Cominciamo anzitutto con lo sfatare alcuni miti. 1) Il prog è un genere musicale. Falso. Il prog è una filosofia che impone il fregarsene degli steccati tra generi e delle regole imposte dalla canzone da tre minuti. Via quindi a contaminazioni tra il rock, la classica, la psichedelia, il folk, il jazz, l’elettronica e chi più ne ha più ne metta. Via al dimenticarsi di strofe e ritornelli. Via al non preoccuparsi di far durare un brano due o venti minuti. Via al dar spazio all’espressione di tutti i musicisti coinvolti. Via allo sperimentare sui suoni sposando elettrico, acustico, elettronico e orchestrale. Via al trattare argomenti esistenziali, psicologici, fantascientifici, surreali… In poche parole libertà assoluta.
2) Il prog è quella musica che suonavano i Genesis, gli Yes, gli Emerson, Lake & Palmer. Falso. O meglio, non solo. La musica dei Genesis è diversissima da quella degli High Tide che è diversissima da quella dei Caravan che è diversissima da quella dei Van Der Graaf Generator. Ma tutti sposano la filosofia di cui sopra, che ha riunito intorno a sé una serie di musicisti uniti dalla voglia di allargare i confini del rock. 3) Il prog è tutto assoli. Falso. Nella maggior parte dei dischi prog non è l’assolo che conta, sono i temi melodici che vengono eseguiti dai vari strumenti e poi vengono sviluppati dall’intera band. La band prog non è un gruppo che accompagna un cantante, ma un ensemble dove ognuno ha il suo spazio e insieme si lavora per far sì che le composizioni creino dei mondi, dei film in musica nei quali ogni momento serve a rappresentare una scena. I Genesis non indugiavano in assoli, eseguivano temi e variazioni, come nella musica classica. Stessa cosa i Gentle Giant e molti altri.
4) Il prog è sinonimo di virtuosismo. Falso. Non tutti i musicisti prog erano virtuosi: gli Yes lo erano, i Pink Floyd per nulla. Tutti però cercavano di dare il meglio per esprimere loro stessi con gli strumenti. Attenzione, poi, a non confondere il prog con la fusion americana, quella sì palestra per virtuosismi spesso fini a se stessi. 5) Il prog parla di fate e folletti. Falsissimo. Sì e no il 10% dei testi del prog ha a che fare con il genere fantasy. Il resto è tutta indagine sulla psiche umana, deliri visionari, filosofia, religione… Spesso si parla anche d’amore, ma in maniera originale, descrivendo luci e ombre dei sentimenti, scavando a fondo. 6) Il prog è musica suonata da sfigati. Falso. Gran parte dei musicisti che hanno inciso i classici del prog erano giovani di un’età compresa tra i 18 e i 25 anni. Tutti belli, fascinosi e cool, rispetto agli standard dell’epoca.
Detto ciò addentriamoci nella lista dei 20 album (in ordine di uscita) che hanno fatto la storia del prog. Tutti pubblicati in Gran Bretagna tra il 1969 e il 1975, spesso con grandi risultati di classifica. Il prog infatti, a differenza di tanti altri generi di nicchia, ha prodotto numeri da capogiro, vendite milionarie, tour negli stadi, star conclamate. E ha influenzato molta della musica di oggi. Ascoltare per credere, ma senza pregiudizi.
1. “In the Court of the Crimson King” King Crimson (1969)
Il prog comunemente detto nasce qui. Gli otto minuti di 21st Century Schizoid Man sono già il metal, l’industrial, le sfuriate alla Nine Inch Nails. Poi l’atmosfera si placa con dolci ballate come Epitaph e I Talk to the Wind. Il suono del Mellotron (un’orchestra in miniatura, il primo campionatore della storia) la fa da padrone. Le atmosfere si fanno sinfoniche, ma è come se un pericolo fosse sempre in agguato. “And I fear tomorrow I’ll be crying” canta Greg Lake. Poi Moonchild che è già il post rock degli anni ’90 e la classica The Court of the Crimson King, che ancora spinge sul sinfonismo corale per visualizzare un palcoscenico di grottesche marionette che danzano sulle macerie del mondo.
2. “Volume Two” Soft Machine (1969)
Psichedelia, jazz e atmosfere zappiane in un coacervo di schegge legate tra loro che prendono vita dagli spunti di tre musicisti d’eccezione: Mike Ratledge alla tastiere, Hugh Hopper al basso e Robert Wyatt alla batteria e voce. Niente chitarre, ma organo e basso col distorsore e il canto di Wyatt sempre sull’orlo della stonatura. I tre non sono virtuosi ma ci danno dentro a spremere i loro strumenti al massimo delle capacità per creare un rock surreale e sghembo come un quadro di Picasso.
3. “High Tide” High Tide (1970)
Quartetto dal sound cupo e allucinato, con due album precursori del dark sound di Black Sabbath e compagnia. High Tide è il secondo, con Blakman Cries Again e The Joke sulla prima facciata, spettrali ballate dove ancora persiste qualche traccia di umanità. Poi arriva Saneonymous, 14 minuti di vero sabba. L’orrore per le profondità marine, figlio di Poe e Lovecraft, si materializza in duelli tra chitarra acida e violino elettrificato che spalancano le porte degli abissi. Qui c’è già tutto lo stoner rock del futuro.
4. “John Barleycorn Must Die” Traffic (1970)
A differenza di molte formazioni coeve i Traffic se ne fregano delle contaminazioni con la musica classica e preferiscono una sanguigna fusione tra blues, soul, jazz, rock e folk. John Barleycorn Must Die è il loro apice, con la voce di Stevie Winwood che è un vero miracolo di equilibrio tra gli stili sopra citati. L’apertura irresistibile di Glad è la fusione perfetta tra musica bianca e nera (l’acid jazz inizia da qui), Freedom Rider ha un solo di flauto da paura e John Barleycorn è un’antica ballata inglese sulla leggenda dell’origine del whisky. Le voci di Winwood e del batterista Jim Capaldi qui sono puro incanto.
5. “In the Land of Grey and Pink” Caravan (1971)
Un disco a tinte pastello, come la copertina lascia presagire. I Caravan (insieme ai citati Soft Machine e ad altri che verranno), sono tra i mattatori della cosiddetta scuola di Canterbury, manipolo di musicisti risiedenti nella cittadina inglese che mettono in piedi un mirabile mix tra il pop e il jazz, con una sensibilità molto British fatta di atmosfere delicate, ironiche e sognanti. In the Land of Grey and Pink è uno dei manifesti di questa fusione, con lunghi brani (la fluida e trascinante suite Nine Feet Underground che copre la seconda facciata) uniti a canzoni irresistibili (la title track, Golf Girl) che anticipano il brit pop dei Blur.
6. “Asylum” Cressida (1971)
Pur non essendo canterburiani i Cressida si fanno notare per un sound assai vicino ai suddetti Caravan, quando non ai primissimi Genesis. I 10 minuti di Munich sono una delle più belle pagine del prog inglese, con un perfetto equilibrio tra gli strumenti della band e un uso sapiente dell’orchestra. Il suono si muove tra tentazioni classicheggianti e freschi umori jazz, con la voce di Angus Cullen a intonare intense melodie dal mood brumoso, tipicamente inglese. Giù autore di un album omonimo nel 1970, il gruppo sparirà purtroppo dopo questo lavoro.
7. “Tarkus” Emerson Lake & Palmer (1971)
Gli ELP sono eccessivi da tutti i punti di vista: lunghe suite, grande dispendio strumentale, assoli chilometrici (ma spesso solo dal vivo), album concept a tema fantascientifico che è facile prendere poco seriamente. Ma guardando oltre ci si rende conto di quanta classe risiedesse nelle dita di Keith Emerson, di quanto bello fosse il canto di Greg Lake e di quanto raffinata fosse la tecnica batteristica di Carl Palmer. Tarkus racconta di un armadillo gigante e corazzato che si risveglia dopo un’eruzione vulcanica. Parrebbe ridicolo, ma non siate prevenuti e ascoltate: la musica è dotata di un’inventiva così travolgente da spazzare via qualsiasi preconcetto. Del resto Muse e Mars Volta da qualche parte avranno pur preso.
8. “Acquiring the Taste” Gentle Giant (1971)
Un manipolo di musicisti che suona letteralmente di tutto e che crea una mistura da urlo tra musica rinascimentale, folk e rock. Cercate un loro video, guardate e mettetevi all’ascolto. Come è possibile sia stata creata una roba del genere? Canzoni folli che sono irresistibili incastri ritmico-melodici tra l’antico e il moderno, vestite a volte da un pauroso ritmo funk. Il secondo album Acquiring the Taste è quello più magico, spinto verso atmosfere notturne e oniriche. Non mancano però deflagrazioni come Wreck, un mash-up tra i Led Zeppelin e Bach. Attenzione infine alla copertina, con una rollingstoniana lingua intenta a leccare un deretano/mela.
9. “Pawn Hearts” Van der Graaf Generator (1971)
Una delle punte di diamante del movimento, un album di rara perfezione che mette insieme tre lunghi brani che sono scavi profondi all’interno della psiche. Dall’iniziale Lemmings, con il protagonista che associa la sua vita a una corsa suicida, al dualismo angelo/demone che alberga in ogni essere di Man-Erg, fino all’epopea in 23 minuti di A Plague of Lighthouse Keeper’s, vera discesa nel maelström tra gli incubi di un guardiano del faro. Un disco potente e oscuro, con la voce e la poesia di Peter Hammill (cantante e autore di tutti i brani) che sono un urlo disperato nella notte.
10. “Thick as a Brick” Jethro Tull (1972)
I Jethro Tull sono conosciuti per l’immagine di Ian Anderson, vero pifferaio magico. In realtà, a ben vederlo, il buon Ian ha più l’aria di un pazzo depravato di paese, e se si leggono i testi di questa monumentale canzone lunga 45 minuti se ne ha subito conferma: sesso, religione, droga, critica sociale. Tutto sotto metafora naturalmente, con ghirigori strumentali tra sezione ritmica, chitarra, tastiere e flauto che sono dei veri rompicapo. A ciò si alternano oasi melodiche che a ben vedere sono più sardoniche che elegiache. Copertina folle che si apre come un quotidiano, con un sacco di notizie farlocche colme di doppi sensi. Altro che pifferaio magico.
11. “Matching Mole” Matching Mole (1972)
Ancora la scuola di Canterbury in una delle sue propaggini più sperimentali. Fuoriuscito dai Soft Machine il batterista/cantante Robert Wyatt fonda una band il cui nome suona come la traduzione francese del gruppo madre. Matching Mole è aperto dalla melodiosa O Caroline, canzone d’amore perfetta nella sua semplicità. Ma è solo l’inizio, il resto dei brani si muove tra incubi psichedelici e squarci di luce, sempre nell’ottica di un jazz de-costruito e suonato con gli strumenti del rock. Da lì a poco tempo un Wyatt ubriaco e fatto cadrà dal terzo piano di un appartamento durante una festa, condannandosi per sempre alla sedia a rotelle.
12. “Swaddling Songs” Mellow Candle (1972)
Band misconosciuta, autrice di un unico capolavoro, gli irlandesi Mellow Candle schierano le voci di Clodagh Simonds e di Allison Williams che a seconda del momento sanno trasformarsi in ninfe dei boschi o in tremende streghe. L’alternanza dei brani (tutti brevi) lo conferma: da placide oasi folk-rock (Sheep Season, Silversong) a momenti sabbatici (The Poet and the Witch, Dan the Wing) ed esoterici (Reverend Sisters). Da segnalare una lussuosa ristampa con inediti del 2011 a cura della Rise Above Records del doom-guru Lee Dorrian (Cathedral).
13. “Close to the Edge” Yes (1972)
Insieme agli ELP pietra di scandalo del prog per le loro esagerazioni strumentali e sceniche. In realtà gli Yes del 1972 sono un gruppo di cinque giovani che suonano con un fuoco devastante. Tre soli brani per quello che è da più parti definito come il disco più importante del prog. La suite omonima è un rompicapo assurdo di batteria, chitarre, basso e tastiere che sa essere allo stesso tempo astrusa e melodica, con un ritornello che si ripete a oltranza. La facciata B è l’apoteosi di And You and I, tra folk e sinfonica, e le spigolosità di Siberian Khatru, con la sottile voce di Jon Anderson a declamare parole immaginifiche, usate soprattutto per il loro suono.
14. “Tubular Bells” Mike Oldfield (1973)
Il primo album di Mike Oldflied (composto a 17 anni e uscito quando il nostro ne aveva 20) deve la sua fortuna all’inclusione nella colonna sonora del film L’esorcista. Ma il disco è molto di più che un richiamo alla famosa pellicola, specie nella prima facciata, con così tante melodie superbe da perdere la bussola e il buon Mike che suona ogni genere di strumento da solo. Non c’è molto rock, bensì atmosfere acustiche sempre cangianti che scongiurano il rischio di annoiarsi. Tubular Bells arriverà a vendere oltre cinque milioni di copie nelle sola Inghilterra e farà la fortuna di un personaggio che pur di pubblicarlo mette in piedi una casa discografica: lui è Richard Branson, l’etichetta la Virgin.
15. “The Dark Side of the Moon” Pink Floyd (1973)
Fermo restando che due delle massime espressioni dell’arte prog floydiana risiedono nel lato A di Atom Heart Mother (1970, il brano omonimo) e nel lato B di Meddle (1971, la fantasmagorica Echoes), il celeberrimo The Dark Side of The Moon contiene molte delle caratteristiche che hanno fatto grande il non-genere: una lunga suite divisa in nove movimenti spalmata su entrambe le facciate, suoni immaginifico/avveniristici, psichedelia mista a sinfonismo, testi incentrati sull’alienazione dell’uomo moderno, larghe distese sonore (Breath, Us and Them, Any Colour You Like), viaggi nell’iperspazio della mente (On the Run) e una doppietta finale con un crescendo da brividi (Brain Damage / Eclipse). Serve altro?
16. “The Lamb Lies Down on Broadway” Genesis (1974)
L’album più controverso della storica formazione inglese, l’ultimo con Peter Gabriel alla voce. Un doppio concept influenzato dalle visioni di El topo e La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky. Labirintico, claustrofobico, grottesco e surreale, con pochi sprazzi di luce e molta oscurità. Un disco che a ben vedere porta già i semi di certa new wave, della ambient music e di molta elettronica. La parabola del protagonista Real, immigrato portoricano violento e disadattato, è un viaggio allucinogeno alla scoperta di sé, con figure archetipiche (le donne-serpenti Lamia del brano omonimo), da incubo (la castrazione di The Colony of Slipperman) e sessuali (Counting Out Time) degne di un trattato di Jung.
17. “The Snow Goose” Camel (1974)
I Camel non sono mai finiti nei piani alti classifiche e si sono dovuti accontentare dello status di band di culto, con un suono vicino alla scuola di Canterbury. The Snow Goose è ispirato al libro omonimo di Paul Gallico, favola con la Seconda guerra mondiale sullo sfondo. È un disco strumentale con una lunga suite divisa in più movimenti a coprire entrambe le facciate. Rock sinfonico nella più pura accezione del termine, parecchio soffuso e delicato senza però lesinare momenti più intensi ed emozionanti, con la chitarra gilmouriana del leader Andy Latimer sempre in evidenza.
18. “The Rotter’s Club” Hatfield and the North (1974)
Il disco perfetto di tutta la scuola di Canterbury, un pop-rock-jazz che sa essere assai intricato negli arrangiamenti e nell’esecuzione, ma allo stesso tempo leggero e carezzevole, malinconico e inglese fino al midollo. La calda voce di Richard Sinclair (già nei Caravan) si occupa di instillare sprazzi melodici (uno su tutti, la splendida It Didn’t Matter Anyway) nel tessuto sonoro sempre movimentato, con i cori eterei del terzetto femminile delle Northettes ad anticipare le atmosfere degli Stereolab. Questo album ispirerà l’omonimo romanzo di Jonathan Coe (in Italia La banda dei brocchi), nostalgico e divertente spaccato dell’Inghilterra dei ’70.
19. “Rock Bottom” Robert Wyatt (1974)
Superato l’incidente che lo costringe sulla sedia a rotelle, l’ex batterista di Soft Machine e Matching Mole si chiude in studio con un manipolo di amici canterburiani per partorire uno degli album più importanti della storia del rock. Disco sospeso tra umori jazz, melodie struggenti ed esperimenti, Rock Bottom farà scuola per il suo riuscire a essere tortuoso e godibile allo stesso tempo. Ancora molta malinconia, ma anche uno spirito ironico e vitale che permette a Wyatt di partorire alcune tra le sue canzoni più belle, una su tutte Sea Song, sentito canto d’amore alla moglie Alfie. Un’opera da amare incondizionatamente.
20. “Scheherazade and Other Stories” Renaissance (1975)
Prog rock nella sua accezione più romantica, con tanto di suite da 20 minuti basata su Le mille e una notte. Potrà sembrare pacchiano, ma le melodie snocciolate dalle voce di Annie Haslam sono così pure e l’impianto strumentale così corposo (ma mai sopra le righe) da fare dimenticare qualsiasi critica. La musica di derivazione folk si tinge di sontuose atmosfere sinfoniche care alla scuola russa dell’Ottocento. Sono quattro brani caleidoscopici, con la coda trionfale della suite Song of Scheherazade: è uno dei punti più intensi del prog inglese, degno finale di una stagione che sarà tutt’altro che conclusa con l’avvento del punk ma che bensì continuerà a vivere e a produrre musica in completa libertà.