoo Dolly” Siouxsie and The Banshees, da “Nocturne”
I Banshees non sono mai stati una band da assolo: in quanto icone post punk tutto è dato delle tracce nel loro complesso, osare qualsiasi virtuosismo individuale era una roba da secchioni matusa. Ma è vero che nel loro primo live del 1983, Nocturne, c’è l’eccezione che conferma la regola. Alla chitarra in quel periodo c’è Robert Smith dei Cure, che imprime il suo marchio sonoro su tutta l’opera, rivedendo e sintetizzando le parti dei colleghi precedentemente impiegati alle sei corde. Nel finale di Voodoo Dolly, uno dei brani più estremi, si prodiga in un solo di feedback e noise da far accapponare la pelle: non si tratta solo di fastidio sonoro, ma di un’espressione di disagio, dolore e malignità davvero emo, con sfumature che afferrano le corde dell’anima facendone carta straccia. Un grande saggio di come la poesia possa passare anche attraverso la crudezza sonora più disarmante e ovviamente, attraverso un solo: dove si è senza rete e si è –ahimè – davvero soli.