Ci vuole tutta la genialità di questo mondo per riuscire a diventare uno dei musicisti più influenti degli ultimi 50 anni senza essere un musicista. Attenzione però, è vero che da sempre Brian Eno si è autodefinito (anche con un certo orgoglio) non-musicista, questo però non va preso alla lettera. Eno intende soprattutto il non essere in grado di leggere uno spartito e il non sapere armeggiare uno strumento con la dovuta perizia. Ma tutto ciò non è mai stato un problema per lui che ha sempre messo innanzi a tutto le idee e l’inventiva, fino a diventare un vero architetto della musica. E di idee folgoranti la testa di Eno è piena, fin dal suo ingresso nei Roxy Music, quando grazie ai singulti del suo sintetizzatore VCS3 eleva la band a visionari rock.
Quando Eno ha in mano uno strumento riesce a cavare da esso l’inaudito, lo studia in tutte le possibilità e lo registra stravolgendone le caratteristiche principali per renderlo diverso da tutto ciò che si è sentito prima. Da questo punto di vista è un bene che non sia diventato un perfetto esecutore perché ciò lo avrebbe limitato, avrebbe ridimensionato quello che si può ottenere libero di spaziare tra armonie, melodie e sonorità. Grazie a questa continua invenzione, Eno si muove agilmente tra art rock, glam, funk, world music e avanguardia. È punk prima del punk, è new wave prima della new wave, è in grado di creare la ambient music nella quale gli strumenti perdono le loro caratteristiche principali e si fanno colori di una tavolozza, quadri astratti che raffigurano paesaggi della coscienza e del ricordo.
Eno però non è solo un investigatore di suoni, possiede anche un’anima pop che gli ha permesso di scrivere canzoni nelle quali aggiungere sempre una precisa personalità sperimentale che le rende uniche. Partendo da semplici intuizioni melodiche, dirige i musicisti e li spinge oltre i limiti delle loro capacità strumentali e improvvisative, poi fissa tutto su nastro che verrà manipolato ed effettato fino a raggiungere lo scopo desiderato. Lo stesso lavoro che metterà a disposizione di altri artisti quando si tratterà di produrre i loro album.
Il modus operandi e l’illimitata curiosità di Eno hanno dato vita a un gran numero di dischi, a suo nome o in collaborazione. Una selva rigogliosa di possibilità dalla quale abbiamo estrapolato i 10 lavori imprescindibili per comprendere le varie sfaccettature di un artista che ha contribuito forse più di chiunque altro a delineare la musica moderna. Traguardo che per uno che si definisce non-musicista non è da poco.
“No Pussyfooting” (con Robert Fripp, 1973)
Messi da parte i Roxy Music, Eno fa combutta con un altro grande “obliquo” della storia del rock: Robert Fripp. Allestisce due registratori Revox che catturano il segnale della sua chitarra e lo restituiscono in loop, in modo che Fripp possa improvvisarci sopra. L’effetto è ipnotico e le due suite qui contenute anticipano la creazione futura della ambient music.
“Here Come the Warm Jets” (1974)
Il vero esordio solista di Eno è un album di puro glam che poi tanto puro non è. Come prendere il meglio di Bowie e dei Roxy Music e passarlo in una centrifuga nella quale rock e avanguardia si amalgamano perfettamente. Con un look androgino quanto basta, Eno interpreta una serie di canzoni che paiono pop ma presto deragliano verso la sperimentazione. Here Come the Warm Jets è anche una bella parata di musicisti: Robert Fripp, John Wetton, Simon King degli Hawkwind, Bill MacCormick dei Matching Mole, Paul Rudolph dei Pink Fairies, Chris Spedding e tutti i membri dei Roxy Music eccetto Bryan Ferry.
“Taking Tiger Mountain (By Strategy)” (1974)
In Taking Tiger Mountain l’impatto si fa meno deflagrante e cominciano a farsi vive, qua e là, trame ambientali che donano alle canzoni un fascino astratto. Le composizioni prendono vita con l’ausilio delle mitiche Oblique Strategies, una serie di carte concepite da Eno insieme al pittore Peter Schmidt. Ogni carta contiene un breve aforisma atto a sbloccare i momenti di impasse. Grazie a tali direttive Eno trova il modo migliore per dirigere i lavori usufruendo ancora di grandi ospiti come Phil Manzanera, Robert Wyatt e Phil Collins. Un plauso speciale per la title track, sorta di koan musicale entro il quale perdere le coordinate spazio-temporali.
“Another Green World” (1975)
Il passo successivo vede Eno alle prese con una piccola rivoluzione. Il lato più glam rock delle sue canzoni viene messo da parte a favore di una maggiore attenzione alla rarefazione musicale, con 5 tracce su 14 completamente strumentali e 7 suonate interamente dal compositore. Gli strumentali sono placidi acquerelli che pongono le basi del lavoro futuro, quelli cantati già anticipano le atmosfere di certa new wave e soprattuto il lavoro che da lì a poco vedrà Eno alla corte di David Bowie per la trilogia berlinese.
“Before and After Science” (1977)
Ancora più che nei precedenti album, qui Eno si sdoppia, con una prima facciata che ricupera i momenti più tesi dei primi due lavori e un’altra nella quale vengono approfondite le atmosfere ambient di Another Green World. Il lato A si fa ricordare per tessiture che devono molto al lavoro che Eno sta mettendo in piedi con gruppi come Talking Heads (addirittura il titolo di un brano è l’anagramma del nome della band) e Ultravox!. Nel lato B basta un titolo: By This River, forse la composizione più celebre di Eno, ballata impalpabile che andrà a commentare le immagini di molte pellicole (in Italia la si ricorda in La stanza del figlio di Nanni Moretti).
“Ambient 1: Music for Airports” (1978)
Il lavoro di definizione della ambient music, portato avanti nel tempo con Fripp e da solista, sfocia in Music for Airports, che riesce a dare un senso pieno a un termine da lui stesso coniato per descrivere una musica che si armonizza perfettamente agli ambienti, diventandone parte integrante (in questo caso gli ambienti immaginati sono gli aeroporti). Il primo volume di una serie messa in piedi per distinguerla dai dischi “pop” contiene una musica in filigrana: pattern di pianoforte (suonato da Robert Wyatt), cori in dissolvenza, tastiere. Quanto basta per dare alle stampe un album di trasparente bellezza e struggimento.
“Ambient 2: The Plateaux of Mirror” (con Harold Budd, 1980)
Nel secondo volume della serie, Eno è in compagnia del pianista statunitense Harold Budd (del quale aveva già prodotto The Pavillion of Dreams, nel 1978). In The Plateaux of Mirror Budd è impegnato in tutta una serie di performance pianistiche lente e nostalgiche che successivamente Eno – tramite manipolazioni, effetti e tastiere aggiuntive – trasfigura per creare quello che può essere descritto come il suono del sogno.
“Fourth World Vol. 1: Possible Musics” (con Jon Hassell, 1980)
Non contento del successo di publico e critica che sta ottenendo la sua collana ambient, Eno stringe una collaborazione col trombettista americano Jon Hassell, capace di tirare fuori suoni del tutto peculiari con il suo strumento: torridi, sabbiosi, richiami arcaici e sciamanici che ispirano al nostro una possibile musica del quarto mondo. Il risultato è la creazione sonora di un’Africa profonda e trasfigurata, con tromba, percussioni, Moog e trattamenti assortiti a descrivere un viaggio nel cuore di tenebra del continente.
“My Life in the Bush of Ghosts” (con David Byrne, 1981)
Rock, world music, funk, ambient, collaborazioni con altri artisti e tutto il resto dell’universo sonoro fin qui esplorato da Eno trova una sorta di summa nell’album co-firmato con il leader dei Talking Heads, David Byrne. In My Life in the Bush of Ghosts (dall’omonimo romanzo del nigeriano Amos Tutuola) non ci sono testi, ma solo campionamenti di voci disparate (politici predicatori, cantanti africani) su ritmi incessanti e ipnotici, con un mantrico sfondo sonoro a base di trattamenti di chitarre e tastiere. Un disco fondamentale, unione perfetta di due teste geniali.
“Ambient 4: On Land” (1982)
Con il quarto e ultimo volume della serie ambient Brian Eno partorisce qualcosa che non ha quasi più nulla a che fare con note, ritmi e armonie, ma è imparentato strettamente col riaffiorare di stati d’animo ormai sepolti, piccole sensazioni che riemergono dal pozzo dell’inconscio e si tramutano in una tavolozza di suono astratto. On Land è uno scavo nella psiche del compositore in nove brani che scardinano la porta della nostalgia. Più che un ascolto un’esplorazione degli anfratti della musica, dei suoi fantasmi, alla ricerca di un giocattolo perduto di cui non si rammentava l’esistenza, di un colore, un profumo, un luogo che si pensava dimenticato per sempre. On Land è la via verso il mondo della pura e dolce malinconia.