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Ani DiFranco: la mia vita in sette canzoni

La folksinger racconta la sua storia e le sue avventure musicali dal 1990 a oggi. «Mi dicono: “Ah, quanto mi piaceva la tua musica negli anni ’90”. Guardate che non ho mica smesso di fare dischi…»

Foto: Danny Clinch

A un sacco di gente la musica di Ani DiFranco ricorda una certa età e una certa epoca: sigarette, caffetterie, dormitori, Doc Martens. Non che lei si sia cambiata radicalmente. «A volte però mi deprime sentirmi dire: “Ah, quanto mi piaceva la tua musica negli anni ’90” oppure “grazie a te ho superato gli anni del liceo”. D’accordo, è anche bello, ma non ho mica messo di fare dischi da allora e anzi le mie ultime canzoni sono tra le miei migliori», dice la folksinger che a maggio ha pubblicato il 23esimo album intitolato Unprecedented Sh!t. «Non sono più la It Girl, ma ho ancora un lavoro».

A dire la verità di lavori ne ha più d’uno. Al di là del nuovo album, il secondo nella sua storia che non ha prodotto da sola (ma con BJ Burton), a Broadway fa la parte di Persefone in Hadestown di Anaïs Mitchell (è il ruolo che copriva nell’omonimo concept del 2010 che lei stessa ha pubblicato per la sua etichetta, la Righteous Babe Records). C’è un nuovo documentario, 1-800-ON-HER-OWN, sulla sua carriera che è stato presentato al Tribeca Film Festival. Ad agosto uscirà il suo secondo libro per bambini, Show Up and Vote.

A 53 anni, ha ancora energia da vendere e occhi penetranti come quelli sulla copertina del debutto del 1990. No, non ha più i capelli rasati.

Both Hands

1990

«Disco uno, lato uno, l’inizio del viaggio. È la canzone per cui mi dicono “per fare questa ho imparato a suonare la chitarra”. È quella a cui la gente tiene molto ed è emblematica del mio stato d’animo dell’epoca. L’ho registrata su nastro davanti a due microfoni, tutto molto semplice, ero giovane, stupida e arrogante, e non stavo a rimuginare troppo sulle cose. Ricordo la finestra da cui osservavo la strada quando l’ho scritta, s’affacciava sull’Undicesima tra la Prima e la A, vivevo lì. Mi sedevo alla finestra e il ragazzo dall’altra parte della strada soffiava bolle di sapone. Ricordo perfettamente la scena, io lì seduta con le bolle che volano per la strada».

«Nel mondo di lesbiche folk e di sinistra che frequentavo era nomale che ai concerti ci fossero interpreti del linguaggio dei segni. Era divertente parlarci prima di iniziare. Mi chiedevano il significato delle canzoni per poi interpretarle sul palco. Ricordo che un giorno una mi chiese se il pezzo aveva una connotazione sessuale. E io: “Beh, sì, certo”. Mi fece la stessa domanda per tutti quanti i pezzi in scaletta e la mia risposta era sempre la stessa: “Beh, sì, certo”».

32 Flavors

1995

«Grazie a questa ho cominciato a uscire dalla mia ristretta cerchia folk. C’era qualcosa di strano in questo pezzo senza ritornello e con una outro di cinque minuti di batteria. Ma alla fine, perché no? All’epoca sembrava molto alternativo. Io e Andy Stochansky abbiamo fatto un loop di batteria di otto battute, ci sembrava eccitante e l’abbiamo usato, quindi nel pezzo c’è il loop, non la sua batteria».

«Ricordo che stavo iniziando ad avere più spazio come musicista là fuori e quindi mi scontravo con la cultura della competizione, soprattutto tra donne, soprattutto in un mondo in cui ci può essere sempre e solo una ragazza in cartellone. È il modo in cui il patriarcato ci mette in competizione l’una con l’altra per gli avanzi, roba che mi manda fuori di testa. Volevo degli alleati e invece ho trovato dei sabotatori. Parla anche di questo».

Untouchable Face

1996

«Dopo sei anni di tour in un minivan con Andy, è arrivato Dilate e ho cominciato a essere notata nel mainstream, ma non è che avessi chissà quali mezzi. Ho assunto una terza persona (Andrew Gilchrist, soprannominato Goat, ndr) che faceva da tuttofare, fonico, crew, road manager. Ci siamo innamorati ed è stato un bel casino perché lui aveva una ragazza con cui conviveva e io avevo quel che avevo. Ecco perché molte canzoni di quel disco, tra cui Untouchable Face, parlano di amore proibito, lo vivevo. Ricordo che eravamo in tour a Toronto nel periodo in cui abbiamo scritto la canzone, l’ho suonata e c’era la ragazza del mio fonico tra il pubblico. Ha detto: “È l’esatta vibrazione che percepisco qui”. Era il mio modo di svelare la storia. Col senno di poi, mi scuso con lei. Non avrei mai dovuto nascondermi dietro la mia arte».

As Is

1998

«L’album Little Plastic Castle è quello con cui mi sono fatta conoscere. As Is l’ho registrata in una o due take dal vivo il giorno in cui mi hanno consegnato una Mustang Cobra Turbojet 428 del ’69 di cui mi ero innamorata. La popolarità di Little Plastic Castle è stata sia una benedizione, sia una maledizione. Io e Goat stavamo imparando a fare dischi e ne abbiamo fatto uno decente che era un po’ meno grezzo dei precedenti, per cui la gente ha cominciato a dire: ecco, si è venduta, lo sapevo. Stavo anche curando di più trucco e vestiti. Andy e Sarah Lee, i miei compagni di band, hanno iniziato a truccarsi e io ho cominciato a farlo con loro. È stato un grande contraccolpo per la mia sottocultura rivoluzionaria e ruffiana. Mi ha fatto un po’ male, ma amen. Non è stato male essere legittimata dai poteri forti».

Grey

2001

«Andiamo avanti di qualche anno: il mio matrimonio con Goat va in pezzi e anche la mia vita va in pezzi. Ho lottato senza mai allontanarmi dalla vista del pubblico, purtroppo. Ho lottato sotto gli occhi del pubblico, il che è stato ancora più brutto. Ma alcune di quelle canzoni significano qualcosa per la gente che sta lottando e Grey è una di esse, rimanda a quel periodo in cui mi stavo decostruendo e ricostruendo come essere umano».

«L’ho scelta da quel disco soprattutto per via di Sekou Sundiata, che è stato mio insegnante di poesia alla New School di New York, mio amico e mentore, una persona speciale che se n’è andata. Amava questo pezzo. Sono andata a uno spettacolo che aveva scritto intitolato Blessing the Boats, il titolo è tratto da una poesia di Lucille Clifton, una poetessa che gli avevo fatto conoscere. Qualcuno ha iniziato a cantare Grey. Anche alla sua commemorazione qualcuno ha intonato Grey, quindi questa canzone mi fa pensare a lui».

Atom

2008

«Arriviamo a Red Letter Year. A quel punto ho incontrato il mio secondo e ultimo marito (Mike Napolitano, ndr), che è pure un fantastico produttore. È l’inizio delle mie registrazioni moderne, l’era in cui mi trovo oggi. Sono circondata da un numero sufficiente di gente tosta che non mi permette di sbagliare. Red Letter Year suona benissimo perché Nappy l’ha registrato e mixato. Ci sono canzoni  con una sezione d’archi arrangiata da Todd Sickafoose. È buffo, ora faccio Hadestown ogni sera sul palco e Todd, ovviamente, ha vinto un Tony Award per gli arrangiamenti di quello spettacolo. L’ho presentato io ad Anaïs. Due delle donne della band, Marika Hughes e Megan Gould, suonano in Atom, quindi è come se tutti questi cerchi si intrecciassero nella mia vita e nella mia comunità. Questa canzone rappresenta l’inizio della vita che vivo oggi».

You Forgot to Speak

2024

«Questa canzone rappresenta una sfida. L’ho composta per uno spettacolo teatrale che non è detto venga rappresentato e quindi è scritta il punto di vista di un personaggio in particolare. Ma è ovvio che quando si scrive di qualcuno alla fine si scrive sempre di sé stessi. Il personaggio, qui, è un’avvocatessa cazzuta sul lavoro, ma che non riesce a dire quello che deve dire alla persona con cui condivide il matrimonio o che comunque ha difficoltà a parlare a tu per tu. Può usare le parole per liberare la gente da lontano, ma come puoi farti ascoltare se hai dimenticato di parlare? Devi farti sentire se vuoi essere ascoltata e se vuoi rimanere integra».

Da Rolling Stone US.

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