C’era una volta il rock: Elvis, Little Richard, Chuck Berry, i primi Stones, i primi Beatles. Musica forte, vigorosa, spaccatimpani, che si fa beffa delle generazioni precedenti e scardina le regole. Il rock è rivoluzione, sesso e libertà. Si idolatrano i suoi protagonisti, ci si strappa i capelli, si impazzisce letteralmente dietro l’idolo di turno. Il rock si balla e il ballo crea energia. Nel rock c’è ribellione, mani che battono, corpi che si agitano. Il rock è fisicità, un pugno nella faccia della società benpensante.
Poi arrivano gli acidi, l’LSD, scoperto per puro caso dal chimico svizzero Albert Hofmann nei Laboratori Sandoz di Basilea, nel 1938. Quando la sostanza arriva tra le mani di gente come il filosofo della controcultura Timothy Leary ecco che in breve si sparge la voce: l’acido lisergico non è solo una sostanza a uso clinico, ma addirittura un mezzo per l’espansione delle coscienze.
A metà degli anni ’60, nasce il movimento hippy: apertura della mente, pace, fratellanza, amore libero, abbattimento degli steccati borghesi. Per pura combinazione nello stesso periodo cominciano a essere messi in vendita strumenti musicali sempre più evoluti, soprattutto in ambito tastieristico: organi in grado di riprodurre suoni sempre più alieni e i primissimi sintetizzatori elettronici che addirittura danno voce alla corrente elettrica permettendo la sua manipolazione e trasformandola in note. Ecco poi spuntare diversi effetti per chitarra, il distorsore si fa sempre più potente, arrivano echi, delay, chorus, flanger. Questi effetti vengono poi applicati alle voci dei cantanti e alle batterie in studi di registrazione sempre più sofisticati che permettono sovraincisioni stratificate di suoni musicali ed extra-musicali. Tutto ciò si delinea come corrispettivo sonoro della rivoluzione dell’LSD (e della cannabis, dei funghi allucinogeni, della mescalina): una musica che grazie all’uso dei moderni ritrovati della tecnologia arriva direttamente al cervello di chi ascolta facendolo esplodere.
Ecco quindi nascere il rock psichedelico, termine derivato dalle parole greche ψυχή (psykhé, anima) e δῆλος (dêlos, chiaro, evidente), a uso e consumo di coloro ai quali non basta più la fisicità del rock, ma è allo spirito che guardano, al compimento di veri e propri viaggi a cavallo delle note che possano scardinare i segreti dell’esistenza, arrivino a espandere coscienza e conoscenza in modo da attuare la rivoluzione, non solo con la forza, ma anche con la consapevolezza.
La psichedelia trova terreno fertile negli Stati Uniti, dove ha modo di allargare i confini del classico retroterra rock-blues. È però in Inghilterra che lo sballo rock-mentale ha modo di trasformarsi in qualcosa di completamente nuovo. Con la sua musica popolare, le sue leggende e le tradizioni, l’Inghilterra sfornerà uno dopo l’altro artisti per i quali la psichedelia diventa pretesto per fondere insieme umori e sensazioni allo stesso tempo moderni e antichissimi, senza dimenticare di inserire cospicui profumi d’oriente. La musica psichedelica inglese va per la prima volta oltre il rock da cui prende la componente più energica e la fonde con un frastagliato retroterra culturale da Alice nel paese delle meraviglie in acido.
La psichedelia non espande quindi solo la coscienza degli ascoltatori, ma anche quella del rock stesso che si fa sempre più colto e visionario. Le canzoni diventano piccoli scrigni di dolce follia che dal vivo si allungano a dismisura grazie a improvvisazioni che calano il pubblico in un vero stato di trance. Nascono i primi light show, con i palchi inondati di luci colorate che seguono il ritmo della musica e ne enfatizzano i passaggi emozionali e ipnagogici. La psichedelia diventa un universo caleidoscopico nel quale tutti i sensi sono stimolati.
Se quindi siete pronti a iniziare il viaggio ecco per voi la classifica dei dieci dischi più mind blowing siano stati partoriti nel biennio d’oro della psichedelia (1967-68). Ma non ascoltateli semplicemente, tuffatevici dentro e usateli come viatico per la conoscenza di voi stessi e del vostro spirito, ne uscirete trasformati. Anche senza LSD.
10. “Tomorrow” Tomorrow (1968)
I Tomorrow sono capitanati dal cantante Keith West, con Steve Howe alla chitarra, destinato a miglior fortuna con gli Yes, e il folle percussionista John Twink Alder (da cercare assolutamente il suo Think Pink su etichetta Vertigo, 1970). L’unico album della band si muove tra i tardi Beatles e i primissimi Pink Floyd senza possederne la genialità ma offrendo un onesto esempio di pop psichedelico, con canzoni dotate di inaspettati cambi di registro, effetti inconsueti, momenti circensi (caratteristica di molta psichedelia inglese), clavicembali e sitar che vorticano impazziti. Il singolo My White Bicycle diventerà uno degli inni del movimento.
9. “S. F. Sorrow” The Pretty Things (1968)
Le vicende di Sebastian F. Sorrow, dalle speranze della gioventù alla disillusione della tarda età, passando per l’amore, la guerra e la follia. L’album S. F. Sorrow è conosciuto come prima opera rock della storia, con i vari personaggi interpretati dal cantante Phil May e dagli altri componenti della band (che vede tra le sue fila Twink, condiviso con i Tomorrow). La musica non è ricca di sfumature come in quelle che saranno le opere rock più celebrate e si muove tra 14 brevi brani tra i Beatles e i Kinks più rockeggianti. Da segnalare l’utilizzo di strumentazione inconsueta, come i tamburi tibetani e il dulcimer, e un parco uso del Mellotron a sottolineare i momenti più onirici della storia.
8. “Tangerine Dream” Kaleidoscope (1968)
I Kaleidoscope inglesi (ci sono anche quelli americani, assai più acidi) debuttano nel 1968 con un delizioso album di flower pop dalle atmosfere quasi vittoriane, profumato delle spezie orientali tanto care a George Harrison e compagnia. I brani di Tangerine Dream (che darà il nome a una delle più importanti formazioni tedesche della Kosmische Musik) sono melodici e sognanti come una zolletta di zucchero imbevuta di LSD, con canzoni capaci di entrare subito nel cuore e di stordire, su tutte Dive into Yesterday e la lunga The Sky Children.
7. “The Hangman’s Beautiful Daughter” The Incredible String Band (1968)
Qui nasce l’acid folk, con bardi stonati (in senso lisergico) che si perdono nelle oscure foreste di Gran Bretagna a inseguire ninfe armati di tutto il bendidio strumentistico: chitarra, gimbri, tin whistle, percussioni, flauto di pan, pianoforte, oud, mandolino, scacciapensieri, armonica, shanai, water harp, sitar, organo, dulcimer e clavicembalo. Ciò che ne esce fuori ha poco a che fare col rock in senso stretto, ma anche con il folk tradizionale. È una mistura del tutto nuova che fa sua la passione del rock, ma la trasla in ambito acustico creando una nuova forma di folk, aperto e stralunato, al confine tra Occidente e Oriente, misterioso e dionisiaco come un rituale druidico al chiaro di Luna.
6. “Odessey and Oracle” The Zombies (1968)
Apparentemente vale lo stesso discorso dei Kaleidoscope, pop zuccheroso e floreale, con effluvi acidi quel tanto che basta. La differenza la fanno le canzoni, che sono dei cazzo di capolavori, uno dietro l’altro. Ascoltate Care of Cell e, soprattutto, A Rose for Emily e ditemi se non provate una stretta al cuore. Le melodie terse e ficcanti di Rod Argent e compagnia, bagnate dai flutti sacri di un onnipresente Mellotron, sono perle di sconvolgente bellezza, tali da spaccare in due anche l’anima più gretta.
5. “The Thoughts of Emerlist Davjack” The Nice (1968)
Keith Emerson è stato definito da più parti il Jimi Hendrix delle tastiere. Con le esagerazioni degli ELP al di là da venire qui lo potrete sentire in tutta la sua passionale audacia a darci dentro con l’organo, trasformando lo strumento in un oggetto sessuale. The Thoughts of Emerlist Davjack (crasi dei nomi dei componenti) contiene otto canzoni nelle quali Emerson fa faville coadiuvato dalla chitarra acida di Davy O’List e da una sezione ritmica al cardiopalma. Se volete ballare c’è Flower King of Flies (che anticipa di molto certe divagazioni Oasis), se invece volete sballare dirigetevi sulla ripresa del Rondo di Dave Brubeck, vi manderà fuori di testa.
4. “In Search of the Lost Chord” The Moody Blues (1968)
Un album per il quale vale la pena di bruciare qualche incenso e che contribuirà non poco allo sviluppo di stili futuri, in primis il prog rock, ma anche certa world music e svariate sperimentazioni elettroniche. Reduci dal successo della super hit Night in White Satin, i Moody Blues non si affrettano a bissare con un singolo fotocopia ma si buttano su un concept sulla ricerca di sé (coadiuvata chiaramente dall’uso di determinate sostanze) fino alla rivelazione fornita dall’OM indiano. In Search of the Lost Chord è un viaggio denso di pop song perfette (Ride My See-Saw, Voices in the Sky) quanto di mini-suite (il trittico House of Four Doors part 1 / Legend of a Mind / House of Four Doors part 2) nelle quali affondare placidamente con un bel cannone in mano.
3. “The Soft Machine” The Soft Machine (1968)
Mike Ratledge, Kevin Ayers, Robert Wyatt. Tre personaggi destinati a passare alla storia della musica moderna. Specie l’ultimo che inizia la sua carriera proprio da qui, con un disco dal suono schizofrenico e lunare. Via la chitarra e spazio al fuzz organ di Ratledge, al basso (spesso distorto) di Ayers, alla voce in acido e alla batteria, persa in una selva forsennata di controtempi, di Wyatt. La parola psichedelia qui deve essere usata non solo in senso di espansione mentale, ma anche musicale: pop, rock, jazz, umori classici, atmosfere zappiane… Avete presente gli Winstons? Eccoli qui, cinquant’anni prima.
2. “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” The Beatles (1967)
Detto che l’inizio di qualsiasi viaggio non potrà che essere la Tomorrow Never Knows contenuta in Revolver (1966), ha senso definire Sgt Pepper’s un disco unicamente psichedelico quando qui dentro c’è l’intero universo musicale dei prossimi 100 anni? Sì e no. No perché la carne al fuoco è talmente tanta che le attitudini lisergiche rischiano di passare in secondo o terzo piano. Assolutamente sì, perché il bon bon all’acido di Lucy in the Sky with Diamonds, la girandola multicolore di Being for the Benefit of Mr Kite! e, soprattutto, la scatola cinese di A Day in The Life sono tra le opere più mentalmente deflagranti che si possa concepire. La musica di Paul, John, George e Ringo non è stata influenzata dall’acido, è essa stessa acido.
1. “The Piper at the Gates of Dawn” Pink Floyd (1967)
La vetta è tanto scontata quanto imprescindibile. Possibile pensare a una classifica degli album più importanti della psichedelia inglese senza piazzare al top Piper? Questo disco è l’essenza stessa della musica lisergica, lo è fin nei più oscuri recessi, nell’anima. Syd Barrett capisce perfettamente dove andare a parare quando compone una serie di canzoni evanescenti dall’animo morboso e perturbante, con ricordi d’infanzia, fantasmi, biciclette, gnomi, gatti diabolici… via via sempre più in alto, verso lo spazio interstellare. Con Roger Waters a dare i primi segni di pazzia (Take Up Thy Stethoscope and Walk) e il compianto Richard Wright a ricamare non un tessuto sonoro, ma un vero universo di colori e sensazioni. Per tornare ai Beatles: “turn off your mind, relax and float downstream”.