L’annosa diatriba sul fatto che tra le generazioni ci sia un gap impossibile da colmare sembra sempre più che mai attuale, soprattutto in musica. Chi è attempato e tenta di capire, giudicare o analizzare la musica dei giovani è per la gran parte dei casi goffo e pietoso, per non dire ridicolo. Ora però siamo sicuri che questa impossibilità di discernere non sia soltanto un luogo comune, un mito negativo?
Ne abbiamo le prove nella storia della produzione discografica. Negli anni del punk tutto quello che puzzava di cosmic, di hippy, di psichedelico o di glorie che furono era apparentemente messo al bando, poi però dietro al mixer c’erano… guarda un po’ gli stessi matusa che gettati dalla finestra rientravano dalla porta. Un percorso che non è conosciutissimo, ma sviluppandosi in un periodo storico in cui sembrava che davvero tutto nascesse dal nulla ci rivela che la tabula rasa è stata in realtà null’altro che un passaggio di testimone dai vecchi ai nuovi miti.
Ecco a voi dischi di gruppi punk/alternative/new wave nei cui credits si nascondono insospettabili “dinosauri” del rock. I risultati? Vi lasciamo la suspence della lettura per saperlo.
John Cale vs Squeeze
Gli Squeeze sono conosciuti per il grande successo a cavallo tra ’70 e ’80, ma non per merito del primo album Squeeze (1978), la cui produzione è messa in mano a John Cale “fracico” di alcol e droghe che non accetta i brani della band e anzi li costringe a scrivere roba nuova di zecca in studio, lanciandogli degli input allucinati tipo «scrivete canzoni sulla gente muscolosa» e roba del genere. Gli Squeeze lo scelgono perché grandissimi fan dei Velvet Underground (che come tutti sappiamo solo poi saranno riconosciuti come pionieri del post punk), ma Cale forse ha dei sospetti su di loro. Darsi infatti un nome prendendolo dall’unico album dei Velvet in cui non c’è alcun membro originario tranne Doug Yule – odiato per questo tanto che gli stessi Velvet non l’hanno voluto nella Rock’n’Roll Hall of Fame – implica farsi sabotare dal vecchio John, che a queste cose ci tiene. Detto questo, gli Squeeze prendono questi spunti di Cale come una gara e creano canzoni nervose e assurde, dal suono duro e caotico che, mischiandosi alle loro tendenze pop, sicuramente sono progenitori di un certo noise rock anni ’90. Se i deliri di Cale, che ci piazza anche dei rumoracci, grida e quant’altro, attraggono per la loro bizzarria, vero è che la vena autentica della band viene ostruita. Tanto che dopo l’ennesimo svenimento di Cale sulla consolle, i nostri gli scriveranno “coglione” in fronte con una penna e registreranno di nascosto gli unici due brani non scritti su due piedi, ovvero Take Me I’m Yours e Bang Bang che, guarda caso, saranno delle hit mentre l’album, al contrario, sarà stroncato dalla critica (per quanto a nostro avviso importantissimo). A volte le galline vecchie si rifiutano di fare buon brodo e vogliono ancora beccare nell’aia.
Nick Mason vs Damned
Un anno prima però ci fu un precedente incredibile: in pieno punk, quando Johnny Rotten fingeva di odiare i Pink Floyd con tanto di maglietta (più avanti smentirà), i Damned che dei Pistols erano quasi gli eredi poiché finiti in mano a Malcolm McLaren decisero di farsi produrre nientepopodimeno che da… Syd Barrett. La cosa allucinante è che Barrett all’inizio accettò, lo studio fu prenotato, tutti pronti ai loro posti attendendo il suono del campanello. Ma andando ad aprire trovarono… Nick Mason. Barrett ovviamente era fuori di testa e Nick mortificato veniva a mettere le toppe. In un certo senso Mason era l’anima concreta, rumorista dei Floyd e avrebbe potuto dare qualcosa di inedito al sound dei giovanotti: ce la mise tutta, ma ai Damned interessavano input per le canzoni, e su quello Mason nulla poteva. Tra l’altro i nostri volevano registrare tutto alla velocità della luce, quando solo per piazzare i microfoni Mason – da tradizione floydiana– ci metteva un giorno intero. Risultato, Music for Pleasure (1977) fu un momento folle per il gruppo, che fu sul punto di sciogliersi tra scazzi, eccessi e deliri vari. Non fu ben accolto da nessuno, ma col senno di poi è un album che vede i Damned ampliare la palette, con un sound rigoroso e a suo modo “spietato” che viene direttamente da Animals dei Pink Floyd e a volte strizza l’occhio al periodo barrettiano più oscuro, tenendo in mente proprio Nick Mason quando canta “Scream thy last scream” con fare da “punk prima di te”.
David Gilmour vs Dream Academy
Ma nei Pink Floyd non solo Mason si spese per la causa new wave: lo fece anche David Gilmour. Il quale nel 1985 strinse una duratura alleanza con i Dream Academy di Nick Laird-Clowes, che addirittura verrà poi chiamato a scrivere canzoni proprio per i Floyd mark III. A differenza del suo socio, Gilmour era scafato dietro il banco di regia e trovò in loro quasi degli eredi dei Floyd più sognanti, quelli delle ballate. Tant’è che le canzoni diafane rilucono di una patina psichedelica che va a piedi nudi su una fune dream pop, in perfetto equilibrio sul baratro. Come la band sia arrivata a Gilmour è presto detto: il fratello minore di David, Mark, suonava nella prima emanazione del gruppo (non tutti lo sanno ma è stato attivissimo nella scena new wave con gli Scarlet Party). Quello che non capita tutti i giorni è che sia proprio uno come Gilmour a proporsi come produttore, interessatissimo al loro songwriting tanto che possiamo dire che da quello abbia pescato per la risurrezione dei Floyd di A Momentary Lapse of Reason: con la band collaborerà per ben tre album a partire da Dream Academy del 1985, tutti molto ispirati. A giudicare dai risultati, avrebbe dovuto mollare i Pink Floyd e darsi solo alla produzione dei giovani. Un singolo ancora oggi “simbolo” come la hit Life in a Northern Town, dedicata alla morte di Nick Drake, col suo refrain corale e riconoscibilissimo ovunque, non lascia dubbi che sì, a volte meglio dare retta ai papà ma anche i papà dovrebbero godersi la pensione e dedicarsi ai figli.
Mike Howlett vs A Flock of Seagulls
Ci sono vecchie glorie che sono rimaste nella storia dei produttori di “giovanotti”: basti pensare a Brian Eno, che ha fatto i soldi così e non certo con i suoi dischi solisti. Ma ci sono anche personaggi che non hanno goduto di fama pur essendo fondamentali per la scena. Esempio di ciò è la figura di Mike Howlett, bassista nei mitici Gong e portatore sano di psichedelia. Ebbene inizia a produrre la nuova scena con il primo dei Fischer Z, dopodiché spazia dai Marthta and the Muffins ai Tears for Fears e agli OMD, producendo hit micidiali. Nel 1982 però incontra sulla sua strada dei ragazzi di Liverpool il cui cantante ha un ciuffo alla Mazinga: sono i Flock of Seagulls. Rimasti famosi principalmente per la top hit I Ran, nel loro omonimo album di debutto del 1982 ci regalano un sogno: prodotto da Howlett, spazia dall’elettronica a certe tensioni beatlesiane ridotte all’osso. L’importanza del disco sta nell’assoluta perfezione dei suoni e delle atmosfere: il segreto lo rivelano proprio i Flock of Seagulls: «Mike ci ha solo guidati, non ha cercato di cambiarci, si è solo assicurato che quello che stavamo facendo fosse trattato correttamente e suonasse alla grande. Un ottimo amico che non ha cercato di metterci un timbro addosso». Howlett vincerà il suo unico Grammy nell’83 proprio per la produzione della strumentale DNA. Nel suo lavoro, ricordiamolo, è coadiuvato da Bill Nelson, altra vecchia gloria nei Be Bop Deluxe, leggende del glam: tanto per dire che l’esperienza non può che portare lontano.
Steve Hillage vs Simple Minds
E Steve Hillage di esperienza ne ha: anche lui ex Gong, della band eredita quell’attitudine al “viaggio magico” che caratterizza la sua produzione solista. Già nel suo album del 1978 Green troviamo alla batteria Andy Anderson, in futuro con i Cure di The Top e alla produzione, guarda un po’, Nick Mason appena reduce dai Damned. Nel caso di Hillage, la sua produzione wave più eclatante sarà quella dei Simple Minds di Sons and Fascination e Sister Feelings Call del 1981 pubblicati sia separati, sia come doppio. Rappresentano il momento in cui i Minds cominciano ad avvicinarsi al grande pubblico senza però ribaltarsi, sfoggiando grazie alla produzione del vecchio Hillage un suono ipnotico e brillante pienamente in linea con le svolte new romantic. Il segreto di questa felice relazione è la comune passione per il kraut rock, il motorik e tutto quello che riguarda quel “prog cosmico” di cui Hillage era maestro assoluto. Il Guardian inserirà i due dischi nella lista dei 1000 album da ascoltare prima di morire, a dimostrazione che gli spiriti affini non conoscono vecchiaia o giovinezza di sorta.
Ray Manzarek vs X
Riguardo a questa “connessione di amorosi sensi” è eclatante la storia degli X e il tastierista dei Doors. Il gruppo punk americano lo incontra al Whisky a Go Go mentre stanno suonando. Ray è molto interessato alla scena ed è assiduo frequentatore di concerti punk, si propone per produrre il loro primo disco e i nostri accettano in quanto grandi fan dei Doors. I fan hardcore reagiranno alla notizia dandogli degli hippie rifatti, dimenticando che i Doors di hippie non avevano nulla, tant’è che Manzarek è stregato dalla cruda poesia dei testi della band, che gli ricordano l’urgenza di Morrison e fa letteralmente comunella con questi giovani sregolati. Ma è soprattutto la loro guida e il loro guru. Ricorda la cantante Exene Cervenxa: «Una volta, ero lì tutta ubriaca e selvaggia, e lui ha premuto il pulsante talkback dopo 15 riprese in studio in cui ha provato ogni sorta di cose diverse, e ha detto: “Ricorda, questo è per sempre”. Quella è stata la prima volta che ho realizzato: voglio dire, non scompare domani». Dev’essere stata dura per Ray stare appresso ai loro moti ormonali, ma il primo disco degli X Los Angeles (1980) cattura in soli nove brani la furia di un periodo storico, a tutti gli effetti investendoli a eredi dei Doors e del loro lato oscuro (Ray continuerà a produrli per i successivi tre album, d’altronde).
Todd Rundgren vs Psychedelic Furs
Tra le tante produzioni strambe, quella tra il pirotecnico e geniale Todd Rundgren e gli sfascioni Furs è probabilmente la più esplosiva. Il disco che lo prova è Forever Now (1982), dove i Furs ampliano i loro orizzonti mettendosi alle spalle i luoghi comuni wave. Todd li porta a sperimentare con strumenti come marimba e violoncello, suonando lui stesso nei pezzi, li invita a migliorare le loro demo appena abbozzate, abituati come erano a fare i dischi direttamente in studio, rimettendoci mano lui stesso e applicando il suo particolare e lussureggiante wall of sound su tutto il disco, producendo brani memorabili come Love My Way e la subdola President Gas. Ironia della sorte, fa partecipare anche Gary Windo al sax, collaboratore di Nick Mason, creando un contrasto tra innesti jazz e la cappa gotica dei nostri. Il disco diventerà uno dei più riusciti e amati della band, nonostante all’epoca l’alleanza con Rundgren venne derisa come un’operazione di svendita. D’altronde se a produrre fosse stato Bowie (come doveva essere) non sarebbe andata meglio, forse avrebbe creato dei cloni di se stesso. Todd rimarrà invece collaboratore dei Furs anche in futuro, distinguendosi nella produzione di altri act wave come ad esempio XTC e Rubinoos, valorizzandone soprattutto le potenzialità commerciali (ah, produrrà anche Steve Hillage… solo coincidenze?).
Klaus Voormann vs Trio
Le coincidenze pare esistano, a giudicare dalla storia del primo omonimo disco dei Trio (1981). Gli autori della super hit Da Da Da trovano un contratto con la A&M tedesca e si dà il caso che il consulente dell’etichetta sia Klaus Voormann, l’autore della copertina di Revolver dei Beatles e bassista dei Plastic Ono Band della coppia Lennon-Ono. A lui viene dato il compito di dare forma ai deliri minimali della band tedesca: si fa acquistare quindi due otto tracce e registra in diretta le performance del gruppo, sovraincidendo la voce in un secondo momento. Per la caratteristica di avere pochi strumenti, con le incisioni viaggiano a una certa velocità, il perfezionismo sarà massimo soprattutto nei piccoli “effetti speciali” del disco, accorgimenti che vengono studiati al millimetro anche solo per registrare il gruppo che si lancia addosso delle palle. Per l’efficace sfruttamento dei vuoti nel sound dei pezzi e per questi inserti surreali, non si può non ricordare l’esperienza di Voormann con Yoko Ono, cosa che dà a questo tipico prodotto della Neu Deutsche Welle un sapore sperimentale lievemente 70s che lo rende ancora oggi eterno.
George Martin vs Ultravox
Uno dei casi più eclatanti di clash tra vecchia e nuova scuola è rappresentato da Quartet degli Ultravox (1982) che vede George Martin dietro i cursori. Dopo due dischi di successo con Conny Plank alla produzione, la band vuole cambiare per rimettersi in gioco: e quale nome più adatto del Sir che ha creato capolavori come Sgt. Pepper’s (e che per l’ occasione si porta dietro proprio Geoffrey Emerick, l’ingegnere del suono di quell’LP)? Martin accetta entusiasta in quanto la figlia è guarda grandissima fan degli Ultravox, Il gruppo entra in sala di incisione con l’idea di non farsi mettere i piedi in testa, si mette sulla difesa e invece trova un musicista attentissimo, che si approccia all’elettronica in maniera diametralmente opposta al modus operandi della band. Si siede al pianoforte e lima le armonie, cercando di puntare sull’emozione più che sull’effetto speciale, e allo stesso tempo usa lo studio come ai tempi dei Beatles, cercando di sfruttare tutte le tracce a disposizione, registrando strati di synth, sperimentando sul timing delle prime drum machine cercando di eliminarne le latenze. Un modo singolare di lavorare sul dettaglio, che in effetti produrrà un album che sembra quasi musica classica new wave, senza una nota fuori posto. Un pezzo storico come Hymn non poteva che avere Martin alle spalle: l’album in sé sarà un successo, ma mentre Midge Ure parla delle session con Martin come illuminanti, il batterista Warren Cann lo ricorda come un momento particolarmente “sedato”, privo dell’urgenza sonica tipica della band. Entrambi però sono d’accordo che un’esperienza simile non la cambierebbero per nulla al mondo: una leggenda non può essere datata.
Alex Chilton vs Cramps
Se è vera la massima per la quale la leggenda del rock’n’roll unisce tutte le generazioni, allora la love story tra Alex Chilton dei Big Star e i Cramps ne è la dimostrazione. Il capoccia di una delle prime band proto punk della storia li incontra a New York e li invita a Memphis a registrare. Sulla carta non dovrebbero esserci problemi, in quanto i gusti per un sano e selvaggio rock’n’roll collimano alla grande: e in effetti i casini verranno più che altro dall’entourage dello studio della mitica Sun Records. Nessuno vuole prendere sul serio questa banda di psychobilly scoppiati, tra i quali circola pure l’eroina: non capiscono perché i led del mixer debbano sempre andare sul rosso e soprattutto non si capacitano di come Chilton possa missare visto lo stato confusionale in cui verte (ci dava giù abbastanza anche lui). Fatto sta che il risultato finale suona molto più opaco di quanto non dovrebbe, tanto che Chilton propone alla band di riregistrare tutto da capo: loro, come da prevedibile copione punk, si rifiutano. E fanno bene, in quanto Songs the Lord Taught Us rappresenta uno degli esempi più marci di rock fuori da ogni controllo, perennemente a cannone e soprattutto l’evidenza che vintage è solo una parola.