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40 anni di ‘London Calling’, il capolavoro dei Clash che ha cambiato il punk

Scritto in una sala prove sopra un'autofficina, 'London Calling', l'apice creativo dei Clash, torna con un cofanetto celebrativo. L'occasione perfetta per riascoltarlo canzone dopo canzone

Foto: Getty Images

“Il punk è morto quando i Clash hanno firmato per la CBS”, tuonava Mark Perry di Sniffin’ Glue in un’intervista, dando voce alle migliaia di fan delusi da quello che pareva un tradimento della causa. Un’affermazione esagerata, un urlo da fan nato dal risentimento verso un gruppo che per davvero incarnava l’ideale di riferimento di una generazione di giovanissimi. I Sex Pistols? Troppo famosi e poi facevano corsa da soli. I Damned? Una band di casinisti a cui interessava solamente sfasciare tutto. Gli Stranglers? Figuriamoci, erano vecchi e il tastierista (!) aveva i baffi! I Clash avevano l’aura dei predestinati, i vestiti da rivoluzionari, i riferimenti colti, le credenziali politiche e artistiche e potevano vantare una street credibility come pochi altri. La rivolta (bianca) era servita e, seppur pubblicato da una major, il debutto omonimo si era rivelato uno dei capolavori del punk britannico, perfettamente a fuoco e figlio del suo tempo, di quel 1977 burrascoso che i quattro londinesi rappresentavano appieno. Bastò appena un anno, però, per andare leggermente in apnea, con un album fuori fuoco intitolato Give ’em Enough Rope, tradito da una produzione troppo pulita e da alcuni brani deboli. I giornali titolarono: è la fine del punk?

Quel che è certo è che il 1979 era già l’anno del post, i Public Image Limited del fu Johnny Rotten avevano alle spalle due capolavori – First Issue e Metal Box -, nei negozi si potevano trovare meraviglie come Y del Pop Group, Entertainment dei Gang Of Four, le prime prove dei Cure. Insomma, il mondo stava cambiando vertiginosamente e Joe Strummer, Mick Jones, Topper Headon e Paul Simonon non intendevano restare indietro. La soluzione migliore fu quindi di ammazzare (metaforicamente) il genere che li aveva tenuti a battesimo e che avevano contribuito a inventare, per accedere a un livello superiore e indefinibile e comporre  diciannove brani durante una lunga pausa dalla ribalta concertistica, nascosti in una sala prove in periferia a Londra, sopra a un’autofficina, con l’aiuto del tastierista Mickey Gallagher.

Erano esiliati dal mondo esterno e, al contempo, mai così aperti verso influenze che prima parevano inimmaginabili: non solo l’amato reggae, ma pure rock’n’roll, jazz, disco, pop, ska, un tripudio di suoni che tracimerà definitivamente l’anno successivo con il triplo LP Sandinista!. London Calling è senza dubbio l’apice creativo dei quattro, l’album in cui, come musicisti, raggiungono una perfezione formale, con Topper drum machine umana, Simonon finalmente padrone del basso, Strummer e Jones affiatati come gemelli, mai così efficaci soprattutto al canto, sia da soli che assieme. A chiudere il cerchio, la produzione perfetta del veterano Guy Stevens, già dietro alla consolle con i Mott The Hoople e voluto fortemente da Jones.

La ristampa celebrativa del quarantennale non aggiunge nulla musicalmente, ma abbina al disco un eccellente libro con foto, testi autografi, recensioni e altro. Al centro della scena, quindi, ci sono solo i brani che compongono i quattro lati del vinile, elencati qui di seguito in una sorta di recensione comparativa. Nonostante abbia accompagnato quarant’anni della mia vita, non ascoltavo London Calling dall’inizio alla fine da tempo immemore. Nel farlo, ho cercato di ricordarmi cosa avessi pensato da ragazzino, quando lo ascoltai per la prima volta durante le feste natalizie, senza nessun tipo di aneddoto o conoscenza degli argomenti trattati nei testi, paragonandolo a ciò che ho provato qualche giorno fa. Buon ascolto.

1London Calling

1979: Ho la copertina in mano, non ho mai visto prima quella di Elvis che fungeva da template quindi mi pare bella e punk, con Simonon che rompe il basso in uno scatto di Pennie Smith. Lei so chi è, di lì a poco comprerò anche il suo libro fotografico, The Clash: Before and After. Il pezzo è bellissimo, tambureggiante, in linea con il disco precedente che a me, manco a dirlo, è piaciuto molto.
2019: È forse il brano più conosciuto, anche grazie a quel bellissimo video di Don Letts girato su una chiatta sul Tamigi sotto una pioggia torrenziale. Lo riascolto in autostrada con il diluvio e acquista persino in bellezza, con quella frase, “phoney Beatlemania has bitten the dust”, che mi fa sempre ridere.

2Brand New Cadillac

1979: Vince Taylor? Chi era costui? Il pezzo, una delle tre cover del disco, ha un bel tiro rockabilly e quindi fa la sua figura, quasi fosse una versione anni ’50 dei Clash.
2019: Vince Taylor era un grandissimo rocker inglese (famoso soprattutto in Francia), leader dei Playboys, ispirazione di Bowie nella creazione del personaggio di Ziggy Stardust. Finito male, tra droghe e alcol. Brand New Cadillac è abbastanza simile all’originale ed è scintillante come la macchina del titolo, due minuti di perfetto rock’n’roll.

3Jimmy Jazz

1979: Forse un po’ troppo jazz, uno dei primi momenti in cui i Clash mi lasciano senza parole e aggettivi. Non capisco bene se mi piace o no, forse è un po’ troppo strana per i miei gusti di dodicenne.
2019: I fiati, suonati dagli Irish Horns e che non ricordavo così bene, sono davvero magnifici, la cosa meno punk delle quattro facciate, il primo vero salto in avanti del gruppo, tra rimandi alla cultura reggae – Satta Massagana, album degli Abyssinians e canto della tradizione Nyabinghi o Jimmy Dread, altro nome del protagonista del pezzo – e al jazz.

4Hateful

1979: Torna il punk, per fortuna, e tornano i Clash dei primi due dischi. Hateful diventa subito uno dei pezzi preferiti.
2019: Con un po’ di dispiacere penso che non sia più nelle primissime posizioni, nonostante ora apprezzi molto il testo, una sorta di ricordo di Sid Vicious post-decesso per overdose. “This year I’ve lost some friends”, si lamenta Strummer e il controcanto di Jones rende il tutto più emozionante.

5Rudie Can’t Fail

1979: Ho appena comperato il disco degli Specials e qui i Clash sembra quasi che si divertano a comporre usando le stesse coordinate. Mischiare ska e punk è la novità dell’anno e chissà quanto durerà. (Risposta: 40 anni e oltre, almeno pare)
2019: Ancora rimandi giamaicani, con un pezzo dedicato ai “rude boys”, ovvero i figli più turbolenti della prima generazione di immigrati caraibici nel Regno Unito. Uno degli apici di London Calling, cantato da Jones e Strummer e con un ritornello killer. Quell’ignorante (nel senso che ignora, per carità) di Rudy Giuliani la userà per una sua campagna elettorale nel 2008, ribaltando il significato originario. Molto meglio faranno i tifosi del Newcastle, dedicandola a Ruud Gullit!

6Spanish Bombs

1979: Amore al primo ascolto, senza capire nient’altro, solo per una melodia meravigliosa e il duo Joe/Mick che canta magnificamente. Imparo persino delle parole in spagnolo (corazon, mandolina, Guardia Civil) e mi domando chi sia “Fredrico Lorca”.
2019: Al milionesimo ascolto, l’amore resta identico per uno dei cinque pezzi più belli della storia dei Clash, soprattutto in virtù di un testo magnifico che cita in tre minuti la guerra civile spagnola, Francisco Franco, Federico Garcia Lorca, le bombe dei separatisti baschi in Costa del Sol. Il tutto con una grazia e una melodia indimenticabili.

7The Right Profile

1979: Ha la sfiga di arrivare dopo Spanish Bombs e quindi mi piace molto meno. Troppi fiati, sembrano i Blues Brothers, passa senza lasciare grandi tracce.
2019: La sento due volte di fila per capire esattamente cosa mi potesse disturbare quando ero ragazzino, ma non riesco a capirlo e neppure a cogliere i paragoni con Belushi e Aykroyd, se si eccettuano i fiati corposi dei soliti Irish Horns. Così intrinsechi al pezzo da renderlo impossibile da suonare dal vivo in quartetto. La sfiga di cui sopra persiste, però…

8Lost in the Supermarket

1979: Ma… è disco music! I Clash si stanno commercializzando! Però non è male, in fondo, la ascolto, ma faccio finta che mi piaccia poco.
2019: Sarà forse il ritmo in 4/4 o il basso un po’ funky di Simonon, chissà… tutta ‘sta disco music proprio non la colgo più, dopo decenni di ascolti vari. Lost In The Supermarket è l’ennesima conferma dell’abilità dei quattro nell’assorbire influenze esterne e renderle immediatamente clashiane. Uno dei loro brani pop più mirabili.

9Clampdown

1979: Ritorna brevemente il punk, ritmo pesante e vecchi Clash all’orizzonte. Provo a immaginarmela dal vivo, come se mai potessi pensare di vederli. Poi li vedrò, ma è un’altra storia.
2019: Mi piace, soprattutto il bridge e la batteria potente di Topper, in macchina funziona persino meglio.

10Guns Of Brixton

1979: E qui chi canta? Paul Simonon? Senti che voce strana e che accento assurdo.. Un pezzo bellissimo, subito tra i migliori dell’album.
2019: Assieme a London Calling, forse il più conosciuto anche dai non clashiani. Uno dei due pezzi del repertorio interamente scritto e cantato da Paul (l’altro è Red Angel Dragnet su Combat Rock, eccellente pure quello), Guns Of Brixton è l’essenza londinese del quartetto, con rimandi al reggae, al quartiere nero per eccellenza dove il bassista è cresciuto, a quell’immaginario barricadero che ci fa battere il cuore anche da adulti. Dal vivo, sempre con Joe al basso e Paul alla chitarra e voce.

11Wrong’Em Boyo

1979: Anche questo non è un pezzo loro e immagino che si senta. Sembra un r’n’b molto americano, con i fiati in grande evidenza e inserti ska. Divertente, ma minore.
2019: Apprezzo maggiormente alcune finezze di questa hit dei Rulers, composta da Clive Alphanso (o Alphonso, non si è mai capito) e a sua volta ispirata da Stagger Lee di Lloyd Price, come il bel lavoro delle chitarre e la splendida batteria di Topper. Tutto sommato è l’ennesima conferma di quanto ampi fossero a quel punto gli orizzonti dei Clash.

12Death Or Glory

1979: Altro apice di London Calling, da cantare a squarciagola. E poi la frase “But I believe in this and it’s been tested by research, he who fucks nuns will later join the church”… riesco quasi a tradurla senza sapere niente di inglese.
2019: Commovente anche a distanza di tempo, resta una delle più belle dell’album e non solo, un’amara riflessione sul diventare adulti e sul tradimento dei propri ideali. Joe canta “love’n’hate tattooed across the knuckles of his hands” ed è subito La morte corre sul fiume (con un Robert Mitchum indimenticabile).

13Koka Kola

1979: Da patito della bevanda non capisco bene le “k” del titolo anche se immagino sia qualcosa di negativo. Due minuti scarsi di rock’n’roll, niente male.
2019: Il titolo originale Koka Kola, Advertising And Kokaine spiega meglio il bersaglio del pezzo, ovvero i rampanti pubblicitari newyorchesi, ma resta poco più di un bozzetto. Punk rock senza troppi fronzoli.

14The Card Cheat

1979: Lo ammetto, non mi piace, faccio fatica a capire le nuove svolte pop dei Clash e ad allontanarmi da sentieri conosciuti. Dovessi rinunciare a un brano, sarebbe questo.
2019: Come per The Right Profile, ci metto più impegno nell’ascolto. Non so per quale motivo, ma il pezzo mi ricorda alcune produzioni di Phil Spector e, al contempo, certe ballate epiche di Springsteen, sebbene la voce di Mick Jones sia decisamente più soffice e melodica di quella del Boss. Lo immagino come un bel tentativo di deviare dalla solite rotte e approdare a nuovi suoni ed è probabile che pure i quattro lo intendessero così.

15Lover’s Rock

1979: Di questo testo proprio non capisco nulla, ma il ritmo è ottimo, tra Giamaica e Brixton. I Clash, insomma…
2019: La celebrazione del reggae, anche a livello lirico, con un testo che indulge in doppi sensi e fa guadagnare al gruppo qualche critica insensata. La musica giamaicana da sempre indulge in sottintesi (si fa per dire…) e il “lovers rock” è proprio uno degli stili più leggeri e romantici del genere. I Clash si fanno una risata e chi siamo noi per criticare?

16Four Horsemen

1979: La quarta è forse la facciata più Clash del disco, divisa tra reggae e punk (rock). Questa rientra nella seconda categoria, bella e divertente, con ottimi cori.
2019: I quattro cavalieri dell’Apocalisse – prima che qualcuno appiccicasse il nomignolo ai Metallica – erano proprio loro. Forse il momento meno ispirato dell’ultimo quarto dell’album, con un inciso più interessante del ritornello.

17I’m Not Down

1979: È un pezzo che mi mette tristezza, quindi perfetto o poco meno. Lo canta Mick e, dall’intensità, sembra autobiografico. Un po’ come Stay Free, che però è irraggiungibile.
2019: Mi scende una lacrimuccia, soprattutto perché ascolto le parole con più attenzione del solito. Il buon vecchio Mick è a terra, ma non è sconfitto, nonostante i ladri che gli hanno saccheggiato la casa e Viv Albertine delle Slits che l’ha mollato. Malinconia sì, ma di quella che spinge a reagire…

18Revolution Rock

1979: Siamo alla fine, questo è l’ultimo pezzo listato sulla copertina anche se dal vinile si capisce che ne manca un altro. Ancora una cover, ancora un bellissimo pezzo reggae, sono quasi pronto a rimettere sul piatto il primo disco.
2019: Splendido come ogni volta che l’ho sentito, versione perfetta di un brano di Danny Ray and the Revolutioneers, che incita a una rivoluzione personale prima ancora che politica. Ci penseranno gli Hüsker Dü qualche anno più tardi a ribadire il concetto.

19Train In Vain

1979: Niente titolo, passo dallo sconcerto al nervoso perché non capisco come sia possibile che non esista nessuna informazione sulla copertina. Pezzo bellissimo, ma chissà come si chiama…
2019: Lo scoprirò poco più tardi, quando leggerò in una recensione di questo brano inserito in extremis da Mick Jones e originariamente destinato a un flexi disc per NME. Era troppo bello per restare fuori, una canzone d’amore scritta per Viv, con quell’intro di batteria che sarà campionato dai Garbage anni più tardi. Una gemma per chiudere un capolavoro irripetibile.

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