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I 10 migliori EP metal di sempre

I mini album sono stati importantissimi per il metal degli anni d’oro: costavano poco, avevano fascino, permettevano di sperimentare. L’autore del libro ‘I 100 inossidabili EP metal’ racconta i più belli

Foto: Fryderyk Gabowicz/Picture Alliance via Getty Images

Gli extended play (EP), o mini album che dir si voglia, hanno avuto un’importanza enorme nell’universo heavy metal degli anni d’oro, quelli che vanno dal 1980 alla prima metà degli anni ’90, un periodo che ha visto la musica pesante crescere esponenzialmente e costantemente, sia a livello di qualità musicale che come platea di ascoltatori coinvolti. La diffusione di questo formato ha infatti coperto il quindicennio durante il quale sono nate band diventate dei veri e propri giganti (Iron Maiden, Metallica, Slayer, ecc), hanno visto la luce alcuni dei generi metal più importanti (speed/power, thrash, death) e, cosa fondamentale, i dischi pubblicati erano spesso di altissima caratura.

Gli EP davano l’opportunità ai musicisti di immettere sul mercato nuova musica, senza però dover sborsare le alte cifre richieste per la registrazione di un intero long playing, visto che i pezzi contenuti nel mini erano dai tre a un massimo di sei, e comunque con un minutaggio totale limitato. E questo a tutto vantaggio sia di nuovi e misconosciuti artisti con budget risicati che per le case di produzione, che hanno comunque occhi di riguardo al bilancio prima ancora che all’artista.

L’avvento su larga scala del compact disc, che dai primi anni ’90 ha scavalcato il vinile in termini di vendite, e poi l’era del file sharing hanno dato un colpo quasi mortale agli EP. Il formato è andato pian piano scomparendo; pochi artisti hanno continuato a sfruttarlo, ma stampandolo direttamente in CD, facendo perdere l’aura romantica che il vinile aveva e ha tuttora. Per non parlare del valore musicale e della qualità media della musica proposta negli ultimi anni (parlo sempre di quanto prodotto in EP), che spesso non può competere con quanto registrato negli anni gloriosi del formato – questa è, però, un’opinione del tutto personale.

Ho pensato che fosse giunto il momento di tributare il formato EP raggruppando nel libro I 100 inossidabili EP metal titoli di assoluto prestigio e valore. Opere prodotte da band, anche underground, negli anni del loro massimo splendore creativo e furore musicale. Tutti gli EP trattati nel libro meriterebbero una breve presentazione, ma volendo fare una lista di quelli che, a mio gusto personale, reputo tra i migliori e che rappresentano anche molto bene il formato mini album (racchiudendo, in poche canzoni e storiche copertine, grande musica e la nascita di carriere durevoli), quelli elencati di seguito sono degli ottimi esempi da non perdere.

10. “Deliver Us” Warlord (1983)

I fondamentali Warlord hanno avuto una carriera a dir poco travagliata e incostante, ma con l’EP d’esordio hanno marchiato a fuoco e consacrato l’epic metal, dandogli nuova linfa e rinnovata ispirazione dopo la genesi avvenuta anni prima con la pubblicazione del grande album Rising dei Rainbow. La grandezza del loro epic metal va ricercata nell’assoluta originalità. È distante dalla pomposità (e megalomania) dei Manowar, priva del persistente alone oscuro degli Omen o dello sfarzo magniloquente dei Manilla Road. Quello dei Warlord è heavy metal epico pregno di romanticismo, melodia decadente e una giusta dose di nobiltà medievale. Nascosti dietro suggestivi pseudonimi, i californiani realizzarono sei canzoni, tutte di livello sublime e pubblicate nel 1983 grazie alla Metal Blade Records del guru Brian Slagel.

9. “Ratt” Ratt (1983)

L’EP di esordio dei Ratt è un campione di vendite, caso davvero unico visto che non si tratta di un LP ed è, per di più, l’esordio discografico della band di Stephen Pearcy. La lunga gavetta della band culmina nel 1983 con gli arrivi in formazione del chitarrista Warren DeMartini, di Robbin Crosby alla seconda chitarra, di Juan Croucier al basso e Bobby Blotzer alla batteria, e a luglio dello stesso anno i Ratt realizzano il mini omonimo. Alla copertina, tanto semplice quanto raccapricciante e d’effetto, presta le gambe la super modella Tawny Kitaen, allora compagna di Crosby e in seguito moglie di David Coverdale. Le prime tracce ci mostrano il lato veloce e tosto dei Ratt, caratterizzate da riff rigorosi ed efficacissimi, un solido lavoro della sezione ritmica e la singolare voce di Pearcy. You Think You’re Tough diventerà una super hit. Tell the World è una perfetta canzone street metal che rimanda alla Los Angeles anni ’80, mentre Back for More è una splendida semi-ballad. Non manca la cover, in questo caso Walkin’ the Dog di Rufus Thomas, eseguita dai Ratt in maniera decisamente più pesante. Tra il 1984 e il 1985 i Ratt domineranno la scena street/glam statunitense, bissando il successo del mini omonimo con gli album Out of the Cellar e Invasion of Your Privacy.

8. “Helloween” Helloween (1985)

Con le cinque canzoni contenute nel mini omonimo del 1985, quattro giovanissimi musicisti di Amburgo lanciarono e modellarono il power/speed metal con classe e originalità. Kai Hansen & co. mescolarono le galoppate degli Iron Maiden con il poderoso heavy metal dei Judas Priest, con uno stupefacente gusto melodico e grandi abilità negli arrangiamenti. I suoni, in questo esordio, non sono quelli “aperti”, luminosi e raffinati che sentiremo in Keeper of the Seven Keys – Part I e Keeper of the Seven Keys – Part II: trattando di guerra e omicidi, le tracce hanno un alone oscuro e irato. L’impronta della band, specialmente nelle ritmiche, è comunque evidente e la voce di Hansen, anche se con alcuni limiti, si adatta alle composizioni in modo sorprendente, come quando si lancia nei falsetti. Ascoltate Victim of Fate per farvi un’idea delle loro canzoni: l’attacco di chitarra è potentissimo, accompagnato dalla poderosa e sempre inarrestabile batteria. Nella parte centrale la canzone rallenta lasciando spazio alla roca e cattiva voce di Hansen in una sezione dai toni oscuri, per poi riesplodere con lo straordinario riff.

7. “Mercyful Fate” Mercyful Fate (1982)

L’omonimo mini d’esordio dei danesi Mercyful Fate, grazie alla perfetta fusione tra musica ottimamente arrangiata ed eseguita, alla singolare voce e teatralità di King Diamond e a tematiche dichiaratamente occulte e sataniste, fu un vero shock nel panorama heavy dei primi anni ’80. La musica spostò verso l’alto l’asticella di quel tipo di metal generato dai suoni oscuri dei Black Sabbath mescolati con la carica heavy di Iron Maiden, Judas Priest e Angel Witch. L’EP, con un oscuro, provocatorio e un po’ elementare disegno in copertina, è realizzato con un tornado di cambi di ritmo, riff di chitarra e assoli, dove però le molteplici sezioni delle tracce si amalgamano senza risultare scollegate. La scuola Judas Priest e Iron Maiden è esaltata all’ennesima potenza e ammantata da un’aura assolutamente maligna, per un heavy metal ossianico e satanico come non mai. Il cantante King Diamond si sfoga nel suo personalissimo e funereo falsetto, mentre arrangiamenti heavy/speed, tetri mid tempo e malevole melodie rendono le composizioni dei Mercyful Fate uniche e inimitabili.

6. “Haunting the Chapel” Slayer (1984)

I giganti del thrash metal Slayer sono tra i più influenti creatori di un suono e un modo di comporre che migliaia di band hanno cercato di eguagliare o superare (in termini di cattiveria e velocità), ma che soltanto pochi sono riusciti ad avvicinare e nessuno, in termini complessivi, a scavalcare. Nato nel 1981 grazie all’incontro tra i chitarristi Kerry King e Jeff Hanneman, il gruppo travolge il mercato discografico nel 1983 con l’ottimo Show No Mercy, ottimamente scritto e arrangiato, ma ancora palesemente debitore della musica di Iron Maiden e Judas Priest. La svolta però è dietro l’angolo. Infatti, pochi mesi più tardi gli Slayer realizzano il mini Haunting the Chapel, un clamoroso passo avanti rispetto a quanto già composto. Con sole tre canzoni, i musicisti suggellano il loro stile. Le chitarre vengono ribassate di mezzo tono, la velocità aumenta e la struttura dei pezzi si evolve in quello che sarà l’inconfondibile stile della band: stratificazione delle parti, accelerazioni e ripartenze, assoli atonali e isterici. Chemical Warfare è emblematica in tal senso, diventando fin da subito un cavallo di battaglia. Con l’album Hell Awaits, realizzato dopo l’EP, gli Slayer marchieranno ulteriormente l’universo metal estremo.

5. “Live ?!★@ Like a Suicide” Guns N’ Roses (1986)

I Guns N’ Roses sono stati i dominatori della scena heavy/rock dalla fine degli anni ’80 fino ai primi quattro anni del decennio successivo. Se vogliamo parlare di numeri (presenze ai concerti, vendite di dischi, esposizione mediatica ecc.), sono stati la più importante band di quel periodo. A noi però interessa la musica e i cinque teppisti del Sunset Strip sono stati dei compositori sopraffini, mescolando al meglio il rock di Rolling Stones e Aerosmith con il punk, quello che va dai New York Dolls fino ai Sex Pistols, condendo il tutto con le sonorità del primo Alice Cooper e degli Hanoi Rocks. Live ?!★@ Like a Suicide è la loro prima prova discografica ed è un ottimo esempio di cosa fosse e a cosa servisse un EP. Il disco, infatti, fu pubblicato da un’etichetta fittizia (Uzi Suicide Record Co.), creata e voluta di proposito dalla Geffen per sondare il mercato ed evitare di “bruciarsi” prima di lanciare ufficialmente il gruppo sotto il suo marchio. Anche i soldi messi a disposizione non furono molti, tanto è vero che il mini è un falso live. Quello che conta è la musica, due composizioni inedite e due cover, di Rose Tattoo e degli Aerosmith: i Guns dimostrarono fin da subito che lo scettro del rock più verace, laido e irriverente lo avrebbero preso loro.

4. “Queensrÿche” Queensrÿche (1983)

Mini album epocale, realizzato da giovani musicisti di Seattle destinati a lasciare un segno indelebile nel mondo heavy grazie a dischi straordinari, su tutti il capolavoro Operation: Mindcrime del 1988. Nati agli albori degli anni ’80 con il nome Joker, in seguito ad alcune (fisiologiche) vicissitudini di formazione, nel 1982 i rinominati Queensrÿche realizzarono il loro sogno, ovvero la registrazione di un vinile, in questo caso un EP omonimo, grazie a Kim e Diana Harris, proprietari del negozio di dischi Easy Street Records. Nel mini il potenziale del gruppo è subito evidente, nonostante le chiare influenze dei colossi britannici Judas Priest e Iron Maiden, in particolar modo nelle prime tre tracce. A volare alta è la voce di Geoff Tate: epocale l’acuto della canzone di apertura Queen of the Reich, granitico heavy metal con sfumature power, dove è inconfutabile la lezione degli Iron Maiden. Tutte le tracce sono arrangiate con maestria, ricche di pathos, toni oscuri e drammatici, spesso ammantate da un senso di teatralità latente.

3. “Morbid Tales” Celtic Frost (1984)

I Celtic Frost sono tra i pionieri della prima ondata di black metal, quello nato nella prima metà degli anni ’80, ma musicalmente differente dal black metal scandinavo che sconvolgerà la scena negli anni ’90. Curiosamente, la band nasce in Svizzera. Sciolti gli Hellhammer, Tom G. “Warrior” Fischer e Martin E. Ain, reclutano come batterista Steve Priestly e incidono il mini album Morbid Tales. L’amore dei Celtic Frost per Venom, Motörhead, Black Sabbath, Angel Witch è evidente nella nuova musica, eseguita in modo ruvido, sporco e molto veloce e ammantata da tematiche e iconografia oscura. Nella nuova band i musicisti, però, elevano il tutto a uno step successivo rispetto a quanto fatto con gli Hellhammer (praticamente la prima incarnazione dei Celtic Frost), palesando una maturità che continuerà a crescere di album in album, raggiungendo l’apice nell’avanguardistico (in tutti i sensi) Into the Pandemonium del 1987.

2. “The $5.98 EP – Garage Days Re-Revisited” Metallica (1987)

Mini album spartiacque, nonché campione di vendite (tanto per cambiare) per i colossi Metallica. Il disco chiuse la prima parte della loro folgorante carriera e fu da viatico per un ancor più travolgente e mastodontico successo. Ma, soprattutto, rappresentò la “rinascita” della band dopo un grave lutto. Reduci dalla perdita del talentuoso bassista Cliff Burton, morto quasi un anno prima in Svezia in un incidente stradale dalle dinamiche mai del tutto chiarite, i tre membri superstiti, sconvolti e decisi a terminare l’avventura della band, furono incoraggiati dagli stessi familiari di Burton a non mollare, perché Cliff non avrebbe voluto e accettato una simile scelta. Arruolato Jason Newsted, strappato ai poderosi Flotsam and Jetsam, i quattro tornarono sul mercato nel 1987 con un EP contenente esclusivamente cover. Fonte d’ispirazione alcune delle loro band preferite, in questo caso Holocaust, Misfits, Killing Joke, Budgie e Diamond Head. Il gruppo si dimostra fin da subito ben amalgamato, la produzione è robusta e cazzuta, l’esecuzione grintosa e massiccia. La copertina ritrae i musicisti, in uno scatto fatto con un obiettivo fisheye, in un bagno e armati di strumenti, ma vestiti completamente di nero, in omaggio all’amico scomparso.

1. “Maiden Japan” Iron Maiden (1981)

Dopo una lunga gavetta iniziata nel 1975, e in seguito a continui rimescolamenti della formazione, all’inizio degli anni ’80, Steve Harris e i suoi Iron Maiden travolsero l’ambiente musicale heavy metal, stravolgendo quelle che erano le regole musicali codificate dall’hard rock di fine anni ’60 e dall’heavy metal del decennio successivo. La rivoluzione era iniziata con i Judas Priest, ma grazie agli Iron Maiden le armonizzazioni, nei riff come nei fraseggi, le chitarre gemelle e le geometrie chitarristiche si distaccarono una volta per tutte dai classici giri blues triti e ritriti dell’hard rock, spostandosi verso giri armonicamente più complessi. Due album stratosferici a distanza di un anno l’uno dall’altro (Iron Maiden e Killers) diedero nuova linfa e maturità al genere, mettendo gli Iron Maiden sul podio più alto della New Wave Of British Heavy Metal. Il mini Maiden Japan chiuse l’avventura nella band del cantante Paul Di’Anno, scaricato per la sua inaffidabilità e i suoi eccessi, ma comunque autore di una prestazione vocale eccellente, con il suo timbro ruvido ma al contempo melodico e ricco di pathos. Quattro grandi tracce, un’esecuzione al fulmicotone e una copertina che ha fatto epoca chiudono la primissima parte della carriera degli Iron Maiden prima dell’arrivo di Bruce Dickinson.

Antonio Zuccaro è l’autore di I 100 inossidabili EP metal, libro edito da Tsunami.

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