È l’uomo dei miracoli, colui che è riuscito a ottenere fama e successo proponendo una sua personalissima versione del prog, genere notoriamente di nicchia da oltre quarant’anni. Prima di lui, dal 1977 a oggi, solo i Marillion negli anni ’80 e i Dream Theater nei ’90 (grazie alla fortunata intuizione dell’innesto prog+metal). Poi arriva questo ragazzo minuto e occhialuto, dai lunghi capelli lisci e dal fare introverso che canta e suona la chitarra. Sembra tutto tranne che una rockstar e non è dotato di tecnica particolarmente scoppiettante, ma ha un bagaglio artistico e una cultura musicale che non temono paragoni. Ecco, se c’è una cosa che ha aiutato Steven Wilson nella scalata al successo è proprio il suo sterminato sapere in ambito musicale, il suo essere onnivoro, aperto e curioso.
Nato nel 1967 fa in tempo ad assorbire il prog, il punk, la new wave, il pop, il metal, l’elettronica, il folk, l’indie, il gothic e tutto quello che c’è di interessante. Steven ama la musica a 360 gradi e possiede una sterminata collezione di dischi. Tutto questo sapere, questo amore per generi musicali disparati, senza paletti o chiusure, diventano la chiave del suo essere Steven Wilson.
Steven suona da quando ha 11 anni, si diletta con vari strumenti, si nasconde dietro sigle disparate, sperimenta. Dall’inizio dei ’90 comincia a trovare sempre più consensi con due progetti: i No-Man e i Porcupine Tree. Specie con questi ultimi, definiti dai più la versione attualizzata dei Pink Floyd. In realtà prendono dai colossi di Cambridge le atmosfere psichedeliche e dilatate, ma le traslano in un contesto moderno grazie a umori mutati tanto dall’elettronica quanto dal pop più nobile. L’esperimento riesce, i Porcupine Tree diventano gruppo di culto, un culto ampio che fa proseliti ovunque, riempie le sale da concerto e frutta contratti discografici sempre più importanti.
Nel frattempo Wilson non se ne sta con le mani in mano, mette su tutta una serie di progetti per dire la sua a riguardo a tutto ciò che gli piace in musica. Pian piano cresce l’idea che Steven sia una sorta di Leonardo Da Vinci, uno che si butta a esplorare tutto l’esplorabile che le dodici note consentono. Uno instancabile che tira fuori due, tre dischi l’anno, che ha una sua particolare visione di un sound il più possibile aperto a varie ispirazioni, che si spinge a espandere la pop song, che proietta nel futuro la musica. In tutto e per tutto Steven Wilson diventa la perfetta incarnazione della filosofia del progressive rock.
Per molti il suo problema è quello di essere così irrequieto da toccare tanti stili ma non focalizzarsi su nessuno. Ma questo è anche il suo bello; Steven è l’unico a sapere proporre un suono che mixa i Radiohead con i Genesis, i Tears for Fears con i Tool, Nick Drake con Prince, i Massive Attack con i Muse… gli esempi potrebbero continuare all’infinito. In tutto ciò sembra dirci che senza una piena cultura musicale, senza avere ascoltato centinaia e centinaia di dischi, la musica che uscirà fuori sarà monocromatica, a una direzione. In fin dei conti noiosa.
Messi da parte i Porcupine Tree ha cominciato a fare dischi a suo nome. Ed è lì che ha fatto veramente il botto; le venue sono diventate sempre più ampie, i dischi sono entrati in classifica, ormai è una star conclamata, sempre continuando a non sembrarlo. La sua fama è cresciuta inoltre nell’ambito della produzione e del remix/remaster di opere pubblicate decenni fa che grazie alla sua mano esperta sembrano rinascere a nuova vita. Negli ultimi anni è caduto in una sorta di ossessione: quella di proporre un pop multiforme che non sia il solito prodotto usa e getta. Ci sta riuscendo alla grande, forse ancora non ha azzeccato la canzone ma ha fatto comprendere al mondo che anche nel 2021 è possibile concepire popular music che non sia mero intrattenimento. Curioso sarà capire dove lo condurrà questo percorso.
In attesa di saperlo ecco una classifica dei suoi dieci lavori più riusciti, compito affatto facile visto che tra solisti e con vari progetti ha realizzato oltre 50 album. Un caleidoscopio musicale che lascia storditi per la quantità di possibilità messe in atto ma che non lascerà indifferenti chi dalla musica cerca sempre qualcosa in più: stimoli, inventiva, libertà.
(P.S. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento è appena stato pubblicato, per i tipi di Tsunami Edizioni, il volume biografico Steven Wilson: Deform to form a Star – Una vita in musica)
10. “Blackfield” Blackfield (2004)
Sempre in cerca di fruttuose collaborazioni, ecco che nel 2004 il nostro si allea con l’israeliano Aviv Geffen, polistrumentista assai conosciuto nel suo Paese d’origine. Da quel momento a oggi i Blackfield incidono sei album, con la presenza di Steven sempre più diradata a causa dei crescenti impegni. L’esordio resta il più valido, con tipiche canzoni alla Wilson: chitarra acustica, voci trasognate, ritmiche pulite che ogni tanto si infervorano. Nulla di trascendentale o che lasci un segno particolare, ma 50 minuti di nobilita pop che scivola liscia e rigenerante.
9. “I.E.M.” I.E.M. (2004)
Con il progetto I.E.M. (che sta per Incredible Expanding Mindfuck) Steven vi fa andare fuori di testa buttandosi su atmosfere kraut, psichedeliche e space in una commistione tra gli Ozric Tentacles, i Neu! e il cosmic jazz di Sun Ra. A tratti sembra di sentire i Porcupine Tree più avventurosi ma spesso si va oltre, in territori di pura sperimentazione. Wilson suona tutto, a parte la batteria, deliziandosi a delirare tra ossessioni motorik e momenti di pura introspezione mellotron + field recordings, ballate acide e astrattismi vari. Da assumere in stati alterati di coscienza.
8. “Loss” Bass Communion (2006)
Qui Steven è solo soletto alle prese con la più pura ambient music. Bass Communion ha inciso ben undici album nei quali il nostro si ritrova con la sua parte più profonda e malinconica, spesso tinta di umori oscuri. Loss è il disco più evocativo: due lunghe suite per pianoforte, aloni di tastiere, rumori, passi… Un generale clima tetro e claustrofobico, come a trovarsi nella casa dei fantasmi che non sanno di esserlo di The Others.
7. “Flowermouth” No-Man (1994)
Insieme ai Porcupine Tree, i No-Man sono il progetto più fortunato di Steven, almeno fino all’avvio della carriera solista. E anche il più antico, esistono infatti dal 1987, quando si chiamavano No Man Is an Island (Except the Isle of Man). Sono un duo, con Wilson e il cantante Tim Bowness, vero alter ego vocale di David Sylvian. Anche la musica segue coordinate wave-ambient care all’ex leader dei Japan, ma in Flowermouth si imbastardisce con umori mutati da certa dance e suoni cari al prog. L’iniziale Angel Gets Caught in the Beauty Trap sono nove minuti di meraviglia, con l’ospite Robert Fripp a suonare da par suo.
6. “In Absentia” Porcupine Tree (2002)
Porcupine Tree nasce come one man band, poi diventa un vero gruppo che addirittura ospita alle tastiere l’ex Japan Richard Barbieri (gli altri sono Chris Maitland alla batteria e Colin Edwin al basso). Nel tempo il successo cresce e il prog psichedelico iniziale vira verso il pop. Successivamente Wilson si innamora del sound di band come Opeth, Tool e altri artisti metal-progressivi. In Absentia risente di queste ispirazioni, con il fuoriclasse Gavin Harrison al posto di Maitland e la particolarità di proporre una perfetta fusione metal-prog-pop-psych. Il tutto per 12 canzoni destinate a lasciare il segno.
5. “Storm Corrosion” Storm Corrosion (2012)
Nel 2012 Wilson e il leader degli Opeth Mikael Åkerfeldt fanno comunella per un progetto congiunto. I due collaborano già da tempo, Wilson ha prodotto tre album della band svedese e Åkerfeldt ha cantato e suonato in Deadwing dei Porcupine Tree. Naturale a un certo punto la decisione di realizzare un album insieme, album che ci si aspetterebbe come un incrocio delle band capitanate dai due. Invece no, Storm Corrosion va oltre, contiene musica irreale e meditativa, obliqua come un film espressionista tedesco. Con alti riferimenti quali il folk rituale dei Comus, la mistica cosmica dei Popol Vuh, il minimalismo di Steve Reich, le allucinazioni dei Talk Talk. Storm Corrosion è tutto questo e anche molto di più.
4. “Together We’re Stranger” No-Man (2003)
I No-Man raggiungono la vetta con il quinto album nel quale lasciano da parte qualsiasi velleità commerciale e si immergono anima e corpo nel loro suono, quello tra ambient, prog da camera, morbida elettronica e struggimenti vari, complice la voce vellutata di Tim Bowness. Together We’re Stranger è soprattutto la triade di brani iniziali che formano una suite di oltre 28 minuti, manifesto di melodia, chitarre plananti e folate di synth in un mood sempre etereo e sospeso tra sogno e realtà.
3. “The Raven That Refused to Sing (And Other Stories)” Steven Wilson (2013)
Poi Steven inizia a pubblicare dischi a suo nome. Nel 2008 Inurgentes e nel 2010 Grace for Drowning fanno sperare benissimo. Ma è col terzo che fa il botto, da tutti i punti di vista. Oltre a lanciare definitivamente la sua carriera The Raven That Refused to Sing svela il lato sinfonico del nostro, mai così classicamente prog. Sì, ma con un nerbo, una tecnica da urlo e un’allure di modernità che lo rende qualcosa di antico e nuovo allo stesso tempo. Steven si contorna di super musicisti (Guthrie Govan, Nick Beggs e Marco Minnemann tra gli altri), co-produce addirittura con Alan Parsons e partorisce un capolavoro che acchiappa tutti: progger, metallari, indie… Un miracolo. Occhio poi alla title track, è la sua canzone più bella di sempre.
2. “The Sky Moves Sideways” Porcupine Tree (1995)
A metà anni ’90 i Porcupine Tree sono ancora indecisi tra essere una vera band e un progetto solitario di Wilson. In questo limbo esce The Sky Moves Sideways, nel quale l’afflato pinkfloydiano del nostro raggiunge lo stato dell’arte, specie nella lunghissima suite che titola l’album, spezzata in due tronconi come una moderna Shine On You Crazy Diamond. La creatività di Steven però non permette che The Sky Moves Sideways si trasformi in un album-clone, diciamo che offre la visione di ciò che i Pink sarebbero potuti diventare se avessero contaminato la propria musica con l’elettronica in voga nell’Inghilterra di metà anni ’90 (Transglobal Underground, Orb, ecc). Il tutto funziona a meraviglia e da questo punto in poi la tempesta-Wilson si fa inarrestabile.
1. “Hand. Cannot. Erase.” Steven Wilson (2015)
La sintesi del lavoro di Wilson, dagli inizi ai giorni nostri. Definito il The Wall della generazione Facebook, Hand. Cannot. Erase. è un concept alienante che prende spunto da una vicenda di cronaca avente come protagonista Joyce Carol Vincent, giovane donna con famiglia e amici che nessuno cerca a 2 anni dalla sua morte, avvenuta in casa. Un ritratto impietoso del menefreghismo della società moderna che si snoda in 11 tracce che sono un continuo saliscendi di emozioni, con in mezzo tutte le varianti musicali affrontate nel corso di oltre trent’anni di carriera. Per sviscerare tutte le influenze di cui il disco è rivestito ci vorrebbero pagine su pagine, per farla breve basta sapere che Hand. Cannot. Erase. è un punto fermo nella carriera di Steven Wilson proprio per il suo equilibrio, per la sua capacità di racchiudere un universo sonoro ampio e sfaccettato, per essere la summa della migliore musica del mondo.