Fra i classici dei Beatles, Let It Be ha la reputazione peggiore. Lo si considera il disco della separazione, quello da cui i Fab Four sono usciti a pezzi. Nato nel segno della rinascita e del ritorno alle origini, si è rivelato la fine di tutto. È quello della colonna sonora pasticciata uscita a maggio 1970, mentre la band si stava separando. Quello con Phil Spector al comando. Quello con la musica più cupa e divisiva.
La storia del disco però non è tutta qui. È anche l’album con classici come Let It Be, Across the Universe, Get Back e Two of Us. Ascoltarlo porta a farsi sempre alla stessa domanda: come hanno fatto John, Paul, George e Ringo a scrivere musica così confortante nel loro momento peggiore? Il mistero di Let It Be è tutto qui e presto diventerà ancora più affascinante grazie all’edizione speciale del disco, un box set che uscirà il 15 ottobre. È un cofanetto fondamentale per capire che posto ha questa questa musica tristemente incompresa nella storia dei Beatles.
«Il disco ha a che fare col conflitto», dice il produttore Giles Martin, figlio di George Martin. «Non si tratta però di conflitti interni alla band come tutti credono, ma di conflitti creativi. È il disco più conflittuale mai scritto dai Beatles, perché non erano sicuri di quel che stavano facendo».
Il cofanetto di Let It Be segue quelli dedicati a Sgt. Pepper, al White Album e a Abbey Road, un viaggio negli archivi per gettare nuova luce su musica che pensavate di conoscere a memoria. C’è dolore in questi brani, ma ci sono anche momenti di calore, risate, fratellanza. Le radici del disco affondano nell’amicizia tra i musicisti, non importa se è George che aiuta Ringo a concludere Octopus’ Garden o Paul e John mentre scrivono I’ve Got a Feeling. C’è qualcosa di meravigliosamente folle nel progetto Get Back / Let It Be, qualcosa che poteva succedere solo con i Beatles.
«Per me questo è il disco di una coppia sposata che vive una relazione bloccata», dice Martin. «Si dicono: abbiamo bisogno di tornare alle origini, nei posti dove andavamo all’inizio. Facendolo, però, si rendono conto che quei posti non sono più quelli di una volta e che non hanno più niente di cui parlare. “Dobbiamo dare una scossa ala nostra vita sessuale, torniamo in quel club”, poi però la musica è troppo alta. Quello di cui hanno bisogno, invece, è fare qualcosa di diverso, come Abbey Road».
Martin e il fonico Sam Okell hanno remixato il disco in stereo 5.1 surround DTS e Dolby Atmos. L’edizione deluxe contiene quattro dischi di outtake, demo e gemme inedite, tra cui la versione originale di Glyn Johns del mai pubblicato Get Back.
La vera sorpresa, però, consiste nello scoprire quanto quella musica fosse piena di calore e divertimento. Quando i Beatles improvvisano su Oh Darling, svelandone la splendida natura doo-wop, sembra che raccontino la storia della loro amicizia. Quando John sta per cantare Don’t Let Me Down sul tetto terrazzato della Apple, chiede a Ringo un po’ di supporto morale con l’intro di batteria: «Fai un bel kssssh per me. Dammi il coraggio per gridare».
L’idea che abbiamo di Let It Be è cupa a causa del film che lo accompagnava, anche se non l’ha visto quasi nessuno. La maggior parte dei fan conosce giusto la scena dell’Anthology in cui George e Paul discutono su una parte di chitarra, col primo che dice: «Dimmi quello che preferisci e lo farò». Era scioccante perché nel 1970 il mondo aveva appena scoperto che, beh, i musicisti litigano. Visto con gli occhi di oggi, invece, quella discussione è una cosa piccola piccola per gli standard rock. Per una band come gli Aerosmith sarebbe una delle conversazioni più amichevoli della giornata. Martin ride all’idea: «Ho lavorato alla produzione dello show degli Aerosmith a Vegas, dio li benedica», dice. «Persino le discussioni su quali voli prendere per Boston erano peggio».
Il nuovo Let It Be accompagna un film molto diverso: Get Back, il documentario diretto da Peter Jackson. Sono sei ore in tre episodi, in arrivo su Disney+ a novembre. Entrambi i progetti fanno parte di un’eccezionale ondata di nuove uscite a tema Beatles: i dischi di Paul McCartney III e III Imagined, l’EP di Ringo Change the World, l’incredibile box set di All Things Must Pass di George Harrison. Per non parlare del documentario di Paul con Rick Rubin, McCartney 3, 2, 1.
All’inizio Peter Jackson non era sicuro del progetto Get Back. «Da vecchio fan dei Beatles l’idea non mi entusiasmava», ha detto a Rolling Stone l’anno scorso. «Pensavo: abbiamo visto i filmati autorizzati, che ci sarà mai nelle altre 55 ore di girato? Sono andato alla Apple coi piedi di piombo. Non ero entusiasta, avevo paura di quello che avrei visto». Una volta studiato il girato, invece, «nulla di quello che pensavo fosse vero lo era».
Lo stesso discorso vale per il disco. La mitologia che lo circonda non c’entra nulla con la musica. Come dice Martin, «il progetto originale di Get Back era un disco dal vivo. I Beatles volevano fare un concerto che però non avevano ancora fissato, con canzoni che non erano state ancora scritte, e volevano farlo nel giro di tre settimane davanti alle camere. Era un progetto coraggioso anche per i loro standard».
Nell’edizione Super Deluxe sentiamo la band mentre si lamenta delle telecamere o della sveglia presto al mattino («Ora facciamo il turno di giorno», scherza George). Sentiamo Ringo mentre entra in studio e dice: «Buongiorno a tutti, che splendida giornata. Buongiorno, telecamera». Si lamentano del cibo, con George che chiede salsa al formaggio sul suo cavolfiore. Lavorano a canzoni che sarebbero state pubblicate in Abbey Road come Polythene Pam e She Came In Through the Bathroom Window. Paul aiuta John a scrivere Gimme Some Truth. C’è un momento in cui il tastierista Billy Preston mostra le sue doti vocali cantando uno standard degli anni ’20, Without a Song.
Poi sentiamo la rabbia di George nella settimana in cui ha lasciato il gruppo. «È facile capire perché fosse nervoso», dice Martin. «Era amico di Eric Clapton, andava in giro con The Band e Ravi Shankar, era sposato con una supermodella. Fuori dai Beatles c’era un mondo felice. Ma era bloccato a Twickenham e le sue canzoni non venivano prese in considerazione».
Uno dei momenti migliori arriva quando George costringe la band a suonare All Things Must Pass. Tuttavia, viene allontanato come un fratellino fastidioso. «George e Ringo erano spesso messi da parte», dice Martin. «George non veniva preso sul serio. Scriveva canzoni, ma non era il principale autore. I suoi pezzi erano il dessert, non il piatto principale. John lo chiamava Harrisongs, chiedeva: dov’è Harrisongs? George aveva la sua società di edizioni. Loro erano Lennon-McCartney e lui no. Lui era Harrisongs… È questa la dinamica di Let It Be. Lui era una anomalia».
La produzione di Phil Spector ha una pessima fama. Come dice Martin, «mio padre voleva che sui crediti si leggesse: “Produced by George Martin, overproduced by Phil Spector”». Il caso più famoso sono gli archi stucchevoli, l’arpa e il coro che Mr. Wall of Sound ha inserito in The Long and Winding Road. Paul ha cercato di correggere i suoi errori con la versione despectorizzata Let It Be… Naked del 2003. «Quando eravamo ad Abbey Road, gli ho detto: so che non hai mai apprezzato le sovraincisioni, ma mixare il disco in maniera diversa da come lo conoscono tutti non ha senso. Non possiamo cambiare la storia», ricorda Martin. «E lui ha risposto: “Sì, ma puoi abbassare l’arpa in The Long and Winding Road?”. Quindi sì, c’è qualche piccola modifica, ma non si poteva fare molto».
È stato il produttore Glyn Johns a mettere assieme il disco originale, che s’intitolava Get Back, e il cofanetto lo fa ascoltare per la prima volta. Il produttore aveva dato ai Beatles quello che avevano chiesto: un documento grezzo di quelle session. Il disco, con grande orrore della band, suonava piatto e trasandato. È una delle strane conquiste di questa nuova edizione: alcuni fan saranno scioccati nello scoprire che Spector aveva azzeccato molte cose. Tuttavia, la decisione di escludere Don’t Let Me Down da un disco di 35 minuti, preferendogli I Me Mine o Dig It, resta un crimine contro l’umanità del livello di Silver Springs.
Brian Epstein, scomparso due anni prima delle session di Twickenham, è una presenza invisibile nella musica e nel film, dove Paul dice: «Papà è scomparso. Da quando è morto Mr. Epstein siamo a terra». È parte dell’atmosfera cupa del disco. «Stavano succedendo un sacco di cose», dice Martin. «Avevano perso Brian e anche loro stessi».
C’è pathos nel modo in cui i Beatles cercano di recuperare i loro primi anni di carriera. «Let It Be è l’unico caso in cui hanno cercato di tornare indietro nel tempo, è per questo che erano tanto frustrati», dice Martin. «Ai tempi di Rubber Soul e Revolver, John e Paul non andavano mai a casa. Erano sempre chiusi da qualche parte a scrivere canzoni. In Let It Be andavano via, tornavano al mattino e non avevano scritto nulla. Guardavano la tv. L’idea di scrivere un concerto e suonarlo era un pessimo inizio». Si sono ritrovati più avanti, quello stesso anno, con George Martin e Abbey Road. «Quel disco è riuscito perché non stavano cercando di tornare indietro».
La versione super deluxe di Let It Be contiene un libro con un’introduzione di Paul McCartney e scritti di Giles Martin, Glyn Johns e degli storici dei Beatles Kevin Howlett e John Harris, più fotografie di Ethan Russell e Linda McCartney. Fuori dal cofanetto c’è un altro libro (altrettanto essenziale) intitolato The Beatles: Get Back, in uscita il 12 ottobre. È ricco di foto di Russell e McCartney, contiene scritti di Peter Jackson e Hanif Kureishi e, il piatto forte, trascrizioni complete delle session, che sulla pagina sembrano quasi dei dialoghi di Samuel Beckett.
Come il film Get Back, Let It Be è pieno di calore disarmante. Nella prima settimana di gennaio 1969, tutti si scambiano gli auguri di capodanno e George Harrison chiede notizie di Judy, la moglie di Martin. «È divertente per me», racconta Giles. «Io sono nato il 9 ottobre 1969. Quindi sono stato concepito in quei giorni. Così ho pensato: “Oh dio, ma che giorno sarà stato? È per questo che mio padre ha quel sorriso?».
Ascoltare il mix Atmos di Martin e Okell è un’altra rivelazione. In Two of Us Paul ti canta in un orecchio, John nell’altro, mentre Ringo ti batte sul petto, dimostrando ancora una volta di essere il cuore pulsante della loro musica.
Paul McCartney capisce perfettamente perché la gente vuole sempre nuovi dettagli sui Beatles. «È la cosa bella del film di Peter Jackson», ha detto. «Si vede tutto, anche i momenti di pausa. È partito da un edit di 80 ore di girato, proprio perché rispetta quei piccoli momenti. Sono sicuro che ci saranno fan che vogliono vedere tutte e 80 le ore». La verità è che lui se lo gode proprio come loro: «Insomma, è grandioso ascoltare chi eravamo».
Dopo tanti anni, non è certo rimasto solo. Let it be.
Ecco i 10 brani più rivelatori del nuovo cofanetto.
1All Things Must Pass
«Questo brano ha un’atmosfera un po’ alla Band», spiega George Harrison riferendosi a Woodstock e al tempo passato con Bob Dylan e The Band. Ha un atteggiamento umile e dice: «Se qualcuno volesse unirsi a me, lo apprezzerei molto». È una versione straordinaria, tutti cantano sui fill drammatici della batteria di Ringo, mentre John aggiunge versi su pillole macrobiotiche. Le prese in giro di John, però, sono così esagerate che George smette. La canzone uscirà nel suo album solista del 1971. Come dice Giles Martin: «È bizzarro che non sia finita in Abbey Road o Let It Be».
2Two of Us (Take 4)
È la versione country, con John e Paul che aggiungono abbellimenti blues al ritornello “we’re going hooooome”. John recupera anche l’inflessione di Dylan quando canta “in the sun”. Ascoltandola si capisce perché abbiano scelto di registrarla con uno stile ancora più secco, ma è comunque bellissima. Nonostante fosse una canzone d’amore per Linda, sul foglio del testo Paul ha appuntato: “A Quarrymen Original”.
3Oh Darling
La jam su Oh Darling è una bomba, il picco emotivo del cofanetto. John e Paul la cantano insieme con un botta e risposta. (Paul: “Believe me when I tell you!”, John: “Oh, I do!”). Poi John inizia a improvvisare: “Ho appena sentito che Yoko ha divorziato! Siamo liberi!”. Un piccolo estratto del pezzo è finito nell’Anthology 3, ma è solo un accenno rispetto a questa versione. È un tema ricorrente per John e Paul: tornavano sempre a queste vecchie ballate rock & roll, era l’unico modo che conoscevano per affrontare le cose di cui non riuscivano a parlare.
4Gimme Some Truth
John l’ha resa un classico del disco solista Imagine, ma in questa fase ci lavorava con Paul. Hanno smesso troppo presto, spaventati dalle telecamere. «Avevano iniziato, ma c’era una troupe ed era difficile scrivere», dice Giles Martin. «Se fosse stato il 1965 si sarebbero nascosti in una stanza d’hotel e l’avrebbero finita. È questa la differenza con questo progetto».
5Octopus’ Garden
«Avete sentito quella sul polpo?», chiede Ringo. Poi suona una parte di piano semplice («Oh, ha imparato il la minore», dice George), canta i primi versi e si interrompe: «Sono arrivato fino a qui». Tutti ridono gioiosamente. Se la registrazione finisse qui, sarebbe comunque un tributo dolce al legame tra i quattro Beatles. George, invece, imbraccia la chitarra e trasforma il frammento in un classico, un gesto di generosità e amicizia. E chi suona la batteria? John dice: «Credo che Paul voglia farlo, no? Con il suo grosso braccio sinistro. Io non mi siedo dietro al kit senza una sigaretta!».
6Something (Rehearsal)
George va dagli altri con un’idea a cui lavora da sei mesi, che inizia così: “Something in the way she moves”. Il problema è che è bloccato al secondo verso. Così John suggerisce: «Canta quello che ti viene in mente: “Attracts me like a cauliflower” (mi attrae come un cavolfiore, ndt)», poi fa a George un discorso motivazionale sulla scrittura. «Vai avanti e poi torni indietro e ricominci. Altrimenti non scrivi».
7Don’t Let Me Down / Dig a Pony / I’ve Got a Feeling (Glyn Johns Mix)
È il momento migliore del Get Back di Glyn Johns: una suite di 11 minuti con Don’t Let Me Down, Dig a Pony e I’ve Got a Feeling incollate insieme in un’unica lunga canzone.
8Maggie Mae / Fancy Me Chances With You
Un altro dei momenti più belli, stavolta inaspettato: una versione allegra e rumorosa di un pezzo folk di Liverpool su un borseggiatore di Lime Street, Maggie May (in questa versione è intitolata Maggie Mae). Paul grida: “Take it, Maggie!”. Poi lui e John fanno uno skiffle che avevano scritto da ragazzi, Fancy Me Chances With You. Dura solo un minuto, ma è facile capire perché per loro era come una boccata d’aria fresca.
9Let It Be / Please Please Me
Paul suona in maniera maestosa al pianoforte Please Please Me, una delle prime hit dei Fab Four. Non è uno scherzo: vuole dimostrare che le due canzoni hanno la stessa urgenza emotiva, anche a sei anni di distanza. John scherza: «Dai, canto solo due note in questo pezzo».
10For You Blue (Take 4)
George si presentava alle session con canzoni complesse e introspettive come Isn’t It a Pity e Hear Me Lord, brani che non c’entravano molto con l’immediatezza del progetto. For You Blue è uno dei pezzi forti del cofanetto grazie al giro blues di George alla chitarra acustica, mentre John lo segue alla steel guitar, Paul al pianoforte e Ringo alla batteria. Sono tutti perfettamente sincronizzati. «Suonava splendidamente!», dice George alla fine. «La chitarra ti sembrava accordata, Glyn?».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.