Gli anni ’10 che volgono in questi giorni al termine sono stati senz’altro quelli in cui il rap italiano è esploso, a livello di numeri, di pubblico e di consapevolezza dei media generalisti. Proprio per questo motivo, è praticamente impossibile fare una classifica dei dieci migliori rapper italiani degli anni dieci, e men che meno dei dieci migliori album; non ci proveremo neanche. Sarebbe un’impresa suicida perché, anche volendo stabilire dei criteri oggettivi e ferrei, resta il fatto che ne sono usciti davvero troppi, e troppo importanti, e il rischio di perdersene qualcuno o di non includere titoli più che meritevoli sarebbe altissimo. Una cosa, però, si può fare: scegliere per ognuno di questi anni un disco che lo ha segnato e caratterizzato, per un motivo o per l’altro. È utile a tracciare una panoramica di questo decennio, ripercorrendo l’evoluzione di un genere che è cambiato (a volte in maniera del tutto inaspettata) come nessun altro.
2010. “Controcultura” di Fabri Fibra
Passerà alla storia per il singolo-tormentone Tranne te, che forse è il primo vero tentativo di Fibra di trovare una sua personalissima via al pop (e se anche voi avete cominciato a canticchiare mentalmente il ritornello non appena ne avete letto il titolo, vuol dire che c’è riuscito). In realtà, Controcultura è molto più di questo: è un album dai contenuti densi e politici che si nascondono sotto la superficie scintillante, e in cui fa nomi e cognomi, molti dei quali a posteriori saranno censurati per protesta dei diretti interessati. Il perfetto anello di congiunzione tra il Fabri Fibra del passato e quello del futuro.
2011. “Il ragazzo d’oro” di Gué Pequeno
Il primo album solista di una delle punte di diamante del rap italiano, che fino ad allora non era mai uscito dai ranghi dei suoi precedenti gruppi, le Sacre Scuole e i Club Dogo, se non per alcuni mixtape. Le aspettative erano altissime, e vengono ben riposte: a livello di sonorità la title track, con ospite Caneda, anticipa di almeno cinque o sei anni le tendenze del sound dell’hip hop, e a livello di liriche, in uno dei suoi classici più sottovalutati, Figlio di Dio, ci regala perle come “Il figlio di Dio / stava coi bugiardi e le puttane come faccio io”. Cosa si può chiedere di più a un album?
2012. “Sienzio” di Rancore e DJ Myke
Mentre anche i rapper meno noti si preparano a fare il grande salto verso il mainstream, e quindi inevitabilmente verso la semplificazione dei contenuti, una piccola etichetta indipendente, la Doner Music di Big Fish, ha il coraggio di pubblicare l’album di uno dei rapper più complessi e intellettuali del panorama italiano e di un dj e producer da competizione, che usa il giradischi come se fosse uno strumento musicale. Il risultato è un disco bellissimo e sorprendente, che dimostra che c’è ancora spazio per tutto e tutti. Geniale il video di Anzi… Siamo già arrabbiati, omaggio al coro dei pompieri di Bud Spencer e Terence Hill in Altrimenti ci arrabbiamo.
2013. “Danger” di Nitro
Il freestyle sta al rap come gli assoli di chitarra stanno al metal: non tutti li capiscono e li apprezzano, ma per i veri cultori sono goduria pura. E Nitro è il più metallaro di tutti i rapper italiani, anche nel look. Si è fatto strada a colpi di battle di freestyle, arrivando anche a un passo dalla vittoria di Mtv Spit ad appena diciannove anni. Lì lo nota la Machete Empire di Salmo e soci che, colpiti dalla sua attitudine, decidono di reclutarlo e produrre il suo primo album: ha appena vent’anni, ma mostra una maturità e una tecnica che lo trasformeranno in uno dei rapper più importanti e talentuosi del decennio. Passare mesi e anni a sputare rime improvvisate, insomma, non è una perdita di tempo, ma un investimento per il futuro.
2014. “ORCHIdee” di Ghemon
Era da anni che si vociferava che a Ghemon il rap puro e semplice cominciava a stare stretto. Da grande amante della musica soul e R&B, avrebbe voluto trovare un modo per integrarla in maniera organica nella sua produzione. Ci riesce nel 2014, grazie anche al prezioso contributo di una band creata ad hoc (alcuni dei Selton, Patrick Benifei, Rodrigo d’Erasmo, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini…) e di Tommaso Colliva (che ha lavorato con gente del calibro dei Muse, per intenderci): ORCHIdee è rivoluzionario eppure coerente, dimostrando con brani semplici, incisivi e perfetti come Adesso sono qui o Nessuno vale quanto te che i limiti, le etichette e i generi esistono solo nella nostra mente.
2015. “Beats & Hate” di Egreen
Antefatto: un rapper underground che apparentemente ha una notorietà ancora limitata lascia la sua precedente etichetta indipendente e decide di lanciare un crowdfunding per il suo nuovo album. Alcuni scettici pensano che abbia un po’ esagerato, con l’obbiettivo che si prepone: ha chiesto 20.000 euro, parecchi soldi per un album autoprodotto. In poche settimane, i fan lo inondano di affetto e di fondi: di euro, alla fine, ne riceverà circa 65.000. E Beats & Hate, l’album che ne deriverà, oltre a passare alla storia come una delle più belle favole a lieto fine dell’hip hop italiano, non deluderà i suoi moltissimi finanziatori.
2016. “Hellvisback” di Salmo
Salmo avrebbe meritato senz’altro di essere presente in questa classifica anche in uno a caso degli anni precedenti, perché la sua produzione è stata eccellente e costante in tutto il decennio. Senz’altro, però, Hellvisback è uno dei suoi progetti più riusciti e coerenti, in cui spazia e domina anche su ritmiche e atmosfere diverse dalle sue classiche (come in Il Messia, che richiama all’Inghilterra e alla Giamaica in egual misura). Notevolissima anche la produzione video legata al disco: L’Alba e soprattutto Mr. Thunder resteranno tra i videoclip più iconici e apprezzati del decennio.
2017. “Album” di Ghali
Già da mesi era uno dei dischi più attesi da una nuova generazione di giovanissimi fan: i singoli che lo anticipavano, soprattutto Ninna Nanna (poi inclusa anche nell’album) e Wily Wily, avevano creato aspettative enormi attorno a un rapper che sembrava perfettamente in grado di bilanciare la trap, un sottogenere del rap che da Atlanta cominciava a farsi strada anche in Italia sfondando dalla frontiera francese, e il pop sofisticato alla Stromae. Interamente prodotto da Charlie Charles, Album segna l’apice della carriera di Ghali e per ora è l’unico disco che abbia pubblicato: il prossimo è atteso per il 2020, pare.
2018. “Rockstar” di Sfera Ebbasta
Anche in questo caso, Sfera Ebbasta avrebbe potuto figurare in questa lista anche in uno degli anni precedenti perché, con la sua capacità di inventarsi un linguaggio e rinnovare completamente il sound di un genere musicale che ormai aveva i suoi standard e i suoi canoni, ha letteralmente ribaltato i paradigmi del rap italiano come pochi altri. Rockstar, però, è l’album dei record: disco più venduto dell’anno in Italia, featuring internazionali di caratura enorme come quello con Quavo dei Migos, entra nella global chart di Spotify (sezione viral) là dove nessun italiano aveva mai osato sperare, addirittura nella top 20. A questo punto, dire che “la trap è il nuovo pop” non è più un’iperbole, ma corrisponde a verità.
2019. “Persona” di Marracash
In un periodo storico in cui la superficialità e la vacuità dei contenuti sembravano regnare sovrane, torna lui, il vero King, e rimette le cose nella giusta prospettiva con un album ricco, denso, pieno. Soprattutto, con un album interamente incentrato sulla vulnerabilità dell’esperienza umana, sulla difficoltà di crescere ed evolversi e cercare di migliorarsi (come persona, come rapper, come artista). È la fine di un’epoca? La gente non vuole più saperne di canzoncine materialiste e sbruffone? Lo scopriremo nella prossima puntata, anzi, nella prossima decade. Nel frattempo, godiamoci in bellezza il finale di questa.