Il metal, con tutti i suoi sottogeneri, è cambiato e ha affrontato le sue stranezze, come direbbe una delle principali ispirazioni dei Metallica, David Bowie. Nel 2019, gli Slipknot hanno arricchito il loro suono con psicodrammi ambient, gli Opeth hanno abbracciato la loro oscurità interiore, e i King Gizzard and the Lizard Wizard hanno finalmente pubblicato un vero LP metal. Altrove, i Tool hanno fatto uscire il loro quinto attesissimo album, e i Dream Theater sono tornati con un disco solido e apprezzato dai fan. Qui sotto i 10 dischi più belli dell’anno secondo la redazione di Rolling Stone USA.
10. “The Nothing” Korn
Grazie agli omaggi di band hardcore come Veins e Code Orange e alle apparizioni sui vestiti di giovani star come Lil Uzi Vert e Billie Eilish, il nu metal ha vissuto una sorta di nuova giovinezza. I Korn, pur essendo tra i progenitori del genere, non sono mai stati troppo a loro agio nella scena anni ’90 – ed è per questo che la loro musica è così amata da tante generazioni di disadattati. Nel debutto del 1994 il frontman Jonathan Davis si prendeva gioco della mascolinità americana, sfogando anni di traumi in canzoni suburban gothic. Il cantante attinge alla stessa catarsi per The Nothing, in cui racconta la perdita della madre e della moglie, avvenute nel giro di sei mesi. “God is making fun of me”, canta avvolto dall’electro metal di Idiosyncrasy, e nel brano di chiusura afferma: “Ho fallito”.
9. “In Cauda Venenum” Opeth
A cominciare dalla traccia d’apertura, Garden of Earthly Delights, c’è una tensione strisciante in tutto In Cauda Venenum – il miglior disco degli Opeth dai tempi di Ghost Reveries (2005) – che vi lascerà sempre in attesa di scoprire cosa verrà dopo. Il secondo brano in scaletta, Dignity, si apre con tastiere alla Deep Purple, uno strambo riff, e il frontman Mikael Åkerfeldt che canta di un “principe delle menzogne”. È musica oscura, creativa e inequivocabilmente Opeth. Nonostante la band abbia abbandonato le sue influenze death-metal a favore di un suono più vicino al prog-rock, la voce di Åkerfeldt è ancora ricca di sfumature rabbiose, anche quando sussurra. In Cauda Venenum è l’apoteosi di quello che sono gli Opeth adesso – non è un caso che la band abbia pubblicato il disco in lingua svedese. La copertina dell’album, con ombre nascoste dietro alle finestre di una vecchia villa, è la perfetta metafora della musica del gruppo: complessa, misteriosa e sempre diversa da quello che ci si potrebbe aspettare.
8. “Rammstein” Rammstein
La voce di Till Lindeman, il frontman dei Rammstein, ha una qualità unica: è grintosa, viscida e allo stesso tempo incredibilmente attraente. Forse è per il modo drammatico con cui pronuncia le parole, oppure è per l’intreccio con gli arrangiamenti, spesso oscuri e violenti, o ancora per il semplice fatto che canti in tedesco, e chissà quali frasi disgustose sono nascoste dietro la barriera linguistica, concetti pericolosi che cantati in inglese lo escluderebbero dalle radio americane. La sua voce è la vera star del primo album dei Rammstein in un decennio: qui canta del suo disgusto per la Germania (Deutschland), dei suoi ricordi della Guerra Fredda (Radio), e di tanto sesso (Sex e Puppe, che vi consigliamo di non tradurre). Lindemann ha anche pubblicato un notevole album solista. Ma Rammstein ci ricorda che è la band il contesto perfetto per la sua voce.
7. “Planetary Clairvoyance” Tomb Mold
Nello straordinario Manor of Infinite Forms (2018), la band di Toronto ha perfezionato l’arte del drop death metal. Esattamente come succede nell’EDM, uno dei piaceri più perversi del genere arriva quando una traccia cambia all’improvviso groove, una trovata di cui l’album era ricco. In Planetary Clairvoyance la band fa meno affidamento alla tecnica – ogni tanto spunta un break acustico, o un synth fantascientifico – ma il risultato è ancora più potente. Quando, per esempio, il ciclone blastbeat di Infinite Resurrection si trasforma in un break hardcore, il cambio vi friggerà il cervello. È questo mix tra rabbia e arrangiamenti intricati che fa spiccare Planetary Clairvoyance in un anno ricco di grandi dischi death-metal.
6. “Infest the Rats’ Nest” King Gizzard and the Lizard Wizard
Forse è tutta colpa del caldo australiano, ma non abbiamo dubbi che, dopo un decennio di flirt con l’heavy metal, il cantante-chitarrista Stu Mackenzie avesse bisogno di sfogarsi. È per questo che, per il loro 15esimo album in studio, i King Gizzard and the Lizard Wizard hanno scelto di dedicarsi esclusivamente all’headbanging. Ma quello che rende questo disco sorprendente è proprio quanto suoni autentico. Tutti si aspettavano che i King Gizzard avrebbero approcciato il genere con una certa ironia, invece il gruppo ha fatto l’opposto. Nelle canzoni di Infest the Rats’ Nest c’è di tutto: giri di basso alla Motörhead, riff in stile Metallica, e growl alla Lemmy su testi dedicati alla caccia ai dingo (Planet B) e al disprezzo per ricconi che colonizzano altri pianeti (Mars for the Rich). Ma nonostante tutti i trip cosmici – ci sono non una ma ben due canzoni dedicate a Venere –, questo è un disco grandioso proprio perché scritto da una band che si è abbandonata completamente ai bisogni più primitivi.
5. “Old Star” Darkthrone
25 anni fa, i Darkthrone erano all’epicentro dello shitstorm che ha travolto il black metal norvegese dei primi anni ’90. Nel 2019, il duo è celebrato come i grandi vecchi del genere, anche se il loro suono non ha molto in comune con quello della scena norvegese. Nel corso degli anni, i Darkthrone hanno cambiato molte forme, dal death metal high-tech alla monotonia lo-fi, costruendo una variante inclassificabile del metal che suona tanto cruda quanto elegante, antica ma avanzata. In Old Star, il seguito del lavoro iniziato due anni fa con l’eccellente Arctic Thunder, si sono concentrati sulla scrittura di mini-suite, che mescolano atmosfere drammatiche, riff ricchi di sfumature e il growl dolorante del chitarrista-cantante Nocturno Culto. Insieme, suonano come una band perfettamente a suo agio fuori dal tempo e da ogni moda. “Abbiamo registrato Arctic Thunder e Old Star in un vecchio rifugio nucleare in cui, negli anni ’80, facevamo le prove e registravamo demo”, ha detto il chitarrista a New Noise. “L’acustica è terribile, e andare in studio è come andare in guerra, ma è esattamente quello che volevamo”.
4. “Spiritual Instinct” Alcest
Per il sesto LP in studio, il gruppo blackgaze francese ha accolto nel suo sound un po’ di luce. “Ci sono due estremi che lottano dentro di me”, ha detto il cantante-chitarrista Neige nel podcast metal di Spotify. “Ho difetti, un lato oscuro… e anche uno spirituale. Devo convivere con entrambi e accettarli”. Lo straordinario crescendo di Protection tiene insieme l’incessante batteria di Winterhalter con il tremolo di Neige; e in Sapphire, il chitarrista accenna persino un riff post-punk. C’è anche spazio per l’artista norvegese Kathrine Shepard, meglio conosciuta come Sylvaine, che condivide una serenata con Neige nel mezzo del thrash di L’Île des Morts. La bellezza degli Alcest sta proprio nei contrasti: dietro a tutto quel rumore vive qualcosa di incandescente e sublime.
3. “Gastir — Ghosts Invited” Gaahls Wyrd
Ci sono tante cose che il mondo già conosce su Gaahl, l’inquietante cantante black metal norvegese, in passato frontman di Trelldom, Gorgoroth e God Seed. È apertamente gay, vegetariano, e fa anche il pittore. Ma per quanto sia stato rivelato tanto di lui, in qualche modo il cantante rimane una delle figure più enigmatiche del metal. Ed è proprio questo alone di mistero che fa di Gastir — Ghosts Invited, l’album con cui debutta la sua nuova band, i Gaahls Wyrd, un lavoro così affascinante. In mezzo ai riff spaccaossa, infatti, troviamo momenti di chitarra dark (Ek Erilar), testi sussurrati (From the Spear) sfumature à la Bowie (Ghosts Invited) o arrangiamenti dissonanti che sarebbero stati perfetti dentro una sinfonia di Stravinsky (Through the Past and Past). Un disco che sembra posseduto, da cui è impossibile non lasciarsi contagiare.
2. “Crux” Moon Tooth
Un album che per un minuto ricorda i Converge e John Mayer quello dopo? Portate pazienza. Il secondo disco dei Moon Tooth ricorda il lavoro di un alchimista, un intruglio di generi che poteva trasformarsi in un pasticcio ma che invece suona come un ibrido ingegnoso. In canzoni come Omega Days e Motionless in Sky, infatti, la band passa dalla furia prog-metal ad accenni di R&B, senza cambi drastici ma accompagnando l’ascoltatore senza che se ne accorga. Mai avremmo potuto immaginare che il canto quasi crooning da power ballad potesse fluire in momenti in cui la voce entra in beast-mode, ma nella title track di Crux i Moon Totth lo fanno sembrare la cosa più naturale del mondo. Era dai tempi dei primi Mars Volta che una band rock non riusciva a essere così avventurosa e allo stesso tempo convincente.
1. “We Are Not Your Kind” Slipknot
Cinque anni dopo l’omaggio al compianto bassista Paul Gray con .5: The Gray Chapter, gli Slipknot sono tornati con nuovi inni alla disperazione nel loro sesto LP. Una raccolta di canzoni per “combattere una generazione”, grida Corey Taylor in Birth of the Cruel, mentre con We Are Not Your Kind il suono degli Slipknot torna alla suo massima potenza. Il rock rap più rude si incrocia con melodie dark, momenti in cui Taylor canta la propria fragilità si contrappongono all’arroganza e alla derisione di Nero Forte o all’estinzione della razza umana raccontata sulla melodia accattivante di Critical Darling. “What is coming has begun”, avverte Taylor. “An ending I won’t live to see/We tell ourselves it can’t be hell if there’s no heaven”. “Le persone vogliono un cattivo, gli darò un fottuto cattivo”, aveva detto a maggio Taylor – ma, come accade nella maggior parte dei brani degli Slipknot, non esiste cattivo più inquietante di quello che vive in ognuno di noi.