Rolling Stone Italia

10 canzoni di Martin Gore da ascoltare in attesa di ‘The Third Chimpanzee’

Desiderio, terrore, dubbi, sesso, suppliche, religione e depravazione: la poetica dell'angelo dalle ali nere in una selezione dei pezzi che ha interpretato con i Depeche Mode

Foto: Paul Natkin/WireImage/Getty Images

Sere fa, mentre scrollavo distrattamente le noiose notifiche di Facebook, a un certo punto sono stato colpito da un’immagine particolare: la foto di Martin Gore dei Depeche Mode smaterializzato in colori hi tech. Ero finito sulla sua pagina ufficiale e quella foto sembrava presagire una sua imminente uscita discografica. E, in effetti, il giorno dopo la Mute ha diffuso il video di Mandrill, l’ultima fatica di Martin a nome MG, ovvero il suo nick di quando si mette a fare musica “technusa” e iperdefinita: un progetto molto interessante (il nuovo EP The Third Chimpanzee uscirà a gennaio) in cui sfoga la voglia di sperimentazione elettronica che a volte condivide con il vecchio compare di band, il fondatore dei Depeche Mode, ovvero Vince Clarke (in quel caso il duo si fa chiamare VCMG, come da iniziali dei nomi).

Il sound espresso da Gore in questo progetto è decisamente più interessante di quello che abbiamo ascoltato nelle ultime prove dei Depeche Mode, dove evidentemente – nonostante Gore sia il principale autore – si cerca di dare spazio alle tendenze blues di Dave Gahan in un compromesso che non sempre funziona. Approfittando del fatto che i Depeche sono da poco entrati nella Rock and Roll Hall of Fame mi sono interrogato sul fatto che Martin non sia solo strumentista, ma anche cantante. Sì, molti non si rendono conto che i Depeche Mode hanno due cantanti e che spesso dal vivo Gore prende il microfono e Gahan sparisce dietro le quinte. Non fa neanche finta di suonare un synth, né fa i cori, se ne va e basta.

La cosa mi ha sempre lasciato di stucco, ma forse è bene a questo punto approfondire la questione: ed ecco quindi a voi 10 brani dei Depeche Mode in cui Gore è protagonista assoluto alla voce, morbida e gender fluid, particolarmente trasversale, che si sposa a canzoni dolci che però al loro interno nascondono l’amaro. E allora, ascoltiamo la voce di questo “angelo dalle ali nere”, come si presentava camuffato nel tour di Playing the Angel. Voce che, forse, è la sola che può interpretare determinate canzoni senza cadere nello sterile melodramma.

“Any Second Now (Voices)“ (1981)

Questa stupenda ballata elettronica strappacuore lo dimostra. Scritta da Vince Clarke quando ancora era il leader indiscusso della band nonché compositore principale e presente nel primo grande album Speak & Spell, tratta di solitudine, delusione amorosa, paura dell’abbandono, incertezze e traumi che riemergono nonostante un forte desiderio di lasciarsi andare a una relazione “normale”.

Sull’arrangiamento minimal synth a prova di bomba, completamente artificiale, svetta la soave voce di Martin che lo rende uno dei brani più intensi dei Depeche, e senza dubbio una specie di antipasto dei futuri Yazoo di Clarke, con Alison Moyet alla voce. Per i Depeche sarà invece l’inizio di una lunga tradizione nell’affidare i brani più intimisti ed emo a Gore, che in quest’occasione per la prima volta si cimenta come voce solista. Esiste anche una versione strumentale, lato B di Just Can’t Get Enough, che nonostante sia eccellente non è all’altezza della performance con Gore. È un brano che si pone in contrasto con il resto del materiale di Speak & Spell, in quel caso più bubblegum, ballabile e ad ogni modo parecchio “spinto”, lasciando invece spazio al sentimento puro.

“Somebody” (1984)

Se parliamo di sentimento puro, Somebody è la perfezione, una canzone d’amore del futuro, caratterizzata dal pianoforte di Alan Wilder, dalla voce di Gore e da un sinistro sottofondo disturbato, noise, pieno di field recordings che con un battito del cuore a mo’ di batteria e quello che sembra un affannoso respiro sintetico come tappeto. L’amore viene interpretato come contraddizione tra il volere una persona vicina e l’essere libero, senza legami. Questi due motivi antitetici creano una tensione psicologica estrema, un innamorarsi di un ideale che forse non esiste, un amore che perdona ogni perversione, che riesce a farti piacere anche cose detestabili. Ma per arrivare a certi livelli è necessario rischiare: invece questa canzone è un po’ come il grafico della copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division. Le onde vitali rimangono schiacciate al centro, all’interno, e nella realtà non vanno da nessuna parte, tutto rimane compresso in mere fantasie a occhi aperti. Somebody è in un certo senso l’inno di una generazione che desidera una nuova concezione di amore che non sottenda la rinuncia a una vita vissuta senza inibizioni, ma che ancora non sa come ottenerla e che si arrovella le meningi come il subdolo arpeggio di synth finale, che sparisce nella coda come a simboleggiare un’ossessione infinita e malata che non si risolve mai.

Somebody sarà il primo singolo con Gore al comando (doppio lato A insieme a Master and Servant che invece vede Gahan alla voce) e diventerà un instant classic ai concerti, mostrando la grande abilità di Gore di far passare concetti estremi cantandoli con una voce all’apparenza innocente, tanto da creare un contrasto tale da porre le sue interpretazioni al di là della morale, ferme in un limbo di intoccabile umanità.

“A Question of Lust” (1986)

E per farvi capire di cosa parliamo, A Question of Lust è una di queste interpretazioni. Brano contenuto in un altro disco culto dei Depeche, ovvero Black Celebration ispirato al film Blade Runner e quindi pervaso di fumi apocalittici, è praticamente un’autodifesa al cospetto del tribunale dell’amore. Il protagonista, come in Somebody, non riesce a conciliare le “questioni di lussuria” con quelle del cuore: soprattutto si rende conto di rischiare la fine della relazione in cui si trova. A Question of Lust cerca di trovare una via di uscita nel fatto che il “peccato” è assolutamente naturale e che una relazione vera si basa appunto sulla fiducia al di là di qualsiasi deviazione personale.

Brano dalle forte connotazioni digitali, oltre ad avere una progressione armonico melodica alquanto curiosa, si sviluppa come una ballata anni ’60 proiettata in un mondo di silicio. Tenendo come punto di riferimento Phil Spector e i Beach Boys, la batteria parla un chiaro linguaggio wall of sound. Rimane dunque in bilico tra il pop à la Madonna e il brano sperimentale, con un equilibrio davvero invidiabile e difficilissimo, tanto che probabilmente è uno dei pezzi più strani di tutto il repertorio dei Depeche. Anche questo sarà un singolo, trovando un certo successo in Germania ovest, mentre in Inghilterra si fermerà a un poco brillante 28esimo posto, a dimostrazione che il brano tutto sommato è ostico, ma travestito da canzonetta pop.

Da segnalare, nello stesso album, l’altra stupenda interpretazione di Gore che in un certo senso è l’opposto di questo brano: in World Full of Nothing due giovani fanno l’amore, ma non sanno che cosa stanno facendo (sempre in un’ottica distopica tipica di Black Celebration, in cui l’umanità è quasi sepolta dalle macchine) ma “se non è amore, è comunque qualcosa in un mondo pieno di niente”.

“The Things You Said” (1987)

Nel 1987 esce uno dei dischi più potenti dei Depeche Mode, il grandissimo Music for the Masses che sarà il trampolino di lancio per il successo planetario (documentato nel lungometraggio 101 filmato durante la fortunatissima tournée americana). In questo disco ci sono due brani cantati da Gore uno meglio dell’altro. Il primo è Things You Said, una canzone semirancorosa ma nello stesso tempo orgogliosa e rassegnata nell’osservare i tiri mancini dell’ipocrisia altrui. Parla di diffamazione, di una persona che ami la quale ti parla alle spalle e tu vieni a saperlo brutalmente dagli amici. Gore non si scompone e pronuncia un lapidario quanto geniale “Conoscono le mie debolezze / Non ho mai cercato di nasconderle / Conoscono le mie debolezzes / Pensavo di piacessero”, mantenendosi determinato a rivendicare il diritto sacrosanto di prendere la cattiva strada senza nulla da nascondere, debolezze in primis. Il pezzo è uno stupendo viaggione emotivo su un lento treno techno-pop che può considerarsi come un omaggio/ plagio a Almost degli Orchestral Manoeuvres In The Dark di cui i Depeche erano fan assoluti: il giro di synth finale è praticamente – e a questo punto volutamente – identico, come anche la struttura è simile, addirittura con dei richiami anche nei testi (pare che i Depeche siano ossessionati da questo pezzo, che viene fuori anche in Useless, uno dei singoli di Ultra). È evidente anche la strizzata d’ occhio ai Kraftwerk di Radioactivity, ma Gore rielabora questi spunti in un brano in tutto e per tutto personale, che probabilmente nasce anche come metafora musicale dei concetti espressi: sto copiando questo brano, non lo nego, è sotto gli occhi di tutti come anche le famose debolezze del testo. Impossibile fargliene una colpa, quindi.

“I Want You Now” (1987)

L’altro pezzo di Music for the Masses cantato da è questo struggente e passionale brano in cui l’urgenza di amare una persona diventa devastante e non c’è più tempo per frenarsi, la carnalità prevale, si è pronti a tutto e non c’è tabù che tenga. Questa forza che si risveglia pericolosamente è sottolineata dall’arrangiamento in cui la ritmica è composta da respiri affannosi campionati e cuciti perfettamente a cori digitali, lamenti vocali di sottofondo (Gahan fa capolino), una funerea fisarmonica che sembra quasi rappresentare il protagonista che sta morendo d’amore, ma soprattutto di sesso, poiché le due cose non sono affatto scollegate.

Ovviamente Gore cavalca questo capolavoro torbido con la sua voce “bianca” piena di vibrati e di scosse, pronunciando quell’ambiguo “non sono uno dei ragazzi” in un modo che vale tutto il brano e che lo rende universale quanto disarmante. E a proposito di disarmare, il brano si conclude con un campionamento di una radio russa che parla dei problemi socio-psicologici dell’era nucleare e della corsa agli armamenti, particolare che trasforma il brano in una brama di vita senza tante paranoie, visto che la fine è vicina tanto vale arrivarci in bellezza. Attualissimo, visto i tempi di terrore che stiamo vivendo.

“Blue Dress” (1990)

E tornando alle perversioni, Blue Dress è uno dei grandi picchi interpretativi di Martin Gore: alla sua ragazza fa indossare un vestito che lo fa impazzire, in un chiaro inno al vouyerismo e al feticismo. Ma anche ai giochi di ruolo erotici stile Master & Servant. Un altro brano apparentemente romantico, che invece sonda gli abissi dell’animo umano soprattutto quando si tratta di potere, desiderio, materialismo estremo. La frase “Because when you learn / You’ll know what makes the world turn” parla chiarissimo: quello che fa girare il mondo, parafrasando gli Eurythmics di Sweet Dreams, è che qualcuno vuole abusare di te e qualcun altro vuole essere abusato, molto semplice no?

Dal punto di vista musicale è una bomba atomica , da un disco come Violator in cui praticamente tutti i brani sono lo stato dell’arte, ma si distingue per il fatto di essere forse uno dei primi brani proto trap della storia: la drum machine a bpm rallentati suadente e sensuale, quel loop campionato di cui non si capisce la provenienza dall’intercalare quasi swag e l’ ossessività generale della costruzione lo rende senza dubbio uno di quei pezzi in cui Gore prevede un certo tipo di spiritualità del materialismo e di una musica che lo rappresenti, facendosene anzitempo il profeta.

“Death’s Door” (1991)

Durante il periodo Songs of Faith and Devotion ci sono delle perle che non sono entrate nel disco: una di queste è la struggente Death’s Door, incisa dai soli Gore e Wilder alla fine del tour mondiale di Violator, che farà poi parte della colonna sonora di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders e sarà pubblicata nel 1993 come lato B Condamnation. Il pezzo si muove come un gospel elettronico, ed è praticamente la Knockin’ on Heaven’s Door di Martin Gore. Solo che in questo caso non si va in paradiso, le porte cui bussare sono quelle della morte. In questo buco nero però si trova la vera liberazione, non è più necessario sforzarsi di essere forti, non ha importanza aver sbagliato tutto: si torna a casa dai propri genitori (che siano veri o spirituali e cosmici poco importa).

A proposito di genitori, questo è un pezzo in cui le origini afroamericane di Gore vengono prepotentemente a galla (il padre biologico di Martin pare sia stato un soldato afroamericano di stanza in Inghilterra), come uno spiritual aggiornato e corretto agli anni 2000. Per il sottoscritto è uno dei pezzi più belli dell’intero repertorio della band. Durante il tour di Songs of Faith and Devotion l’esecuzione era di un’intensità pazzesca e quasi inarrivabile.

“Judas” (1993)

Volendo essere sinceri ci sono pochi dischi come Songs of Faith and Devotion, che sigla purtroppo la fine dei Depeche con Alan Wilder in formazione, elemento se non imprescindibile almeno fondamentale: tant’è che se all’inizio dal vivo i Depeche con lui bastavano a se stessi in quattro, adesso sul palco sono tremila e qualcosa vorrà pur dire. Ecco, ci sono anche pochi brani come Judas, che in Songs of Faith and Devotion spunta come una gemma in cui religione e depravazione vanno di pari passo senza alcuna incoerenza (e in effetti…).

Un’apertura di mitologiche cornamuse schiude le porte a una ballata elettronica soffusa e orchestrale, che si muove come fosse una candela accesa in un buio rosseggiante. Usando citazioni bibliche (quali la “narrowest path”, cioè la via più stretta) Gore si inventa un aspetto sadomaso della religione, vista soprattutto dal punto di vista del rapporto amoroso che diventa fede. In questo caso il personaggio narrante è ambiguo: chiede al partner di “rischiare la salute per lui”, “soffrire alcune pene”, “camminare a piedi nudi”, insomma per avere il suo amore dovrà trovarsi in situazioni emotivamente e fisicamente estreme. La dolcezza del brano fa a pugni con il suo argomento, ma la cosa più interessante è che non è chiaro se l’io narrante sia Gesù che parla a Giuda o il contrario: probabilmente è il traditore che chiede al redentore di essere crocifisso per i suoi peccati. Un incredibile colpo di genio di Gore, che porta a casa un brano di un’intensità esistenziale senza paragoni, ambiguo come la vita e come qualsiasi passione mistica.

“The Bottom Line” (1997)

Non è improbabile che nelle orecchie di Gahan, nel fatidico momento in cui il cuore gli si fermò al Sunset Marquis di San Francisco, risuonasse Death’s Door. Fatto sta che, sopravvissuto alla famosa overdose di speedball che avrebbe potuto spezzare per sempre i Depeche, riuscì a rimettersi in carreggiata per registrare Ultra, che è forse il più bel disco del dopo Wilder, ancora insuperato forse proprio per l’enorme sforzo emotivo che contiene. Scritto in una condizione che chiamare di difficoltà è un eufemismo, la sensazione di o la va o la spacca del disco lo troviamo anche nei brani cantati dal solo Gore (che ricordiamolo, aveva grossi problemi di alcolismo risolti durante la lavorazione dell’ album). Tra i quali il singolo Home, diventato uno dei classici del gruppo, certo, ma c’è anche un altro brano parecchio sottovalutato che è The Bottom Line. È arrangiato in maniera vellutata, l’elettronica non cede di un millimetro alla maniera, anzi a volte si arrotola come un brano jazz tempestato di fumi di sintetizzatori gommosi.

Il testo è una specie di supplica di Gore che nonostante si comporti come il gattino della Barilla (“Like a cat dragged in from the rain / Who goes straight back out to do it all over again / I’ll be back for more”) segue ciecamente il suo amore: i suoi errori continui, il suo voler continuamente mettersi nei guai è un modo per mettere alla prova il suo legame sentimentale, tanto che alla fine ritorna sempre con la coda tra le gambe al punto di partenza. Impreziosito dalla presenza di Jaki Liebezeit dei Can alle percussioni, è una canzone diafana nella sua bellezza, una melodia che appunto rimane sempre in fondo, genuflessa a questo amore cui si chiede eterno perdono, perché è una forza animale e irrazionale che lo muove. Una piccola pietra preziosa musicale lasciata alle spalle per ritrovare la via maestra, come le molliche di pane di un Pollicino postindustriale.

“Fail” (2017)

È inevitabile che i Depeche Mode, dopo lo spartiacque Ultra, abbiano accusato una flessione micidiale sia nell’ispirazione sia nel modo in cui usare l’elettronica. Rimangono in tre come dopo l’abbandono di Clarke e prima dell’arrivo di Wilder, quando uscì A Broken Frame che appunto è il disco più fragile della prima tornata della carriera dei Depeche. Sì, certo, si sono poi circondati di un sacco di collaboratori, ma non basta. A volte ti sparano dei pezzoni che salvano i dischi, che è un po’ come vincere il campionato grazie a un solo fantasista. A volte hanno arrangiamenti interessanti e canzoni deboluccie (nonostante Gahan ci metta del suo). In generale l’uso dei marchingegni in maniera moderna e al passo con i tempi si è arrestato a favore di un più confortevole atteggiamento modern vintage: come dicevamo, l’approccio solista di Martin Gore è mille volte più interessante in questo senso (forse anche quando si prodiga con i dischi di cover del suo progetto Counterfiet).

C’è però un album che riesce a superare quello stato di aurea mediocritas oramai quasi standardizzato nelle uscite dei Depeche Mode. E questo disco è Spirit. L’ultimo della serie e senza dubbio il più politicizzato (anche se i membri della band tendono a smentire), schierato contro la barbarie populista dei nostri tempi. Finalmente in questi solchi troviamo dei Depeche Mode che raggiungono una seconda maturità, con testi crudi e pezzi che sono una continua scala di grigi sonora, tanto che la copertina di Anton Corbijn è precisissima nel descriverlo graficamente. Ebbene nel disco troviamo un pezzo che conclude tutto, cantato appunto da Gore. Fail è già dal titolo tutto un programma. Il mondo oramai non ha più dignità, si è completamente venduto anima e culo, e abbiamo fallito senza appello. Gore pronuncia queste parole di amarissima consapevolezza su un finale di onde quadre che ricorda il primo pezzo a cui haprestato la voce, quell’Any Second Now che era pervaso di dubbi, paure, lacerazioni. Non si sa se rimanga una speranza proprio da questo uroboro continuo, ma senza dubbio Gore canta come un predicatore che cerca di svegliare la sua gente da un sonno troppo a lungo sognato. E forse, in un certo senso, canta anche della sua band confessando un certo fallimento artistico dove invece il successo commerciale arride.

Pare che il prossimo album dei Depeche Mode sia in lavorazione per un’uscita prevista nel 2021. Voci dicono che ci siano già otto pezzi in formato demo, attorno ai quali vige uno stretto riserbo e un’assoluta segretezza. Bene, siamo curiosi di ascoltare quelli che Gore sceglierà di cantare personalmente: perché, come dice lui stesso, «si crea un conflitto d’interessi: quali canzoni userei per me e cosa userei per la band?». Non ti preoccupare Martin: come ci insegni tu stesso,«it’s a question of lust» e nulla più.

Iscriviti