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I 10 migliori album psichedelici americani

Follie cosmiche, lunghi trip, esplorazioni musicali, jam infinite, mantra apocalittici: ecco il meglio prodotto dall’America freak nella seconda metà degli anni ’60. Siete pronti a farvi un viaggio?

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Affrontando i 10 capisaldi della psichedelia britannica abbiamo tracciato quelle che sono le caratteristiche essenziali del genere sorto nella seconda metà degli anni ’60 dello scorso secolo. Li ricordiamo in poche battute: musica rock nella quale le strutture si fanno aperte e accolgono una costante sperimentazione sui suoni e un numero illimitato di influenze, dalla musica classica a quella indiana passando per il folk, il jazz e le avanguardie del Novecento. Canzoni nelle quali il primo obiettivo è espandere i confini della coscienza e favorire uno sballo che sia corporeo ma anche spirituale.

Detto ciò siamo qui ad affrontare la scuola psichedelica americana che non dimentica quasi mai le radici blues che il rock a stelle e strisce ha assorbito fin dalla nascita. Così come non dimentica di essere sempre e comunque avventurosa, a differenza di quella inglese più favolistica e spesso orientata verso il pop, vedi i primissimi Pink Floyd, Kaleidoscope, Zombies. Negli Stati Uniti non c’è limite all’avventura, lo scoprirete andando ad ascoltare i 10 dischi scelti, album nei quali si percorre lo spazio che va dal rumore puro alla canzone con in mezzo tutto lo scibile sonoro possibile, lavori che rappresentano la quintessenza della sperimentazione rock, nei quali non ci si accontenta di tirare giù un giro di accordi e una melodia, ma ci si spinge a costruire un vero laboratorio di possibilità. Possibilità che, ascoltando capirete, spesso sono così ampie da risultare infinite. Non semplici 33 giri quindi ma tavolozze multicolore nelle quali perdere le coordinate di tempo e spazio, smarrire corpo e anima tra suoni che sembrano scaturire direttamente da una sorta di centro della follia cosmica di lovecraftiana memoria.

10“Silver Apples”, Silver Apples (1968)

Nel 1967 i due sciamani Dan Taylor e Simeon Cox si uniscono per aprire la strada all’uso dei sintetizzatori nella musica rock con un mix assolutamente geniale. Questo è quello che si dice un album influente. Da qui l’elettronica comincia a prendere campo nel rock. Silver Apples anticipa l’ambient, il krautrock di Neu!, Can e Kraftwerk, lo space rock degli Hawkwind, l’indie degli anni ’90, l’industrial degli Einstürzende Neubauten, il mood di terroristi sonori come Suicide, addirittura certa techno. Il tutto reso in maniera genuinamente accessibile e accattivante. Un colosso.

9“The Parable of Arable Land”, Red Crayola (1967)

Un vero freak out che agevolerà uno sballo infinito, con dentro gli spettri di quelle che avrebbero potuto essere canzoni e invece si sono trasformate in sgangherate incursioni in qualcosa che sta tra il garage rock e il rumorismo più assordante. I Red Krayola (all’epoca Red Crayola, con la C, ndr) saranno fari nella notte per formazioni come i Gastr del Sol di Jim O’Rourke e David Grubbs, oltre a molti altri esponenti della scuola post rock americana dei ’90.

8“The Psychedelic Sounds of The 13th Floor Elevators”, The 13th Floor Elevators (1966)

Pubblicato agli albori della psichedelia The Psychedelic Sounds of The 13th Floor Elevators è il primo frutto della geniale follia di Roky Erickson che introduce, primo fra molti, l’utilizzo massiccio dei pedali di distorsione sulle chitarre per dare alla musica un suono duro, graffiante e sporco: quello che sarà definito garage e che rappresenterà l’influenza base del punk.

7“After Bathing at Baxter’s”, Jefferson Airplane (1967)

Con il loro secondo album i Jefferson Airplane si smarcano dai confini del formato canzone ed entrano in territori sconosciuti e sperimentali. After Bathing At Baxter’s è colmo di momenti dissonanti e atonali, jam estese e furiose sarabande chitarristiche. Ma non solo, c’è spazio per momenti folk lisergici, movimenti pianistici, testi a flusso di coscienza e mini suite come Won’t You Try/Saturday Afternoon con voci armonizzate di grande potenza. Grace Slick qui si fa sacerdotessa psichedelica anticipando i trip orgasmici di Renate Knaup dei krautocker Amon Düül II.

6“The Doors”, The Doors (1967)

Con il nome mutato da Le porte della percezione di Aldous Huxley, la band di Jim Morrison svela il futuro del rock in un disco straordinariamente vario nel quale trovano posto tanto cover di Willie Dixon e Bertolt Brecht quanto hit come Light My Fire. Ma l’apice arriva alla fine, quando prende vita il mantra apocalittico di The End, una della creazioni più stranianti e meravigliosamente assolute della storia del rock.

5“In-A-Gadda-Da-Vida”, Iron Butterlfy (1967)

In-A-Gadda-Da-Vida è reso famoso dalla title track, una jam galattica che si protrae lungo tutta la prima facciata in una vertigine spiraliforme sempre più intensa. Un viaggio infinito che sembra non mollare un attimo l’ascoltatore fino allo stordimento totale. Il retro invece è pop acido, orecchiabile, appiccicoso e trippy al punto giusto.

4“Fifth Dimension”, The Byrds (1966)

Il disco che anticipa lo shoegaze anni ’90, con canzoni che sono veri caleidoscopi nei quali perdere il lume della ragione. Chitarre che sovrastano le voci sempre trasognate, spesso modellate in dimensioni corali che contribuiscono allo spaesamento. E che canzoni poi: I See You, Eight Miles High, la title track, I Come and Stand at Every Door, capolavori assoluti scaturiti dalle penne di personaggi come Roger Mcguinn e David Crosby, qui in stato di grazia.

3“Electric Ladyland”, The Jimi Hendrix Experience (1968)

La luce più abbagliante di Jimi Hendrix, con i due comprimari dell’Experience che non ce la fanno a tenere il suo passo. Con le canzoni che non sono più canzoni, ma strutture aperte nelle quali infondere inventiva e sorprese a tutto campo, una su tutte la suite 1983… (A Merman I Should Turn To Be), un navigare magnifico in profonde acque cosmiche che poi saranno quelle dei Pink Floyd di Echoes. Qui Jimi è un tutt’uno con la sua musica, un connubio quasi metafisico che rappresenterà l’apice e la fine.

2“Live Dead”, Grateful Dead (1969)

Se avete voglia di farvi un lungo trip vagando tra nebulose sconosciute questo è il disco che fa per voi. Solo un brano a rappresentare il tutto: Dark Star, 25 minuti di goduria sulle ali della chitarra inebriante di Jerry Garcia, 25 minuti dopo i quali non sarete più gli stessi. Questo doppio album dal vivo trascende ogni dimensione e fa capire cosa siano stati i Dead in concerto: un sabba, un dolce immergersi nell’estatica densità della musica.

1“The United States of America”, The United States of America (1968)

Il primo disco dream pop della storia e molto di più. L’equilibrio pazzesco tra composizioni di una bellezza abbacinante e suoni che provengono dagli abissi dell’anima. Il leader Joe Byrd è un genio pazzo, uno che manovra strumenti non ancora inventati e butta giù melodie che non sono di questa Terra. La sua voce e i suoi oscuri marchingegni, il canto di Dorothy Moskowitz, brani come la soffice Cloud Song o gli incredibili The American Metaphysical Circus e The American Way of Love: dai Pink Floyd agli Stereolab e ai Broadcast, prima di tutti questi, una cascata di tutto ciò che di bello potrete sognare.

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