I 10 migliori album cantati in lingue inventate | Rolling Stone Italia
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I 10 migliori album cantati in lingue inventate

C’è chi usa la lingua degli angeli per comunicare con gli alieni, chi predilige alfabeti inventati nel Medioevo, chi scrive un vocabolario da zero. Ma che musica si ottiene quando si va oltre la parola conosciuta?

I 10 migliori album cantati in lingue inventate

I Sigur Rós

Foto press

Da Prisencolinensinainciusol a Tolkien, da Dario Fo a Hildegard Von Bingen, da Zamenhof, ideatore dell’esperanto, a Morgan: sono tante rette parallele, che nella maggior parte dei casi non si sono incontrate e non si incontreranno mai, che però hanno in comune un interesse attivo rispetto alle riflessioni sulla lingua. Che cosa significa comunicare? Qual è il rapporto tra parole e suoni? È possibile dire qualcosa senza dire niente? E dire niente dicendo qualcosa? E ancora, per tutta la sua storia la musica ha vissuto una sorta di rapporto di complicità con l’ultramondano: fin dai non-tempi mitologici di Orfeo a ogni latitudine e longitudine c’è stato qualcuno che ha pensato che la musica fosse il linguaggio con cui era possibile comunicare con gli dei, chiunque essi fossero. E quest’idea ancora oggi ha fascino, in certi casi più degli dei stessi.

Oppure c’è chi si chiede se possa esistere un linguaggio universale, per ricomporre l’antica frattura di Babele e chi si diletta a pensare a come racconteremo agli alieni che tipo di civiltà siamo. Infine, c’è chi, pour l’art, ha valutato necessario liberare la voce dal fardello del significato, per farne strumento tra gli strumenti. Riflettere sul linguaggio, del resto, è come riflettere sull’universo: pensi di sapere che cos’è finché non ti fai la domanda che scioglie l’abbraccio.

Quello che accomuna questi dieci dischi è il fatto che al loro interno le parole di senso compiuto (ma che vuol dire senso compiuto, a questo punto?) si contino sulle dita di una mano. Ognuno di questi artisti ci è arrivato percorrendo la propria strada e rispondendo alle proprie esigenze. Spoiler: uno di questi dischi ha appena vinto il Premio Tenco.

Mëkanïk Dëstruktïw Kommandöh

Magma

1973

Per anzianità è giusto cominciare da loro: la band francese fondata nel 1969 dal batterista Christian Vander è probabilmente la prima ad avere ottenuto un certo successo incidendo dischi in una lingua che non esisteva prima. M.D.K., riconosciuto come uno dei dischi progressive rock più influenti e meglio riusciti di sempre, è il terzo album della band, in cui Vander e compagni continuano (non smetteranno mai) a presentarsi come extraterrestri provenienti dal pianeta Kobaïa per diffondere sulla Terra i loro messaggi e le loro profezie nefaste sul futuro del nostro pianeta. Per farlo, Vander in persona ha creato una lingua artificiale, appunto il kobaiano, basata per lo più su suoni onomatopeici e su richiami di una dimensione ancestrale e atavica del linguaggi0 prendendo in presto fonemi germanici, protoslavi e romanzi.

Meronia

Circle

1994

Band finlandese che a metà degli anni ’90, nel buio della Scandinavia, ha preso la lezione del Kraut rock e l’ha interpretata e rivitalizzata a modo proprio, producendo dischi che meritano di essere ascoltati con molta attenzione. Uno di questi, nonché il primo, è Meronia, 75 minuti di goth/noise rock ossessivo cantato in una lingua che non esiste – il dibattito è in realtà aperto, perché le voci sono talmente rarefatte che a prescindere sarebbe difficile decifrarle, e non ci sono praticamente dichiarazioni a riguardo.

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Sigur Rós

2002

Si tratta del terzo disco dei Sigur Rós, nonché della loro straordinaria risposta alle aspettative altissime che il precedente Agaetys Byrjun aveva riversato sul quartetto islandese. Il motivo per cui ci interessa, in questo caso, è che è il primo lavoro interamente cantato in hopelandic o vonlenska, la lingua artificiale creata dal cantante Jón Þór Birgisson sostanzialmente con l’obiettivo di poter svincolare la voce dal suo ruolo in modo da utilizzarla come un qualsiasi altro strumento musicale. L’hopelandic aveva già fatto la sua comparsa in alcuni brani dei dischi precedenti, i quali però erano prevalentemente cantati in islandese. A differenza del kobaiano dei Magma, non siamo di fronte a una lingua vera e propria, nel senso che non c’è stato un lavoro di attribuzione di significati o grammatiche primordiali: si tratta più che altro di sillabe scelte per la loro musicalità.

Amarantine

Enya

2005

Enya, una delle artiste più importanti d’Irlanda, nonché instancabile sperimentatrice e ricercatrice musicale, ha spesso e volentieri collaborato con la paroliera e connazionale Roma Ryan. Durante le session di scrittura del sesto disco Amarantine, che verrà pubblicato nel 2005, Enya stava incidendo il brano Water Shows the Hidden Heart. Per il pezzo, le due avevano scritto dei testi in inglese, in irlandese e in latino (tutte e tre lingue utilizzate regolarmente nei lavori di Enya), ma nessuno di questi testi, secondo loro, si era dimostrato adatto a trasmettere efficacemente il messaggio della canzone. Roma Ryan ha scritto quindi l’espressione «Syoombraya»; Enya l’ha cantata e le è piaciuta. Allora non significava nulla, a posteriori sappiamo che era la prima espressione in lingua loxian, appunto una lingua inventata e in parte strutturata nei mesi successivi da Roma Ryan, e utilizzata in tre brani di Amarantine (è vero, non è il disco intero ma per Enya passateci questa libertà) e in diverse successive pubblicazioni dell’irlandese. Il nome dato alla lingua è preso da uno degli epiteti di Apollo. A riguardo la Ryan ha detto: «Apollo è un dio del sole, ma il suo nome lo abbiamo dato a coloro che viaggiano verso la luna. È una sottile ironia. Così è anche il linguaggio dei loxiani, le cui parole abbiamo intrecciato in queste canzoni, eppure quelle stesse parole appartengono a una futura migrazione che viaggia oltre Aldebaran».

Angherr Shisspa

Koenji Hyakkei

2005

Progetto guidato da Tatsuya Yoshida, già batterista dei Ruins e paladino giapponese dell’avant prog. Disco difficile da spiegare – e ascoltarlo senza calarsi nel contesto di riferimenti e scene può lasciare perplessi – ma con un po’ di pazienza ci si troverà di fronte a un artista fuori dal comune e a un’opera che saprà ripagare la fatica fatta per venirne a capo. In questo caso può essere d’aiuto sapere che Yoshida è un superfan dei Magma, di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo: da loro prende, oltre che svariate influenze musicali, anche l’idea di cantare in una lingua immaginaria. I testi di Yoshida non hanno significato in nessuno dei dischi del progetto Koenji Hyakkei, e la sua non-lingua si colloca in uno stato intermedio tra l’idioglossia onomatopeica e una lingua strutturata, anche se a uno stadio rudimentale, di cui comunque si sa poco o nulla.

The Silver Tree

Lisa Gerrard

2006

Si tratta di un disco del 2006 dell’australiana Lisa Gerrard, già nota per la sua attività con i Dead Can Dance e per la sua partecipazione alla colonna sonora del Gladiatore. Già in quest’ultima, la Gerrard aveva cantato in una lingua inventata la celbre Now We Are Free, su una composizione di Hans Zimmer, e in ogni caso le sue sperimentazioni su voci, lingue e non-lingue hanno sempre fatto parte delle sue produzioni. La scelta ricade su questo disco nello specifico perché in The Silver Tree la sperimentazione (non) linguistica si fa pressoché totale. A riguardo, la Gerrard ha spiegato di aver voluto utilizzare frammenti di varie lingue (praticamente impossibili da rintracciare) per creare un suono onirico ed extramondano. In varie occasioni ha spiegato le origini della sua predilezione per l’idioglossia, ovvero l’emissione di suoni inarticolati. Nella più completa di queste spiegazioni ha dichiarato di cantare «nella lingua del cuore», ovvero «una lingua inventata» che la Gerrard sperimenterebbe da quando ha 12 anni: «Da bambina, quando cantavo in questa lingua, credevo di parlare con Dio».

Zii

Dvar

2008

Duo (a un certo punto trio) russo di musica elettronica e darkwave, di cui si sa poco o nulla se non risicate informazioni che gli stessi membri hanno fatto misteriosamente filtrare negli anni, probabilmente con lo scopo – centrato – di creare un alone di leggenda attorno al progetto. I loro 12 album sono pressoché interamente cantati in lingua enochiana, conosciuta anche come “lingua degli angeli”: si tratta della lingua che l’alchimista e sedicente medium inglese del Cinquecento Edward Kelley sosteneva di parlare quando comunicava con gli angeli, lingua che è stata probabilmente modulata da Kelley a partire dalle suggestioni e dalle leggende che circolavano su un manoscritto tutt’ora non decifrato ritrovato in Inghilterra nel Quattrocento. Tutto questo perché nella narrativa del progetto russo Dvar sarebbe una sorta di alieno o divinità che utilizza i membri della band per comunicare i suoi messaggi all’umanità.

Savage Sinusoid

Igorrr

2017

Con questo disco si raggiunge un raro livello di delirio e follia. L’autore, il francese Igorrr, definisce il suo genere baroquecore, ma sembra quasi riduttivo. C’è il breakcore dei Venetian Snares, ci sono i clavicembali e le monodie barocche, c’è il black metal di Burzum, ci sono le sperimentazioni di musica concreta, c’è l’approccio collagistico che potrebbe per certi versi ricordare Frank Zappa, ci sono echi dubstep e trip hop, percussioni tribali, chitarre spagnole. Ma per fortuna, a noi in questo momento interessa quello che non c’è, ovvero una lingua di senso compiuto. Igorrr sembrerebbe non essersi mai espresso rispetto alla lingua dei suoi testi, ma assomiglia molto alla lingua oxxo xoox, di cui oggi ci si ricorda poco, ma che aveva avuto una moderata viralità tra la community metal di MySpace e Bandcamp quando l’omonima band, appunto gli oggi semi-dimenticati Oxxo Xoox, avevano pubblicato una specie di dizionario e di proto-grammatica della lingua inventata che usavano per i loro testi. Ma non c’è conferma del fatto che la lingua sia proprio questa. In ogni caso, come dice Igorrr: «Mï vï lï ä säë, cündü säë ü vü ü lï».

RKTKN #3

Raketkanon

2019

Terzo e forse migliore album della band belga di impronta noise, è un lavoro che sembra riassumere e sublimare il percorso iniziato sette anni prima con RKTKN #1. Siamo di fronte a un disco eclettico, pieno di influenze e vuoto di timori nell’uscire da qualsiasi tracciato del genere. Come i precedenti, è cantato interamente in idioglossia: evidentemente il trilinguismo belga (fiammingo, inglese e francese, parlati perfettamente da tutti i membri della band) non è sufficiente a veicolare il messaggio giusto. O forse è stato il punto di partenza di riflessioni sul rapporto tra parole, suoni e significati che hanno condotto a questa scelta.

Spira

Daniela Pes

2023

Miglior opera prima dell’ultimo Premio Tenco, Spira di Daniela Pes è uno dei dischi rivelazione dell’anno ed è scritto in una lingua inventata, fatta di frammenti galluresi, italiani e suoni puri. In ogni caso, priva di qualsiasi ruolo di veicolo concettuale nel senso linguistico del termine. A produrre il disco è stato Iosonouncane, e se la logica porterebbe a pensare a un’influenza di quest’ultimo, e in particolare del suo album Ira, sulla scelta di Daniela eès, i due hanno più volte spiegato che le bozze di Spira sono arrivate già scritte in questa non-lingua alle orecchie di Jacopo Incani prima che Ira venisse pubblicato. Il vero trigger di questa scelta è invece un altro, ed è stata la stessa Daniela Pes a spiegarcelo in un’intervista dello scorso aprile: «Prima di questo disco arrivavo da un lungo lavoro in cui ho musicato molte poesie di un poeta del Settecento del mio paese, Tempio Pausania, che utilizzava un dialetto gallurese arcaico. Ho imparato tanto da questa esperienza a livello di relazione tra suono, metrica e composizione. E poi non mi è più bastato servirmi di quelle parole per scrivere musica. Sono riuscita ad aggirare questo ostacolo scegliendo di abbandonare il concetto e la metrica così da essere libera nella composizione musicale di andare dove volevo».

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