Ok, libri, articoli e retrospettive storiche concordano nell’assegnare al 1971 il titolo di anno d’oro del rock. Ma non è che l’aura magica di quei dodici, fatidici mesi sia scomparsa nel momento in cui al muro si appendeva un nuovo calendario: cinquant’anni fa, nel 1972, la musica visse una stagione altrettanto ricca, vivace, tumultuosa, ribollente di idee e di energia.
Qualche pezzo grosso (Dylan, Led Zeppelin, Who: Pete Townshend ne approfittò per pubblicare Who Came First) saltava l’appuntamento nei negozi mentre uscivano sostanzialmente di scena, con dischi live o incerte prove di studio, i Velvet Underground, i Jefferson Airplane e i Creedence Clearwater Revival. Intanto, sei anni dopo l’ultimo tour dei Beatles, Paul McCartney tornava a esibirsi dal vivo con una nuova band, i Wings, creando scompiglio nel Regno Unito con un singolo, Give Ireland Back to the Irish, bandito dalla BBC per le sue implicazioni politiche, mentre John Lennon litigava con l’ufficio immigrazione degli Stati Uniti sfogando la sua rabbia nel doppio Some Time in New York City e i Pink Floyd, presenti sul mercato con l’interlocutoria colonna sonora Obscured by Clouds, rodavano in giro per il mondo il disco con cui avrebbero sbancato l’anno successivo, The Dark Side of the Moon.
Lo si poteva ascoltare in anteprima, sia pure come work in progress, grazie ai bootleg che circolavano nel mercato sotterraneo (e che per i pirati musicali erano diventati fonte di redditi sostanziosi: quello che documentava la data londinese del 20 febbraio ’72, Best of Tour ’72: Live At The Rainbow Theatre, anticipando di un anno e un mese l’album ufficiale, vendette 120 mila copie), mentre anche i dischi dal vivo pubblicati dalle case discografiche ufficiali, meglio se doppi, diventavano una tappa obbligatoria nel percorso artistico delle band di successo (imprescindibili Eat a Peach della Allman Brothers Band, con pezzi incisi anche in studio, e Made in Japan dei Deep Purple).
In Italia e in Europa dominava il progressive rock di Emerson Lake & Palmer, Yes, Genesis e Gentle Giant, in America si affermava una nuova scuola cantautorale con Paul Simon (al debutto da solista) e l’esordiente Jackson Browne, autore di successo anche per altri (sua la hit Take It Easy inclusa nell’LP di debutto degli Eagles), Joni Mitchell costruiva con For the Roses un ponte tra l’introspezione di Blue e il pop-jazz raffinato di Court and Spark mentre a San Francisco Jefferson e Grateful Dead si scomponevano in particelle dando vita a progetti paralleli e a eccellenti dischi solisti (Garcia di Jerry Garcia, Ace di Bob Weir, Burgers degli Hot Tuna). Germogliavano nel frattempo i semi di quella roots music che oggi si chiamerebbe Americana, tra reinvenzioni surreali (i Little Feat di Sailin’ Shoes) e riproposizioni più o meno filologiche (Into the Purple Valley di Ry Cooder, Will the Circle Be Unbroken per cui la Nitty Gritty Dirt Band convocò l’establishment del country e del bluegrass).
In Inghilterra, intanto, luccicavano i lustrini del glam (il Bowie di Ziggy Stardust, All the Young Dudes dei Mott The Hoople, The Slider dei T. Rex, il debutto dei Roxy Music), Rod Stewart (con Never a Dull Moment) e Cat Stevens (con Catch Bull at Four) davano l’assalto alle classifiche, i Family realizzavano con Bandstand una delle loro opere migliori e gli Steeleye Span finivano in Top 20 con Gaudete, inno sacro in latino e a cappella contenuto nell’album Below the Salt, mentre Sandy Denny cercava inutilmente con Sandy il salto nel mainstream e Richard Thompson, lasciati i Fairport Convention, debuttava da solista con l’eccentrico Henry the Human Fly.
La corazzata hard rock guidata da Deep Purple, Alice Cooper (School’s Out), Black Sabbath (Vol. 4), Wishbone Ash (Argus) e Uriah Heep (ben due album, Demons and Wizards e The Magician’s Birthday, virati in chiave fantasy) conquistava un seguito di massa sempre più numeroso; con Curtis Mayfield e Stevie Wonder, Al Green e gli Staple Singers di Be Altitude: Respect Yourself (omaggio a Martin Luther King e all’orgoglio nero), Still Bill di Bill Withers (il disco di Use Me e Lean on Me), What Colour Is Love di Terry Callier e The World Is a Ghetto dei War la black music continuava ad allargare confini e vocabolario, e dalla fusion elettrica di Miles Davis nasceva il jazz rock avventuroso dei suoi discepoli, Weather Report (il loro secondo album, I Sing the Body Electric, resta un picco del loro catalogo) e Return to Forever, al debutto sotto la guida di Chick Corea.
Il termine kosmische musik coniato dal giornalista e discografico tedesco Rolf-Ulrich Kaiser diventava un lasciapassare internazionale per i dischi dei Can (Ege Bamyasi) e degli Amon Düül II (due album, nel ’72: Carnival in Babylon e Wolf City), per i Tangerine Dream di Zeit e per i Popol Vuh di In den Gärten Pharaos, per i Faust e per gli esordienti Neu!, accolti a braccia aperte quanto i prog rocker olandesi Focus (numero 6 nelle chart inglesi con il doppio Focus 3, molto popolare anche in Italia) da un pubblico onnivoro e aperto di mente che grazie alla colonna sonora di The Harder They Come prestava orecchio anche alla musica giamaicana.
Country e fusion, West Coast e rock duro, kraut rock e canzone d’autore, pezzi radiofonici e suite da 20 minuti: c’era spazio per tutto, nella corsa a una musica che esprimeva un gap generazionale e che non accettava più di essere considerata “leggera”. Nel 1972 il rock era maturo, consapevole, coraggioso, sfacciato, poliedrico: non capendoci nulla, come dirà scherzosamente in una famosa intervista Frank Zappa (due eccellenti album di studio, Waka/Jawaka e The Grand Wazoo, e un live pubblicati in quei dodici mesi), i boss delle major discografiche con il doppiopetto e il sigaro in bocca pubblicavano di tutto, spalancando il portafoglio nella speranza di imbroccare il cavallo vincente. Cosicché i negozi erano inondati da dischi di valore e diversissimi tra loro: i 20 che vi proponiamo qui in ordine cronologico di pubblicazione sono la punta di un iceberg imponente e dai contorni frastagliati.
“Harvest” Neil Young (febbraio 1972)
David Crosby, Graham Nash, Stephen Stills e Neil Young sono troppo ambiziosi, egocentrici e indipendenti per restare a lungo insieme. Così, due anni dopo Déjà Vu, prendono strade separate: i primi due confezionano in coppia un omonimo album delicato e intimista, Stills crea un’intrigante miscela di rock, country e musica latina con il doppio Manassas mentre Young sforna il disco che gli cambierà la vita: una raccolta di canzoni rustiche e meditative che catturano subito l’orecchio e l’immaginazione, passo pigro e indolente con quella malinconia di fondo che è un tratto caratteristico del canadese. Pedal steel, banjo, chitarre prevalentemente acustiche e pianoforte, talvolta incorniciati dalle voci dei tre amici/nemici e dagli arrangiamenti orchestrali di Jack Nitzsche (già braccio destro di Phil Spector e in seguito artefice di colonne sonore di grande successo), colorano paesaggi spaziosi e bucolici, mentre i testi riflettono l’intenso rapporto amoroso tra Neil e l’attrice Carrie Snodgress (madre di suo figlio Zeke). Registrata dal vivo, The Needle and the Damage Done è una delle prime canzoni a prendere di petto il tema tragico delle morti per overdose, ma sono soprattutto i due singoli Old Man e Heart of Gold a spingere Harvest verso il traguardo di disco più venduto dell’anno negli Stati Uniti, catapultando Young, suo malgrado, nel “middle of the road”.
“Something/Anything?” Todd Rundgren (febbraio 1972)
Nel 1971 Todd Rundgren si era fatto un nome producendo i Badfinger per la Apple dei Beatles, l’anno successivo il suo manager Albert Grossman (lo stesso di Dylan) è convinto che possa diventare un nuovo Elvis e gli dà carta bianca per un progetto apparentemente folle: un doppio album in cui, per tre quarti, fa tutto da solo sovraincidendo voci e strumenti, mentre solo la quarta facciata è suonata dal vivo in studio da un folto gruppo di musicisti. Ogni lato dell’LP ha un tema di fondo: il primo raccoglie «un bouquet di modern pop orecchiabile» e il secondo pezzi più cerebrali, il terzo lascia spazio a brani più heavy e chitarristici e il quarto è occupato da una “pop operetta” che narra le disavventure discografiche e amorose di una aspirante rock star. Dentro c’è di tutto: il power pop di It Wouldn’t Have Made Any Difference, una Wolfman Jack che celebra un celebre disc jockey facendo il verso a Dancing in the Street di Martha & the Vandellas, un hard rock roccioso come Black Mariah, armonie vocali alla Beach Boys, reminiscenze di Broadway, una dedica a Patti Smith, una bizzarra spiegazione parlata dei suoni indesiderati che si generano in studio di registrazione e soprattutto due formidabili singoli, I Saw the Light (modellata sullo stile di Carole King) e Hello, It’s Me, ripresa dal repertorio della sua band precedente (i Nazz) ma qui accelerata e irrobustita.
“Pink Moon” Nick Drake (febbraio 1972)
Nella sua recente autobiografia Beeswing il compagno di etichetta Richard Thompson ricorda il turbamento e il disagio provati al primo ascolto dell’ultimo album di Nick Drake («suonava come una richiesta di aiuto, la voce di un uomo sull’orlo della sanità mentale»). Difficile dissentire: con quella sua voce sgualcita e profonda che sapeva di tabacco e di brume autunnali e quelle brevi canzoni accompagnate da una chitarra arpeggiata con sapienza usando accordature spesso non convenzionali, Nick mette a nudo la sua fragile sensibilità ma anche una raffinatezza compositiva ed esecutiva sbalorditiva. Solo 28 minuti di musica, con la spontaneità e la concisione di un nastrino demo: all’epoca non se ne accorge nessuno, e ci vorrà uno spot televisivo della Volkswagen (con Pink Moon, la canzone), a fine 1999, per portare a orecchie vergini e ignare quella musica tenue e profonda, modernissima e adatta a tutte le stagioni. Da quel momento Drake diventa l’artista di culto per eccellenza, celebrato da artisti e ascoltatori dal palato fine. Come ha spiegato il suo ex produttore Joe Boyd, «è come se, non essendo entrata in sintonia con i ’60 e i primi ’70, la sua musica si sia liberata, permettendo alle generazioni successive di appropriarsene».
“Thick as a Brick” Jethro Tull (marzo 1972)
Dopo Aqualung i Jethro Tull sono delle superstar e possono concedersi qualche lusso: ad esempio scegliere per il nuovo disco una delle copertine più iconiche ed elaborate della storia del rock, un finto quotidiano di provincia in formato manifesto, zeppo di articoli e di notizie curiose. L’istrionico Ian Anderson si inventa la trasposizione in musica di un immaginario poemetto epico scritto da un geniale ragazzino di otto anni, usandola come pretesto per rispondere alla moda imperante dei concept. Mischiando prog e hard rock, la suite che occupa le due facciate e che si sviluppa in oltre 40 minuti di musica è un’intrepida evoluzione dello stile di una band sempre più distante dalle sue matrici rock-blues, ricca di dinamica e di movimento, di cambi di tempo e di atmosfere, con temi ricorrenti e delicati momenti acustici in chiave folk contrapposti a più convulsi passaggi elettrici, barocchi e rockeggianti. Con la sua voce stentorea e nasale e quel flauto traverso che solo lui riesce a far accettare al pubblico rock come strumento solista, Anderson è il grande mattatore di una partitura in cui trovano molto spazio anche le tastiere e soprattutto la chitarra elettrica di Martin Barre. Ai limiti dell’autocompiacimento pomposo, i Jethro Tull restano miracolosamente in equilibrio sul filo.
“Machine Head” Deep Purple (marzo 1972)
Smoke on the Water contende tuttora a Whole Lotta Love dei Led Zeppeln il titolo di riff più noto, citato e imitato della storia del rock. Basta e avanza per regalare la patente di immortalità all’album più popolare — numero uno in Inghilterra — e amato dei Deep Purple, qui nella formazione classica Mark II, un quintetto inossidabile e senza punti deboli con un cantante dalla grande estensione e dall’ugola d’acciaio (Ian Gillan), un chitarrista bizzoso e pungente (Ritchie Blackmore), l’Hammond dal timbro fragoroso e distorto di Jon Lord e una sezione ritmica che in campo hard & heavy non teme rivali. Highway Star, adrenalinica road song in cui Gillan si scatena sugli acuti cantando le lodi di un’automobile veloce simbolo di libertà e di una vita vissuta schiacciando l’acceleratore (le scale eseguite da Blackmore nel suo assolo sono un altro pezzo da antologia) e Space Truckin’, un viaggio interplanetario a ritmo incalzante ispirato dal celebre tema del film Batman, segnano il perimetro di un album robusto e compatto, dove Lazy aggiunge una bella dose di swing ai botta e risposta tra voce, chitarra e tastiere. L’apoteosi si completerà a fine anno con il mitico doppio dal vivo Made in Japan: i due gruppi restano stilisticamente molto diversi, ma gli Zeppelin sembrano avere finalmente trovato dei degni rivali.
“Exile On Main St” The Rolling Stones (maggio 1972)
In fuga dall’inflessibile fisco britannico, i Rolling Stones si radunano in una villa affittata da Keith Richards a Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra. Registrano di sera e fino a notte fonda con uno studio mobile, in un ambiente caotico, festaiolo e fuori controllo frequentato da una processione di spacciatori, curiosi, amiche e amici (comprese celebrità come John Lennon, William S. Burroughs e Gram Parsons). In quell’atmosfera decadente e dark i cinque musicisti faticano a fare gruppo: tocca a un Keith sempre più tossico e stropicciato caricarsi sulle spalle la responsabilità di tirare fuori dalle anarchiche session (e da altre incisioni antecedenti e risalenti al 1969-71) un doppio album all’epoca piuttosto trascurato e oggi giustamente celebrato come la più pura essenza dello spirito rollingstoniano. Non è una collezione di hit (un solo singolo di successo, Tumbling Dice), ma un disco in cui il quadro d’insieme conta più dei dettagli e da cui, a dispetto della lunga e frammentaria gestazione, emerge un suono coerente, inconfondibile e irripetibile: un suono grezzo, abrasivo e un po’ sgangherato, con le chitarre elettriche di Richards e di Mick Taylor a dettare il passo, una sezione ritmica swingante e spesso volutamente in ritardo, la voce di Mick Jagger impastata nel missaggio. Blues (comprese due cover di Slim Harpo e Robert Johnson), country (Sweet Virginia), rock and roll (Rip This Joint e Happy, con Richards al microfono), grandi ballate con aromi gospel (Shine a Light) sono la summa di uno stile musicale e di vita.
“Honky Château” Elton John (maggio 1972)
Forse Tumbleweed Connection (1970) e Madman Across The Water (1971) gli sono musicalmente superiori, ma Honky Château è il disco di Rocket Man e tanto basta a farne un punto di svolta nella discografia di Reginald Kenneth Dwight. Il castello di Hérouville in cui Elton decide di registrarlo abbandonando per la prima volta gli studi londinesi è carico di storia (tra quelle mura, si dice, Frédéric Chopin aveva intrattenuto la sua relazione amorosa con George Sand), ma le suggestioni a cui il cantautore e pianista si abbandona sono decisamente più contemporanee: in piena era spaziale, per la splendida ballata che lo catapulta in vetta alle chart Bernie Taupin gli cuce addosso un testo ispirato all’omonimo racconto di Ray Bradbury, immaginando un protagonista (un astronauta, ma anche una rock star) che la professione spinge suo malgrado lontano da casa. Al luogo in cui avvengono le session fa riferimento invece Honky Cat, un vivace e saltellante esercizio di New Orleans Sound che dimostra quanto l’inglese sia affezionato alla musica americana (lo confermano il gospel rock in stile Delaney & Bonnie di Salvation, l’omaggio alla Band di Slave, certi pezzi alla Leon Russell, i richiami al doo wop e ai Beach Boys di Hercules). In due brani spicca lo spiritato violino elettrico di Jean-Luc Ponty.
“Sail Away” Randy Newman (maggio 1972)
“The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars” David Bowie (giugno 1972)
Nell’annus mirabilis in cui coproduce Transformer di Lou Reed e regala ai Mott The Hoople il pezzo della vita (All the Young Dudes) David Jones compie il suo secondo radicale cambio di identità: l’androgino David Bowie cede momentaneamente la scena a Ziggy Stardust, l’alieno venuto sulla Terra per diventare una stella del rock and roll e che del rock and roll rappresenta una delle maschere più popolari e iconiche di sempre. Mick Ronson, chitarrista e arrangiatore, è una spalla preziosissima nella composizione di un collage multiforme, una fantasmagoria glam che riflette lo stile di vita dell’artista, avido di esperienze di ogni tipo, gender fluid in anticipo sui tempi, interessato a tutti gli aspetti dell’arte performativa. Nelle sue parole, The Rise and Fall of Ziggy Stardust è un disco «molto più heavy e molto più strano» dei precedenti, «più vicino a Iggy Pop e molto più rock’n’roll» (anche se non rinuncia del tutto alle ballate con gli archi, ai sax suadenti e notturni, alle chitarre psichedeliche). Pezzo chiave e hit single di grande successo che risolleva le quotazioni di Bowie dopo le vendite non entusiasmanti di Hunky Dory, Starman lancia un messaggio di speranza (non siamo soli nell’universo, la salvezza va cercata oltre i confini ristretti di questo mondo), ma sono tanti, nella bizzarra e geniale rock opera, i brani destinati a fare storia e a restare nella memoria collettiva: Moonage Daydream, Ziggy Stardust, Suffragette City, Rock’n’Roll Suicide, chitarre nervose e incisi micidiali.
“Roxy Music” Roxy Music (giugno 1972)
Glam? Art rock? Proto new wave? Il debutto dei Roxy Music è un disco sfuggente e retrofuturista che non ha termini di paragone nel panorama musicale del periodo, anche se certi modelli di riferimento (i Velvet Underground, ancora loro) sono evidenti a partire dal primo brano del lato A, Re-Make/Re-Model, un manifesto artistico e di pensiero che permette a tutti e sei i componenti del gruppo di mettersi in mostra. I “trattamenti sonori” di Brian Eno, un “non musicista” che maneggia con la curiosità e l’entusiasmo del neofita il sintetizzatore VCS3 e i delay dei registratori a nastro, fanno suonare in maniera inaudita e imprevedibile la voce da crooner postmoderno di Bryan Ferry, la chitarra stridente di Phil Manzanera, il sax ruggente e l’oboe di Andy Mackay in pezzi spiazzanti come Ladytron, la mini suite in più movimenti Sea Breezes o Is There Is Something, “musica sentimentale per l’era spaziale”. La modella stile anni ’50 in copertina e il look originalissimo del gruppo — Bryan e Andy con ciuffo rockabilly extra long, Phil guitar hero con occhiali da saldatore, Brian folletto alieno e androgino, Paul Thompson e Graham Simpson in versione prog rocker — sono parte essenziale del pacchetto e del progetto. L’inclusione del singolo Virginia Plain arricchisce l’edizione Usa e le successive ristampe dell’LP.
“#1 Record” Big Star (giugno 1972)
Oggetto misterioso ai tempi della pubblicazione (anche in conseguenza di problemi distributivi), il primo album dei Big Star diventerà un adorato disco di culto e un modello di riferimento esplicito per moltissime band a venire. Gli è stata appiccicata l’etichetta di prototipo del power pop, ma le ambizioni e i risultati trascendono quel genere allora nascente: Alex Chilton (un passato da enfant prodige, numero uno in classifica a 16 anni con i Box Tops di The Letter) e Chris Bell aspirano a rifare Lennon & McCartney, i Beatles, i loro pupilli Badfinger e i Byrds sono fari ispiratori di quella loro musica chitarristica, essenziale e apparentemente semplice, figlia di memorie British Invasion e della California degli anni ’60, ma dall’umore decisamente contemporaneo. I Big Star sanno graffiare con i riff di Feel, In the Street, When My Baby’s Beside Me e Don’t Lie to Me, talvolta addolcite da vertiginose armonie vocali, ma anche scrivere luminosi folk-rock come Watch the Sunrise e ballate meravigliose e struggenti come The Ballad of El Goodo, Give Me Another Chance e Thirteen (in cui Chilton ricorda gli amori e il rock and roll dell’adolescenza citando Paint It, Black dei Rolling Stones). In quei solchi, tra i tanti, troveranno una robusta scintilla di ispirazione i R.E.M., i Teenage Fanclub, i Primal Scream e i Replacements (che in repertorio includeranno una canzone intitolata Alex Chilton).
“Trilogy” Emerson Lake & Palmer (luglio 1972)
Nel 1972 Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer hanno la forza d’urto dell’armadillo cingolato di Tarkus e possono soddisfare ogni capriccio. Decidono così di registrare il nuovo disco abbinando due console a 24 piste che gli consentono di sovraincidere e sovrapporre strumenti a piacimento erigendo cattedrali sonore sempre più complesse e imponenti (il rovescio della medaglia è rappresentato dalla difficoltà di riprodurre quei pezzi dal vivo). Trilogy, che nel titolo e nel ritratto in copertina allude a tre personalità distinte ma unite nel raggiungimento di un obiettivo comune, è l’album in cui i tre grandi virtuosi del prog cercano con più insistenza traiettorie comuni e punti di contatto: The Endless Enigma (due parti collegate da una fuga) ha un incipit thriller e minaccioso da cui prende forma un inno maestoso, nella title track un inizio delicato ed elegante per voce e piano lascia spazio a una sezione incalzante quanto un brano fusion dei Weather Report, Living Sin gioca con tonalità dark e cavernose. Palmer giganteggia mettendo a frutto un arsenale di percussioni; arroccato dietro il suo muro di tastiere Emerson dà sfogo alla sua passione per il ragtime (The Sheriff), per il compositore americano Aaron Copland (Hoedown) e per il bolero di matrice raveliana, mentre Lake sovrappone basso, chitarra acustica e sei corde elettrica alla sua limpida voce in From the Beginning, deliziosa ballata a ritmo di bossa nova chiusa da un originale assolo di synth.
“Saint Dominic’s Preview” Van Morrison (luglio 1972)
Che Saint Dominic’s Preview sia la più riuscita fusione tra il mood anarchico e folk di Astral Weeks e l’omaggio alla musica nera di Moondance? Fatto sta che c’è tutto il miglior Morrison di quegli anni, in questo LP che alterna pezzi concisi e di facile ascolto a lunghe, dilatatissime ballate più apparentate al flusso di coscienza di James Joyce che alla musica pop. Seduto sulla scalinata di una chiesa con la chitarra in mano, pantaloni sdruciti e stivaletti vissuti, boccoli spettinati e sguardo rivolto al cielo, Van in copertina sembra un musicista da strada in cerca di una terra promessa: la sua si trova da qualche parte tra l’America r&b e soul dei ’50 e dei primi ’60 (Jackie Wilson Said, il pezzo più swingante e accattivante in scaletta, strategicamente posto in apertura: negli ’80 lo riprenderà Kevin Rowland con i Dexys Midnight Runners) e una mitologica Caledonia in cui ritrovare le sue radici celtiche e nordirlandesi, cosicché la ballata che intitola il disco si sposta dalla cattedrale di Notre-Dame e San Francisco (residenza d’epoca di Morrison), tra Buffalo e Belfast citando Edith Piaf e Hank Williams. A destare sensazione sono soprattutto due pezzi di oltre dieci minuti di durata, la contemplazione estatica di Almost Independence Day e la formidabile Listen to the Lion, Morrison che mugola e ruggisce usando la voce come uno strumento jazz e come nessuno aveva mai fatto prima di allora.
“Superfly” Curtis Mayfield (luglio 1972)
La colonna sonora di un non indimenticabile film di genere in puro stile blaxploitation, molto popolare in quegli anni tra il pubblico afroamericano, porge a Curtis Mayfield l’occasione di riflettere sullo stato della nazione, sulla vita nei ghetti, sulla violenza metropolitana, sull’infida e mortale seduzione delle droghe, senza alcuna pedanteria pedagogica ma con l’empatia, la compassione e il calore umano di cui è capace. Qualcuno lo definirà il Sgt. Pepper black, ma come il What’s Going On di Marvin Gaye Superfly è piuttosto un affresco vivo, pulsante, eccitante e poetico di un tempo e di un luogo preciso, l’America afroamericana di quegli anni segnati dalla povertà, dalla tossicodipendenza, dalla protesta e dalla violenza nelle strade. A differenza dell’Isaac Hayes di Shaft, Mayfield non si limita a comporre una soundtrack con tanti brani strumentali a fare da contorno a un tema conduttore. La storia di uno spacciatore di cocaina di Harlem che punta a un ultimo colpo grosso prima di rifarsi una vita rispettabile gli offre invece lo spunto per una sequenza di canzoni basate su uno studio attento dei personaggi della pellicola e che trasmettono forte e chiaro il loro messaggio utilizzando le risorse già impiegate nei dischi solisti precedenti: melodie sinuose e carezzevoli come la voce al miele di Curtis, chitarre wah wah e vagamente psichedeliche, ritmi funk, conga e percussioni latine, orchestrazioni raffinate, ariose e dinamiche grazie a cui Little Child Runnin’ Wild, Pusherman, Give Me Your Love e i due hit single Freddie’s Dead e Superfly catapultano in una nuova dimensione il soul degli anni ’70.
“Close to the Edge” Yes (settembre 1972)
Il successo riscosso l’anno prima con Fragile e soprattutto con il singolo Roundabout è un credito che gli Yes decidono di spendere subito alzando coraggiosamente la posta: la title track su cui si impernia il nuovo disco è una suite in quattro movimenti ispirata a Sibelius e a Stravinsky come alle sperimentazioni con il Moog di Wendy Carlos nel doppio Sonic Seasonings, e in cui momenti concitati si alternano a oniriche pause contemplative, angeliche armonie vocali a intricati passaggi strumentali contaminati con la fusion. Nessuno, in ambito rock e progressive, suona in quel momento la chitarra con la spigolosa inventiva di Steve Howe, il basso elettrico con la prepotenza e la ricchezza timbrica di Chris Squire, le tastiere con la grandeur e la sapienza armonica di Rick Wakeman, la batteria con l’agilità e il linguaggio forbito di Bill Bruford; nessuno sfoggia il falsetto etereo di Jon Anderson e le sue idee anticonformiste. Sull’altro lato dell’LP non ci sono riempitivi ma altri due pezzi da novanta, la maestosità melodica di And You and I e la potenza trascinante di Siberian Khatru: frastagliate, complesse e visionarie. Musica oltre i confini della Terra e dell’immaginazione, come le illustrazioni di Roger Dean nell’interno copertina.
“Foxtrot” Genesis (ottobre 1972)
Come già era accaduto in occasione di Nursery Cryme, anche in Foxtrot sono le illustrazioni di Peter Whitehead a risucchiare immediatamente l’ascoltatore in un mondo fiabesco dai tratti surrealisti e a volte inquietanti. Sono lo specchio fedele di una musica in cui antiche leggende arturiane (Time Table) si mescolano a visioni fantascientifiche del futuro (Watcher of the Skies, memorabile introduzione al Mellotron, riff in staccato, tempi alternati e sincopati; l’operetta a tre voci Get’em Out by Friday, favola nera e grottesca sul tema della speculazione edilizia). Il pezzo forte del disco, e probabilmente dell’intero catalogo, è però la suite in sette movimenti Supper’s Ready che occupa l’intera seconda facciata: ispirandosi liberamente al Libro della Rivelazione di San Giovanni, Peter Gabriel canta dell’eterna lotta tra il Bene e il Male e delle peripezie di una coppia di amanti che compie un viaggio avventuroso in un mondo ultraterreno: sono 23 minuti di fantasia sfrenata, un Alice nel paese delle meraviglie che si muove tra delicati acquarelli pastorali e corde dolcemente arpeggiate, squarci melodici classicheggianti con le tastiere di Tony Banks in primo piano, momenti umoristici in stile music hall, esplosioni rockeggianti e una incalzante apocalisse in 9/8. In Inghilterra si smuove finalmente qualcosa (è il primo album dei Genesis a entrare in classifica), in Italia è un trionfo preannunciato.
“Caravanserai” Santana (ottobre 1972)
«Ragazzi, questo disco è un suicidio professionale», pare sia stato il primo commento del gran capo della Columbia Clive Davis dopo avere terminato il preascolto del quarto LP dei Santana. Si aspettava forse un album sulla falsariga di Abraxas e un singolo come Oye Como Va: invece, dopo una spiazzante introduzione affidata a un sax e al canto dei grilli, trascorrono 12 minuti prima che affiori la voce del tastierista Gregg Rolie mentre dai solchi sgorga una musica liquida e di stile fusion, sempre di matrice latina ma ora fortemente orientata al misticismo orientale. Carlos ha scoperto la meditazione trascendentale (e in copertina riporta un pensiero dello yogi indiano Paramhansa Yogananda), oltre al jazz di John Coltrane e di Miles Davis, e più che a Tito Puente guarda alla Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin (come lui seguace del maestro indiano Sri Chinmoy). Il pezzo iniziale Eternal Caravan of Reincarnation ha un titolo esplicativo e prende ispirazione da Astral Travelling di Pharoah Sanders, il resto è un flusso impetuoso e senza soluzione di continuità, un caravanserraglio sonoro che nel suo viaggio a dorso di cammello ingloba funk, jazz, rock, trascinanti break percussivi, aromi spagnoli, afrocubani e brasiliani (la cover di Stone Flower di Antônio Carlos Jobim è il momento più “pop” del disco) oltre ad entusiasmanti dialoghi chitarristici tra il leader e Neil Schon (Song of the Wind).
“Talking Book” Stevie Wonder (ottobre 1972)
Conquistata indipendenza decisionale e autonomia d’azione grazie ai ripetuti successi che fin dall’adolescenza ha riscosso per la Motown di Berry Gordy, Stevie Wonder si sente ingabbiato nei panni della macchina da hit e comincia a pensare in grande: Talking Book, primo capitolo di una trilogia che lo consegnerà alla leggenda, diventa così una sorta di libro sonoro, un ciclo di canzoni che poste in sequenza intendono raccontare una storia. Ha tutto chiaro in testa, l’artista del Michigan allora appena ventiduenne: scrive, suona una miriade di strumenti, sperimenta con sintetizzatori allo stato dell’arte, produce e mixa dimostrando di avere una visione che travalica il linguaggio della black music anni ’60 e lo spirito pionieristico dei grandi innovatori del suono. Le due grandi hit che aprono le due facciate dell’LP, You Are the Sunshine of My Life e Superstition, sono lo yin e lo yang del disco: la prima (in cui si alternano altre due voci soliste, quelle di Jim Gilstrap e Lani Groves) è una tenera ballata d’amore dedicata alla moglie e collaboratrice Syreeta, la seconda un funk/r&b dal riff incalzante che fa conoscere al pubblico mainstream le sonorità allora inconsuete del clavinet. Stevie elabora melodie complesse e stratificate, anticipa molte intuizioni di Prince e in Lookin’ for Another Pure Love ospita la chitarra di un altro esploratore sonoro, Jeff Beck.
“Transformer” Lou Reed (novembre 1972)
Nel 1971, a una cena organizzata dalla RCA a New York, Lou Reed incontra David Bowie, fan dichiarato dei Velvet Underground. Fresco reduce da un primo disco solista uscito a inizio anno e rivelatosi un flop commerciale, Reed decide di affidarsi alle cure del nuovo fenomeno inglese, ai vertici della popolarità e della considerazione grazie a Ziggy Stardust. Il sodalizio è effimero ma produce risultati straordinari grazie anche Mick Ronson, sempre un passo indietro ma ancora una volta cruciale orchestratore. Influenzato dal glam rock britannico e registrato a Londra, Transformer è un disco asciutto ed elettrico, con molti riff e molto groove, tante chitarre e un’iconografia trasgressiva (il “pacco” smisurato del modello in jeans attillati nel retrocopertina), suoni e testi perfettamente aderenti allo spirito del tempo. Formidabile anche il repertorio: Vicious, istigata da Andy Warhol, Satellite of Love e la melodia ariosa di Perfect Day, una serena e romantica giornata trascorsa tra passeggiate nel parco, un film al cinema e una visita allo zoo che induce il protagonista a credersi per un momento “qualcosa di diverso, qualcosa di buono”. E poi, naturalmente, c’è Walk on the Wild Side, con il suo walking bass, il suo rauco assolo di sax e una galleria dei personaggi più pittoreschi e anticonformisti della Factory. Quel coretto a base di doot di-doot di-doot, prevede sarcasticamente Lou, «sarà il mio epitaffio».
“Can’t Buy a Thrill” Steely Dan (novembre 1972)
Chi si sarebbe aspettato un assolo di sitar elettrico in un singolo da classifica, una volta svaniti il sogno hippie e la sbornia mistica dei ’60? Do It Again, primo brano del primo album degli Steely Dan ne fa orgogliosamente sfoggio ma non ha nulla a che vedere con quel mondo ormai antico: la sonorità esotica dello strumento serve solo a introdurre nel pezzo un colore diverso e inatteso. È un perfetto biglietto da visita per la musica elegante, smerigliata ma anche poco ortodossa della band di Donald Fagen e Walter Becker, musicisti già smaliziati e maniaci dello studio di registrazione capaci di intestardirsi per giornate intere alla ricerca della take perfetta. Can’t Buy a Thrill unisce levigatezza californiana — l’album è registrato a Los Angeles — e cinismo newyorkese, con testi beffardi e riferimenti colti (i due fondatori adorano la letteratura beat e il nome del gruppo è quello di un vibratore citato da William S. Burroughs nel suo Pasto nudo). Do It Again e Reelin’ in the Years, l’altro singolo di successo con un assolo di chitarra che strappa un plauso pubblico a Jimmy Page, fanno impazzire i programmatori radiofonici, Dirty Work è un altro classico istantaneo, la chitarra be bop di Denny Dias e quella rock di Jeff “Skunk” Baxter sono l’arma in più di una musica cool, intelligente e affilata che rasenta la perfezione innestando sull’intelaiatura pop-jazz conga latine e ritmi tropicali, un po’ di mambo e «una preghiera solenne per la pace» (Turn That Heartbeat Over Again). Do It Again porterà fortuna anche ai Clubhouse, ensemble Italo disco che nel 1983 entra nelle chart internazionali facendone un mashup con Billie Jean di Michael Jackson.