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12 album per conoscere il British blues anni ’60

Dai vinili scaricati dalle navi americane ai primi tour inglesi dei grandi bluesmen, nodi di connessione transatlantici tra tradizioni musicali. Uno sguardo (e un ascolto) alla linea genealogica principale della variante inglese del blues, prima dell’avvento dei mostri del rock

Foto: Hulton-Deutsch Collection/CORBIS/Corbis via Getty Images

Ve lo ricordate lo skiffle, quel miscuglio di folk, jazz, blues e bluegrass suonato con strumenti di fortuna tipo assi da bucato, manici di scopa e cassette da tè? Da canto di lavoro dei braccianti afroamericani degli anni ’20 e dei portuali inglesi del secondo dopoguerra, il genere low cost diventa palestra per i giovani complessi britannici e nodo di connessione transatlantico con le tradizioni musicali americane che ne sono alla base.

La voga si innesta su un terreno che, già fecondo per il jazz, si sta appassionando al blues non solo grazie ai dischi, che arrivano in quegli stessi porti con le navi statunitensi e poi distribuiti ufficialmente dal 1955 (da EMI, Decca e HMV), ma anche per merito dei tour che conducono nel Regno Unito i grandi bluesmen afroamericani. Dapprima in versione acustica con l’itinerante American Folk Blues Festival organizzato da due tedeschi, Horst Lippmann e Fritz Rau, non senza una certa componente esotico-razziale. Poi, nel 1958, arriva l’onda d’urto elettrica di Muddy Waters a dare il lancio definitivo al British blues.

Svanita la moda dello skiffle, infatti, i loro esponenti prendono strade diverse. Se i Quarrymen diventano Beatles, gente come Van Morrison (che al suo primo amore musicale ha dedicato il recente Moving On Skiffle) e soprattutto Alexis Korner ne approfondiranno le radici blues, in una scena fatta di nomi e luoghi cruciali. Una scena di cui ci limitiamo a rendere gli aspetti maggiormente legati all’impulso iniziale, rimandando ad altri momenti l’analisi genealogica che porta ai Rolling Stones, ai Cream o a quel chitarrista di Seattle che nel 1966 prende casa a Londra.

R&B from the Marquee

Alexis Korner’s Blues Incorporated

1962

Per fare una scena, come minimo, ci vogliono luoghi e persone. Quella del British blues non fa eccezione: per la sua genesi si rivelano decisivi il Marquee Club di Wardour Street — che da locale jazz diventa ritrovo per i blues boomers londinesi — e Alexis Korner, chitarrista di origine austriaca, nascita parigina e formazione albionica. Che a un certo punto decide di mettere su un complesso con un altro nome cruciale per le sorti della scena blues, l’armonicista Cyril Davies. Tra i ranghi dei Blues Incorporated si avvicenderanno i giovani Jack Bruce, Charlie Watts, Ginger Baker, Long John Baldry e Graham Bond. Non male, come vivaio.

Five Live Yardbirds

Yardbirds

1964

Un discorso simile si può fare anche per gli Yardbirds, gruppo palestra per eccellenza per i futuri alfieri del rock-blues, qui immortalati in un album live che, per quel tempo, rappresenta un’opzione tutt’altro che usuale. Tra le 10 tracce registrate il 13 marzo 1964 — manco a dirlo, al Marquee Club — spicca il talento cristallino del giovane Eric Patrick Clapton. Non ha neppure vent’anni ma si è già guadagnato l’appellativo di Slowhand; un anno dopo, o poco più, per lui sarà già tempo di divinizzazione.

Blues Breakers

John Mayall & The Bluesbreakers with Eric Clapton

1966

Dopo Alexis Korner, il padrino del blues inglese è lui, John Mayall da Manchester. Già 33enne in un mondo dominato dai ventenni, li tiene a battesimo e lancia il blues nelle top 10 nazionali. Nel frattempo, per le strade di Londra si inizia a leggere «Clapton is God»: difficile stabilire se il culto abbia inizio prima o dopo il solo di Have You Heard, destinato a diventare modello di fraseggio e di sound chitarristico per le generazioni a venire. Come non bastasse, sul retro di copertina appaiono altri due nomi già centrali per la scena blues inglese: il bassista John McVie e il produttore Mike Vernon.

A Hard Road

John Mayall & The Bluesbreakers

1967

Poche settimane dopo, Mayall fa da padrino per un altro aspirante guitar hero, che risponde al nome di Peter Green. Anche per lui la sosta nei Bluesbreakers è la classica esperienza breve ma intensa. Il chitarrista lascia il suo segno in brani come Supernatural e la vibrante Dust My Broom; quelli che lui porterà da questa avventura saranno invece evidenti nel primo album del suo nuovo progetto (ne parliamo sotto). Beninteso, la figura di John Mayall non si limita certo a fare da tutor: la doppietta discografica appena proposta mostra la sua firma stilistica a caratteri cubitali ed è soltanto un piccolo campione di una produzione che meriterebbe di monopolizzare questa piccola antologia.

Ten Years After

Ten Years After

1967

Su questo ennesimo debutto d’eccezione c’è ancora la mano di Mike Vernon, un altro godfather of blues che si muove dietro le quinte negli studi di registrazione della Decca. Benché sia impossibile catturare su disco l’energia live della band di Alvin Lee — destinata all’immortalità dopo Woodstock — queste tracce testimoniano la virata verso il rock-blues già dettata da Hendrix e dai Cream. Ma c’è spazio anche per l’unplugged di Don’t Want You Woman, di cui lo stesso Clapton si ricorderà 25 anni dopo per la sua cover di Hey Hey.

The Aynsley Dunbar Retaliation

The Aynsley Dunbar Retaliation

1968

Un altro giovane promettente tra i fuoriusciti dei Bluesbreakers: il batterista Aynsley Dunbar. Si dice che Mayall lo abbia licenziato perché troppo incline al jazz, ma sarà lui stesso a produrre il successivo To Mum, From Aynsley & The Boys. La stagione delle cover sta per finire e a parte See See Baby e Memory Pain è tutto originale il materiale proposto da Dunbar con John Moorshead alla chitarra, Alex Dmochowski al basso e Victor Brox alla voce. A dimostrazione che la lezione blues è stata appresa e interiorizzata.

Peter Green’s Fleetwood Mac

Fleetwood Mac

1968

Ancora John Mayall. Dopo aver terminato A Hard Road, il capobanda offre a Peter Green un pacchetto di sessioni in studio come regalo di compleanno. Il chitarrista che fa? Porta con sé l’altro Bluesbreaker John McVie e Mick Fleetwood. È così che nascono i Fleetwood Mac. Peter li lascerà troppo in fretta, ma nel frattempo cosparge di pezzi come Long Grey Mare, Merry Go Round, I Loved Another Woman il tratto di strada finale che il British blues sta iniziando a percorrere.

40 Blue Fingers Freshly Packed and Ready to Serve

Chicken Shack

1968

La strada a venire dei Fleetwood Mac, invece, vedrà la band accogliere Christine Perfect, futura McVie, che trascorre il suo 1968 a dispensare Blue Fingers assieme ai Chicken Shack. Guidato da Stan Webb alla chitarra, il gruppo convoglia il blues di Chicago su un cargo diretto ad Amburgo (e non è una metafora). La storia privata della band è anch’essa paradigmatica di un’intera scena: subito dopo questo disco Christine lascia i Chicken Shack per riunirsi al marito John McVie nei Mac, mentre Stan Webb finisce ai ferri corti con Mike Vernon. Epilogo triste, in pieno spirito blues.

Blue Matter

Savoy Brown

1969

Le Tolling Bells del British blues iniziano a rintoccare in questo disco dei troppo dimenticati Savoy Brown. Che invece danno il loro meglio proprio con Blue Matter, targato ancora Decca e prodotto dal solito Mike Vernon. Un album strano, con un lato registrato in studio e un altro dal vivo. Sul primo, Train to Nowhere mette subito le carte in chiaro; sul secondo, la rilettura di Louisiana Blues di Muddy Waters rende al meglio la compattezza live e l’attitudine improvvisativa della band.

Blues Helping

Love Sculpture

1969

Non sono abbastanza ricordati neppure i Love Sculpture, la via gallese al British blues. Come di norma nell’era post Clapton, a farla da padrone sono le chitarre, di cui si occupa il leader Dave Edmunds. Il quale probabilmente fiuta l’imminente fine del boom, dato che il suo amore per il blues è destinato a evaporare nel giro di un anno per lasciare spazio alla psichedelia proto-prog di Forms and Feelings e a un futuro da protagonista nel pub rock.

Blues Obituary

Groundhogs

1969

Basterebbero titolo e copertina a fare di quest’album il perfetto simbolo della fine di un’epoca. Eppure ad ascoltare il contenuto si direbbe che il blues britannico goda di ottima salute. Tutti i brani sono originali (firmati e arrangiati dal chitarrista Tony McPhee) e fanno di quest’opera di fine decennio uno dei più fortunati esempi di traduzione su disco della gagliardia live di queste band. Blues in peace.

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