Lucio Battisti è morto, ma non lo fanno risorgere, deve rimanere sepolto nel momento in cui ha deciso di sparire dalle scene. Ha stancato anche il confronto Mogol vs Panella visto che Battisti valeva anche senza gli autori dei testi. La cosa più importante in Battisti è infatti la musica, su quella vuoleva concentrarsi e quella rende, prepotentemente, determinate canzoni indimenticabili a prescindere dal testo. È spesso roba di ricerca anche quando sembra orecchiabile. Lo dimostrano i brani più “tosti” del repertorio, quelli meno gettonati, quelli realizzati e non pubblicati, quelli in cui l’afflato sperimentale è piuttosto estremo e – chiaramente – per la maggior parte si affida alle parti strumentali. Vogliamo quindi rendere giustizia a Battisti soffermandoci su dieci brani clamorosi per il loro essere estranei a ogni compromesso.
Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania
Amore e non amore
1971Se è vero che i 45 giri ottengono un successo notevole grazie ai testi di Mogol che spingono sul tema abusato (soprattutto nella musica italiana) dell’amore, con l’eccezione di Emozioni che ci porta in un campo più esistenziale, a un certo punto Battisti si sente stretto nelle maglie della forma canzone, soprattutto da quella di Mogol. Vuole ampliare il discorso musicale annusando l’aria psichedelica, probabilmente prima di tutti in Italia. Tanto che il suo vero primo album ufficiale di inediti arriva solo nel 1971 dopo una serie di raccolte di singoli ed esce fuori tempo massimo per poter essere salutato come l’Atom Heart Mother italiano, cosa che a tutti gli effetti è fin dalla copertina campestre e dal fatto che è composto quasi interamente da strumentali più o meno lunghi, cosa che sciocca tutti e in particolare l’etichetta discografica che preferisce far uscire Emozioni bloccando per un anno Amore non amore. È la classica goccia che fa traboccare il vaso e Battisti da questo momento non sarà più pedina di una casa discografica decidendo di autoprodursi con la Numero Uno. Ma c’è di più: nel disco Mogol è praticamente annientato. Su otto brani ne scrive solo quattro e negli altri casi fa da “titolista” a suite strumentali. Mogol dichiara di non aver voluto mettere testi per paura di rovinare quelle composizioni, che riteneva troppo belle. In realtà aggiungere dei testi sarebbe stato impossibile. Con il suo sitar sfasciato e la sua melodia vocale da soddisfatto alienato, Una poltrona ci porta alla contraddizione tra una società opulenta e un mondo che ancora si scanna, dove la morte è vissuta come uno spettacolo televisivo che disgusta e indigna solo per un minuto (la parte in cui il personaggio sembra cadere nell’atonalità della disperazione e dell’impotenza), poi basta cambiare canale e tutto torna spensierato come prima. Brano dalle mille intersezioni musicali, registrato con una stereofonia estrema in cui gli strumenti sono brutalmente separati a destra e a sinistra, con relativi pan e fade che sembrano presi da Helter Skelter, da una parte dovuti alla tecnica ancora primitiva, dall’altra probabilmente pensata per spiazzare maggiormente l’ascoltatore. Ecco la perfetta simbiosi tra Battisti e Mogol: uno scrive la musica, l’altro i titoli, e tutti felici a godere delle rispettive capacità di sintesi.
Davanti a un distributore automatico di fiori all’aeroporto di Bruxelles, anch’io chiuso in una bolla di vetro
Amore e non amore
1971Un altro brano clamoroso del Battisti strumentale di Amore e non amore suggerisce a Mogol il titolo per uno scenario distopico, ma neanche una riga cantata. Non si può dire che Davanti a un distributore non abbia una melodia traducibile in un testo. A differenza degli altri strumentali dell’album, parte con un pianoforte cadenzato, quasi banale nel suo incedere e nel ritornello (fatto di archi inaciditi da un flanger particolarmente artificiale) praticamente ascoltiamo Noi due nel mondo e nell’anima (i Pooh e il loro paroliere Negrini sapevano dove mettere le mani, Mogol evidentemente no). Tra l’altro è anche di breve durata, due minuti e 15 secondi di grandissima intensità, con Battisti che cura gli arrangiamenti e la direzione d’orchestra. Il titolo è perfetto nel suo surrealismo ermetico, tanto che nella parte degli archi siamo davvero risucchiati nella bolla di vetro del titolo: rimane però la curiosità di sapere dove saremmo stati proiettati se fosse stata intitolata Senza titolo n° 3. Forse a volare oltre l’aeroporto di Bruxelles?
Il fuoco
Umanamente uomo: il sogno
1972«L’album si chiude con un altro brano strumentale, Il fuoco, esperimento psichedelico vicino al krautrock. È privo di testo poiché Mogol, dopo averlo ascoltato, si rifiutò di scriverne uno dicendo di “non credere in quel pezzo”». Questo dice Wikipedia a proposito dell’ultima traccia di Umanamente uomo: il sogno, il secondo album di inediti ufficiale di Battisti. È sicuramente psichedelico e del krautrock condivide più di un afflato, ma in realtà si tratta di uno dei primi pezzi noise italiani, e non parliamo in senso rock ma proprio harsh, prima che la parola avesse senso per chicchessia. Le schitarrate che solo Lucio riesce a fare, con una tecnica “grattugiata” che ha radici nell’afrofunk ed è prodromo di quei “geniali dilettanti” che più avanti metteranno le basi al punk italiano (a questo proposito la combo Zamboni-Canali nei CCCP/CSI deve molto alle sonorità di questa traccia), sfruttano ogni tipo di rumorismo possibile per evocare le scintille dell’anima umana: la scoperta del fuoco rende l’essere umano un soggetto culturale, lo eleva (teoricamente) al di sopra della bestia. E infatti Battisti, oltre a questo solo di feedback e corde maltrattate da un wah che ricorda i Sonic Youth che all’epoca hanno ancora il ciuccio, aggiunge effetti spaziali e voci tenebrose trattate dal pitch, quasi residentsiane che evocano non solo gli spiriti delle fiamme ma anche il momento di passaggio verso la nuova umanità, che però ancora sembra non fare capolino, come se il grande salto evolutivo non fosse stato ancora fatto per paura (la stessa paura che all’inizio non permetteva di dominare il fuoco). È un pezzo incredibile su cui è impossibile piazzare un testo, a meno che non si voglia recitare uno spoken word posticcio rovinandone la forza evocativa. La capacità narrativa nella musica di Lucio bastava a se stessa.
Umanamente uomo: il sogno
Umanamente uomo: il sogno
1972Nello stesso album Mogol si ritrova davanti un brano musicalmente perfetto che gli piega le ginocchia. La melodia di Umanamente uomo: il sogno che fa centro al primo colpo, un arrangiamento sublime, ci sono tutte le basi per una grande canzone da far cantare a squarciagola a tutta Italia. E invece il testo che Mogol prepara non funziona e onestamente è anche bruttino. Anche lui si sarà reso conto che avrebbe distrutto il pezzo con un testo del genere, che potrebbe forse avere spazio in una parrocchietta, ma non nel repertorio del miglior autore italiano di sempre. Sembra che saggiamente si sia tirato indietro, è più probabile che Battisti lo abbia fatto desistere tenendo solo il titolo, che è in effetti la cosa migliore. D’altronde Umanamente uomo si apre con la melodia principale fischiata, che già da sola evoca la fragilità della nostra condizione: la trovata degli archi a sostenere il tutto ricorda che possiamo elevarci ed essere un tutt’uno con il cosmo, rendendo il brano uno splendido affresco quasi a metà tra il quotidiano spicciolo e il mistico inarrivabile. Questo è Battisti quando riesce ad allontanare lo spettro delle parole: comunica tramite l’extraverbale, basta la sua voce o il suo fischiettio per dire le cose come stanno senza tanti giri da “tipo intellettuale appariscente”, per citare Mistero…
La nuova America
Anima Latina
1974Dopo un po’ di anni arriva il momento in cui Battisti osa musicalmente, quasi anticipando determinate tendenze mondiali a venire (basti pensare a Prendi fra le mani la testa proto reggae o a Gente per bene e gente per male che è proto grunge, ma l’elenco di intuizioni è lunghissimo). Dischi come Il nostro caro angelo sterzano verso un nuovo modo di intendere la canzone, che è un tentativo di modellare il prog, il krautrock, la psichedelia rendendoli a disposizione delle orecchie di tutti. Arriva Anima latina e, come ben sappiamo, anche l’ennesima rivoluzione copernicana in casa Battisti. Pure in questo caso Mogol è in difficoltà, principalmente perché i testi non sono intelligibili, con la voce indietro rispetto al mix degli strumenti per andare contro al tipico format “voce a palla”. Non è una novità, in quanto Battisti lo mutua da Il Volo, la superband assemblata proprio da Mogol con Radius e Lavezzi. Lucio estremizza la cosa a tal punto che non si sente davvero una mazza. Battisti dichiara all’epoca che si tratta di un mezzo per stimolare l’attenzione degli ascoltatori, ma in pratica è un chiaro segnale di stanca verso lo strapotere della parola mogoliana. Che nel disco funziona molto di più che nelle precedenti prove, per cui pensate alla frustrazione di Rapetti: ha in mano i migliori testi di sempre e non si sentono. In più, si trova di fronte a brani in cui non si può fare altro che tentare pochi versi: è il caso de La nuova America, due minuti e 51 secondi di sperimentazione che oscurano qualsiasi tentativo di renderla canzonetta. Ma non è l’unico scoglio dell’album sul quale Mogol andrà a sbattere, e infatti…
Separazione naturale
Anima Latina
1974In chiusura di Anima latina arriva questo pezzo che è praticamente un drone sintetico, assoluto capolavoro di minimalismo, con Battisti a mugolare in maniera incomprensibile sottotraccia con sopra una melodia cristallina che sembra portata da mondine androidi che cantano nei campi dell’eterno. Mogol ci piazza un testo di sei versi, che Lucio interpreta investito da effetti di flanger a rendere il tutto perfetto ed a suo modo artificiale che manco i Kraftwerk. Ma ancora una volta i versi, letti da soli, non reggono. Eppure, grazie al mantra battistiano, funzionano alla grande: una magia che però quasi prevede e sottintende la possibile futura divisione tra i due dietro a una storia d’amore che finisce appunto naturalmente. Ascoltandola col senno di poi tale consapevolezza commuove ancora di più pensando che in realtà Battisti si arrenderà alla forma canzone mogoliana per altri quattro dischi. Poi arriverà Panella, e le cose cambieranno in un senso – paradossalmente, visto il fiume di parole del buon Pasquale – più musicale.
La pace
Outtake di “L’apparenza”
1988La parentesi di E già, disco fieramente autogestito, è per Battisti il modo per dimostrare a tutti che potrebbe anche cantare le pagine gialle e arrivare in cima alle classifiche. Per un prodotto così sintetico e all’avanguardia per l’Italia, con una promozione ridotta all’osso, il primo posto in classifica (decimo disco più venduto dell’anno) è un traguardo non da poco. Nello step successivo, tocca cambiare le carte in tavola anche solo per le provocazioni ricevute dalla critica: volete un vero poeta a scrivere i miei testi? Eccovelo: il Panella dalla penna pirotecnica, il sodale di Enzo Carella, quello che quando scriveva i testi per Oh! Era ora di Adriano Pappalardo. All’inizio il metodo è il medesimo usato da Mogol: prima la musica, poi il testo e nasce Don Giovanni, che è un picco assoluto della sua produzione. Poi i due decidono di cambiare: la musica si adatterà al testo. Sembra un incredibile dietrofront rispetto ai criteri di Battisti, eppure è esattamente il contrario. I testi di Panella sono infatti estremamente musicali, pieni di nonsense che però acquistano significato dopo ogni ascolto proprio come un brano musicale strumentale che non ci dice nulla di concreto. Possiamo dire che il binomio Battisti-Panella sia stato vettore di musica contro musica, un eccesso di musicalità che è chiaramente il suo trionfo al di là dei facili significati della canzonetta. L’apparenza nasce proprio con questo criterio, ma c’è un brano che non entrerà a far parte del lotto. Si tratta di La pace, di cui Battisti completa la base strumentale ma che poi non integra col testo di Panella, anche quello già pronto. Leggenda vuole che la traccia sia stata esclusa perché nata prima dell’inversione di ruoli, quando ancora prevaleva il metodo classico: non ci riesce difficile pensare che sia vero ed è cristallina l’evidenza che se Battisti l’avesse pubblicata anche così non avrebbe fatto un soldo di danno. Una melodia purissima, armonie angeliche, una roba che gli Ultravox non sarebbero stati capaci di fare neanche sotto tortura e soprattutto un anticipazione della PC Music midizzata, senza se e senza ma. Leggere il testo a parte mentre si ascolta è un’esperienza profondamente appagante, tanto che ci si chiede come mai non abbia deciso di fare un disco così. Anzi, forse ci ha anche pensato, ma purtroppo il fantasmatico “album finale” che sembra giacere nei cassetti della vedova Velezia non sapremo mai com’è…
Bonus Track: Pensieri e parole (con coda orchestrale)
The Best of Lucio Battisti
1973Ci sono alcune cose che sono sfuggite ai più, soprattutto perché sono state pubblicate dopo anni, ad esempio la coda strumentale di Pensieri e parole eliminata per motivi radiofonici, ma recuperata nella compilation americana The Best of Lucio Battisti del 1973. Ecco, quegli 81 secondi sono a tutti gli effetti un brano a parte, in cui c’è un sunto del Battisti pensiero: il tema della canzone che si trasforma subito in musica classica, tra Bernstein, scuola di Vienna, Prokofiev e in alcuni momenti sembra di intravedere Wendy Carlos in Shining. Insomma c’è tutto in un mix di proporzioni titaniche: nella composizione Gian Piero Reverberi arrangia e ci mette del suo insieme a Lucio, ma tutto gira comunque intorno alla melodia portante del brano: insomma la musica diventa quasi un nuovo testo da leggere ad occhi chiusi.