We Are Domi “Lights Off” (Repubblica Ceca)
L’Erasmus in un club: lei è ceca (ma nata negli Stati Uniti per via del padre giocatore di hockey a Buffalo, New York), gli altri due norvegesi, i tre hanno studiato musica in Inghilterra e fanno un pezzo dance buono per le disco di una qualunque capitale europea. Un po’ anonimo, ma data l’abbondanza di ballate in questa edizione se non altro c’è del ritmo, c’è l’overdose di luci, c’è un po’ di festa.
WRS “Llámame” (Romania)
Già membro di una boy band e ballerino (non si direbbe) in Romania’s Got Talent e The Voice of Romania, Andrei Ursu ha portato sul palco la latinizzazione della musica del continente. Il suo pezzo è talmente banale e spudoratamente ammiccante che rischia di diventare un piccolo tormentone. Give that man a banana, così magari smette.
Maro “Saudade, saudade” (Portogallo)
In una competizione che è nota anche per la mancanza di gusto, mancanza che diventa un fatto positivo beninteso, c’è sempre qualcuno che fa le cose a modino. È il caso di Maro, che porta un pezzo forse un po’ troppo tiepido, ma nobilitato dalle armonie vocali e da una morbidezza ben giocata. J.K. Rowling informa su Twitter in tempo reale che ancora canticchia la canzone del Portogallo del 1992. Difficile che tra vent’anni ci si ricordi di Saudade, saudade.
The Rasmus “Jezebel” (Finlandia)
Arriva quasi sempre un momento nella vita di una rock band in cui fai tutto bene, ma quel che fai non è granché rilevante. Jezebel cattura uno di quei momenti. Ma in fin dei conti stiamo parlando dei Rasmus, mica dei Led Zeppelin, e difatti i finlandesi sono finiti all’Eurovision a competere coi lupi gialli e i balletti di WRS con un pezzo che ricorda Bon Jovi (uno dei co-autori, Desmond Child, ha scritto Bad Medicine, You Give Love a Bad Name, Livin’ on a Prayer).
Marius Bear “Boys Do Cry” (Svizzera)
La canzone ha una sua eleganza d’altri tempi, ma uno s’aspetta il tocco, la svolta, qualcosa che la faccia decollare. Ma quella cosa non arriva e resta la sensazione di avere già sentito il pezzo fatto meglio da qualcun altro. Perfetto per Sanremo Giovani 2022, il paradiso dei giovani vecchi.
Alvan & Ahez “Fulenn” (Francia)
La prima dei Big 5 ad esibirsi è la Francia. Cantata in bretone, Fulenn è il mix di local e global, di tradizione e contemporaneità che tanto piace all’Eurovision. Folk’n’rave. Solo che la canzone, un ballo col demonio ispirato a una leggenda bretone, incuriosisce per i primi 70 secondi e poi non succede granché.
Subwoolfer “Give That Wolf A Banana” (Norvegia)
L’Eurovision è anche follia e nonsense. Non stupisce che sia arrivata in finale questa canzone che, ne siamo sicuri, andrà forte nei mini club dei villaggi turistici di tutta Europa. Chissà se cantano davvero sotto le maschere (non che altri cantanti non si facciano aiutare, eh?).
Rosa Linn “Snap” (Armenia)
In un’edizione con tanto cuore e poco spettacolo, il “quadro” (maledizione, ormai parliamo tutti come Maria De Filippi e Achille Lauro) di Mumforddilego s’è fatto notare. Lei ha una storia edificante, la ragazzina che da un paesello arriva all’Eurovision, e non c’è niente di sbagliato in Snap, ma il pezzo è tanto amabile quanto esile.
Mahmood & Blanco “Brividi” (Italia)
Il ragionamento prima della finale era questo: nelle due semifinali le ballad sono andate bene, pure troppo per la qualità media, chissà che sfracello faranno Mahmood & Blanco con una canzone vera. Il pezzo è difficile e onestamente l’intonazione non è perfetta, a Sanremo era andata meglio, ma col pubblico del Pala Olimpico che canta fin dalla prima frase sembra di stare a un concerto. Bastano loro due e la canzone per riempire il palco, ma non per vincere.
Chanel “SloMo” (Spagna)
Tra le favorite alla vittoria finale, porta a Torino un pezzo sull’essere donna sexy, forte, desiderabile, un po’ selvaggia e tanto spezzacuori. Scritta da un team internazionale, mima decine di pezzi che abbiamo ascoltato senza però avere melodie, energia, suoni all’altezza. Anzi, senza avere niente. Registriamo l’ovazione al Pala Olimpico per l’assolo di chiappe.
S10 “De Diepte” (Paesi Bassi)
Se “u-uuuh a-aaah” è meglio di alcuni ritornelli ascoltati all’ESC di quest’anno non è per merito dell’olandese, ma per demerito di altri concorrenti. Il pezzo resta tutto sommato scialbo. È la canzone che skippi quando arriva in una playlist.
Kalush Orchestra “Stefania” (Ucraina)
Siccome l’Eurovision è anche politica e soft power per via delle votazioni reciproche fra delegazioni dei Paesi, e siccome i fatti del mondo finiscono per influenzare la gara, era chiaro fin dal principio che l’Ucraina si sarebbe piazzata bene. L’attualità ha piegato il senso di Stefania: da lettera a una madre a canto di resistenza. Succede quando il pop incrocia la storia. Poche ore prima della diretta, Zelensky ha chiesto su Instagram di votare Kalush Orchestra. Le delegazioni lo ascoltano fino a un certo punto, il pubblico sì, alla grande: vincono loro.
Malik Harris “Rockstars” (Germania)
Un mix tra una cantautore sensibile di quelli usciti negli ultimi anni, diciamo un Ed Sheeran, e un rapper che usa il registro colloquiale con pathos, diciamo un Macklemore. Ma è tutto terribilmente prevedibile, già sentito, vecchio dopo 30 secondi. Ma poi, ti porti mille strumenti sul palco per cosa? Per fare l’one-man band con la base?
Monika Liu “Sentimentai” (Lituania)
From Ventotene with Love: lei viene della Lituania, ha studiato negli Stati Uniti, ha vissuto in Inghilterra, interpreta un pezzo con un je-ne-sais-quoi di francese. Peccato che Sentimentai sia una di quelle canzoni che ascolti, dici «boh, dai, carina» e poi non cerchi più. L’effetto so 70s della messinscena visto a volume azzerato fa un po’ Tale e quale show.
Nadir Rustamli “Fade To Black” (Azerbaigian)
From Baku with Love. I maggiori danni a ESC 2022 l’hanno fatto i talent, da cui arrivano molti concorrenti, e le ballatone intense. Nadir Rustamli le ha tutte: è un vincitore di The Voice of Azerbaijan e ha un pezzo tutto sofferenza e intensità sul superamento delle difficoltà. A tratti sembra una brutta Bond song.
Jérémie Makiese “Miss You” (Belgio)
Non c’è niente di tremendo o sbracato nell’urban di Jérémie Makiese, ma nemmeno di particolarmente interessante. È uno dei frutti della X Factorizzazione dell’Eurovision: è la serata degli inediti, solo che al posto di esserci il concorrente fiorentino e quello palermitano, ci sono il belga e l’olandese.
Amanda Georgiadi Tenfjord “Die Together” (Grecia)
In un momento che rischia di sembrare da Attrazione fatale più che da There Is a Light That Never Goes Out, la protagonista di questa canzone è in auto col fidanzato, le cose fra i due vanno male, la storia è destinata a finire e allora lei pensa che “sei morissimo assieme adesso” in un incidente stradale “staremmo assieme per sempre”. Leggo però che coi compagni di corso a Medicina, Amanda ha fondato una band chiamata Flu Fighters: ma allora il senso dell’umorismo non le manca. Di certo non le mancano le doti di cantante.
Systur “Með Hækkandi Sól” (Islanda)
Piacciono grazie alla loro normalità. La famiglia Systur evita l’effetto Fire Saga e porta l’Europa in America con una rilettura del country-rock senza guizzi, però dotata di uno strano effetto tranquillante. «Ciao da Kiev», scrive un utente di YouTube, «nel bunker dove sono chiuso per ripararmi dai raid aerei questa canzone mi rilassa e mi permette di dormire quasi normalmente». Eccola, l’Europa unita.
Zdob şi Zdub & Advahov Brothers “Trenulețul” (Moldavia)
Bregović che incontra i Clash che citano i Ramones che strizzano l’occhio al folklore moldavo. La logica del mischione musical-culturale fa molto Eurovision. Loro ci aggiungono un entusiasmo che li salva in parte dall’effetto WTF, anche se al secondo ascolto la canzone è già meno divertente. Ci hanno spiegato che il pezzo racconta un viaggio metaforico da Chișinău a Bucarest: «Romeni e moldavi rappresentano un unico popolo». Ma siete sicuri, dopo aver ascoltato WRS?
Cornelia Jakobs “Hold Me Closer” (Svezia)
È una canzone che avrebbe potuto scrivere un’intelligenza artificiale dopo essere stata alimentata con i dati sulle caratteristiche fondamentali dell’Eurovision, se solo le intelligenze artificiali sapessero scrivere canzoni convincenti e ben fatte. Hold Me Closer lo è, convincente e ben fatta. Metà mesta e metà festa, è rétro al punto giusto, ricorda i tempi in cui potevi chiamare questa cosa Eurofestival senza essere ripreso da un esercito di cultori piccatissimi.
Sheldon Riley “Not The Same” (Australia)
La canzone di Sheldon Ray parla della sua adolescenza difficile – è gay e autistico – e di come il coming out l’ha aiutato a superare quei momenti. Sul palco però arriva una ballata iper classica, tutta scritta per fargli tirare fuori la voce e sottolineata da una messa in scena eccessivamente didascalica: lui inizia a cantare con una maschera Swarovski, poi sale una scala e si “libera”. A fine performance dice anche che «tutto è possibile». È una bella storia, ma il problema resta lo stesso della prima esibizione: il pezzo non c’è.
Sam Ryder “Space Man” (Regno Unito)
Sembra non esserci granché di originale in quel che fa Sam Ryder. Il video di Space Man sembra ricreare l’esibizione inaspettata di Stromae in tv, così come la canzone è una fantasia spaziale, una versione per il 2022 di Rocket Man a cui hanno succhiato via ogni emozione e carisma. Lui però è carichissimo e la performance ad effetto.
Ochman “River” (Polonia)
A meno che non siate compositori veri, il mix di pop e lirica nel 99% dei casi si rivela un completo fallimento. Ochman non fa eccezione. Come si dice Il Volo in polacco? E poi, anche lui viene da un The Voice: ma c’è un gemellaggio con ESC?
Konstrakta “In corpore sano” (Serbia)
Uno dei pezzi più divisivi dell’ESC. L’idea della musicista che si deve mantenere in forma per non ammalarsi, non avendo l’assicurazione sanitaria, non è da buttare. Il testo è più convincente della performance, anzi della peffòmans, che non arriva alle delegazioni, ma al pubblico sì. Chissà che con altri suoni e un’altra messinscena…
Stefan “Hope” (Estonia)
Al finto cowboy estone, figlio d’immigrati armeni, piacciono Johnny Cash e i film di Sergio Leone, e si sente. E gli piacciono davvero tanto, fino al punto di girare il video di Hope nei luoghi dove il regista ha girato i suoi spaghetti western. Stefan, una domanda: se li ami tanto, perché li banalizzi così?