Nel 1980, poco prima che MTV si impossessi della musica – anche se nel ’79 già si canta che il video ha ucciso le star radiofoniche – si assiste alla collisione di molti generi musicali in maniere creative e divertenti. Il post punk si rinnova scoprendosi dark; la new wave si rimodella con ritmi africani, power pop e funk; il rock muscolare entra prepotentemente in classifica; la New Wave of British Heavy Metal comincia a muovere i primi fondamentali passi nel mondo discografico, né mancano gli album importanti di superstar come Stevie Wonder, David Bowie e Bruce Springsteen.
Non potendo inserire tutti gli album importanti usciti, abbiamo dovuto sacrificare qualcosa – ad esempio Blizzard of Ozz di Ozzy Osbourne, British Steel dei Judas Priest, Crazy Rhythms dei Feelies, Gentleman Take Polaroids dei Japan – provando a rappresentare ogni corrente musicale.
“Pretenders” Pretenders (gennaio 1980)
“Dolcezza, vaffanculo!”. L’album di debutto dei Pretenders, guidati dalla carismatica chitarrista, cantante, autrice Chrissie Hynde, americana trapiantata in Inghilterra e da diversi anni orbitante nella scena musicale londinese, è un classico della new wave e un punto di riferimento per ogni cantante femminile che si vorrà cimentare nel rock da lì in poi. L’esuberanza della Hynde, capace di suonare ora coatta e arrogante, ora più fragile e romantica, è ben fotografata dalla versione in vinile dell’album. Il lato A e il lato B mostrano in modo chiaro la schizofrenia: la prima parte è più violenta e influenzata dal punk (Precious), la seconda è più variegata e serena. Fra tutte emergono il semi-reggae di Private Life, la ballabile Mystery Achievement e ovviamente il successo planetario Brass in Pocket.
“Songs the Lord Taught Us” The Cramps (aprile 1980)
Registrato allo storico Sun Studio di Memphis, Songs the Lord Taught Us arriva a quattro anni dalla nascita di quella che potrebbe essere considerata una delle prime punk band americane. Inventori dello psychobilly e autori di live show grotteschi e infuocati. Le pose indomabili e animalesche della coppia Lux Interior, voce, e Poison Ivy, chitarra, e l’estetica da B-movie horror sono riflesse in un album sporco e diretto che cita Sonics, Stooges e Carl Perkins. Il tutto suonato senza il basso per un effetto ancora più abrasivo. Lo humour che domina il disco alleggerisce le tinte fosche e volutamente iper-teatrali dei Cramps. TV Set spiega tutta la macabra assurdità dell’album: “Ti ho tagliato la testa e l’ho messa nel mio televisore, uso i tuoi bulbi oculari per cambiare canale sulla mia TV (…), ti vedo nel mio frigo, ci vediamo stasera per uno spuntino di mezzanotte, anche se fa freddo non invecchierai, ben conservata nel mio frigo”.
“Seventeen Seconds” The Cure (aprile 1980)
Il secondo lavoro dei Cure e primo con Robert Smith come produttore e leader incontrastato, taglia i ponti con il pop veloce e frammentato degli esordi in favore di un lavoro più coerente. La cupa psichedelia minimalista che ne emerge è merito delle melodie di Simon Gallup al basso, delle chitarre sognanti di Smith, dei ritmi metronomici di Phil Tolhurst e delle tastiere altrettanto semplici di Matthieu Hartley. Play For Today, Secrets e A Forest sono i manifesti e la spina dorsale dell’album. Il clima autunnale dell’album giova della eccellente alternanza fra momenti più upbeat ad altri più lenti e misteriosi come l’inquietante Three e la sinistra At Night. La formula sarà riprodotta da migliaia di epigoni nel corso di tutto il decennio con alterni risultati.
“Iron Maiden” Iron Maiden (aprile 1980)
La maggiore testimonianza discografica della nascente corrente della New Wave of British Heavy Metal è l’esordio discografico degli Iron Maiden arrivato al quarto posto delle classifiche inglesi, dopo cinque anni di faticosa gavetta per la band guidata dal bassista Steve Harris. La prima incarnazione degli Iron Maiden, pur presentando già i celeberrimi fraseggi di chitarra armonizzata, una certa epicità, tra tutte Phantom of the Opera e Transylvania, assaggio delle amatissime cavalcate che li renderanno famosi, si distingue per un’anima ancora molto urbana e a tratti punk (col senno di poi), grazie soprattutto alla voce roca di Paul Di’Anno ancora molto lontano dai lunghi acuti di Bruce Dickinson (il suo successore) e Rob Halford dei Judas Priest. Grandi classici come Prowler, Running Free e Iron Maiden godono di questo approccio più spensierato, tipico dei primi dischi heavy metal, mescolato a un sound innovativo che all’epoca in Inghilterra pareva venisse da un altro pianeta.
“Los Angeles” X (aprile 1980)
Prodotto da Ray Manzarek dei Doors e manifesto della scena punk della West Coast, Los Angeles degli X spazza via ogni stereotipo sulla presunta incapacità tecnica di ogni gruppo punk sulla faccia della terra (stereotipo alimentato tanto dai punk, quanto dagli appassionati di altri generi) e anche l’idea che produrre malamente un album sia necessariamente una medaglia al valore per ogni punk che si rispetti. Exene Cervenka e John Doe, moglie e marito, provano anche ad armonizzare mentre sotto di loro infuriano chitarre rockabilly iperdistorte, e dipingono una distopica Los Angeles fatta di droga, stupri e misantropia. Uno fotografia della scena punk americana prima che venga dominata dal nascente hardcore.
“Peter Gabriel III” Peter Gabriel (maggio 1980)
Il terzo degli omonimi album di Peter Gabriel, chiamato anche III o Melt, in riferimento al volto del cantante in copertina, è il primo a consacrarlo come artista solista innovativo e di successo, in particolare grazie alle prime due canzoni chiaramente politiche, Games Without Frontiers e Biko, quest’ultimo pezzo anti-apartheid dedicato all’attivista sudafricano Steve Biko. Peter Gabriel bandisce i piatti e inaugura il gated reverb del rullante, quel suono riverberato la cui invenzione sarà attribuita al compagno di band Phil Collins e che caratterizzerà tutti gli anni ’80. L’atmosfera cupa e il beat potente di Intruder portano a I Don’t Remember, No Self Control e Family Snapshot, quest’ultima ancora influenzata dalla teatralità dei Genesis, perfetto panorama sonoro per la voce drammatica ed emotiva di Gabriel.
“Closer” Joy Division (luglio 1980)
Capolavoro della darkwave, Closer è considerato il testamento di Ian Curtis, suicida a 23 anni poco prima dell’uscita dell’album. L’atmosfera funerea, austera, claustrofobica creata dal produttore Martin Hannett diverrà un marchio di fabbrica del rock gotico di cui i Joy Division non hanno mai fatto parte. Atrocity Exhibition apre l’album con chitarre stridule introducendo i temi più battuti dall’album: la disperazione, il desiderio, la ricerca di una via d’uscita, ancorché lontana. Isolation e Heart and Soul demarcano una linea ancora più profonda per la musica che verrà: anche l’oscurità, la tristezza possono essere ballabili, una strada che Peter Hook, Bernard Sumner e Stephen Morris svilupperanno con i New Order. The Eternal e Decades sono i brani di chiusura perfetti per un testamento artistico: funeree e solenni, romantiche e decadenti, epiche e malinconiche.
“Uprising” Bob Marley & The Wailers (luglio 1980)
L’ultimo album in studio pubblicato da Bob Marley – l’artista morirà l’anno successivo – arriva in un momento in cui Marley ha già esportato il reggae alle masse. Il disco culmina nel finale della famosissima e toccante Redempiton Song, pari forse solo a Imagine per la sua potente semplicità. Could You be Loved è l’altro celebre singolo, ma Uprising è anche l’album dai testi più ispirati e pessimisti di Marley: Pimper’s Paradise che racconta la storia di una ragazza che usa il sesso e la droga per elevare il suo status, in cambio della sua anima, Real Situation parla di disillusione della lotta politica e sociale. Il testamento artistico di uno dei musicisti più importanti del XX secolo.
“Back in Black” AC/DC (agosto 1980)
Con circa 50 milioni di copie vendute, Back in Black è il secondo album più venduto di tutti i tempi dopo Thriller di Michael Jackson e di conseguenza è il disco rock più conosciuto e rappresentativo per le masse. Morto Bon Scott a un passo dal successo planetario dopo anni di gavetta, i fratelli Young lo sostituiscono con Brian Johnson. Voce a parte, la formula cambia ben poco da Highway to Hell, primo disco di platino americano per gli australiani, ed è proprio questa fedeltà all’hard rock blues anti-intellettuale, autoreferenziale e coatto che li porterà nell’olimpo del rock. Trainato dalle campane di Hells Bells, dal leggendario riff di Back in Black e dal singalong You Shook Me All Night Long, il disco è tuttora la quintessenza del rock cazzaro e spensierato.
“Scary Monsters (and Super Creeps)” David Bowie (settembre 1980)
Chiusa la trilogia berlinese, oggi passata alla storia, ma ai tempi non irresistibile dal punto di vista commerciale, David Bowie si riprende le classifiche trovando un compromesso artistico: all’approccio spontaneo di Brian Eno preferisce Tony Visconti, produttore dei suoi maggiori successi, più concentrato su una scrittura organizzata e per fasi. Il primo singolo Ashes to Ashes resuscita il Maggiore Tom di Space Oddity e arriva subito al numero uno delle classifiche britanniche. Il secondo, Fashion, riesce a condurre Scary Monsters al vertice delle classifiche in Gran Bretagna e al dodicesimo posto negli Stati Uniti. Gli altri brani dell’album non sono altrettanto radiofonici, fra tutte la strangolata voce di It’s No Game, il 7/4 di Up the Hill Backwards e la bizzara title track con l’inconfondibile chitarra di Robert Fripp. Tre anni dopo questo album Bowie sposerà il pop scioccando completamente i suoi fan ma guadagnando fama imperitura: anche per questa ragione Scary Monsters è spesso citato come l’ultimo capolavoro del Duca Bianco.
“Fresh Fruit for Rotting Vegetables” Dead Kennedys (settembre 1980)
Non fosse stato per una coraggiosa etichetta britannica non avremmo mai conosciuto il primo fondamentale album dei Dead Kennedys, che certo non si erano scelti un nome facile per essere pubblicati negli Stati Uniti. L’energia, la brutalità, la velocità dei brani e la teatralità di Jello Biafra alla voce marchieranno a fuoco il nuovo stile del punk, quello che da lì in poi verrà chiamato hardcore. Al nichilismo britannico i Dead Kennedys preferiscono la militanza, che sia con la teatralità ironica e distaccata di Kill the Poor, con gli scenari distopici di When You Get Drafted o le leggendarie California Uber Alles e Holidays in Cambodia.
“Hotter Than July” Stevie Wonder (settembre 1980)
Proseguendo concettualmente il capolavoro Songs in The Key of Life, inframmezzato dalla bizzarra Journey Through the Secret Life of Plants, Stevie Wonder dà alle stampe uno dei suoi album di maggiore successo, aggiornandosi alle mode dell’epoca. Il reggae di Master Blaster (Jammin’) nasce dalla performance con Bob Marley alla Black Music Association un anno prima e Happy Birthday, canzone usata in favore della campagna che avrebbe voluto il compleanno di Martin Luther King festa nazionale, diverrà uno dei maggiori successi dell’artista. Anche la ballata Lately e la pseudo-country I Ain’t Gonna Stand For It sono grandi successi di pubblico, per quello che sarà il primo disco di platino dell’artista.
“Remain in Light” Talking Heads (ottobre 1980)
Un calderone magico di poliritmi, sperimentazioni elettroniche e testi criptici, Remain in Light deriva dall’ossessione di David Byrne per la fusione fra l’anima del post punk americano con ritmiche tipicamente africane. L’album porterà il quartetto nelle sale da ballo, su MTV, al vertice delle preferenze della critica. Il debito che questo disco ha con la musica afro-americana è evidente in Crosseyed and Painless, in particolare nel break vocale in cui si cita The Breaks di Curtis Blow. Gli spettrali fiati di Houses in Motion si avvicinano alla musica di Fela Kuti, leggenda dell’afrobeat nigeriano, da sempre amato da Brian Eno, chiamato per la terza volta a collaborare con la band. Oggi Once in A Lifetime è riconosciuto come uno dei brani più celebri dei Talking Heads e il centro motore dell’intero LP, ma all’epoca il singolo non raggiungerà neanche la top 100 della classifica Billboard. Un anno dopo però, grazie a diversi passaggi nelle discoteche e nelle radio r&b, e al video in cui Byrne recita un uomo di mezza età in crisi, il brano scalerà le classifiche mainstream.
“The River” Bruce Springsteen (ottobre 1980)
Dopo lo straordinario successo dei capolavori Born to Run e Darkness on the Edge of Town, Bruce Springsteen e la E Street Band presentano un doppio album di venti brani. Hungry Heart, prima grande hit cantabile del Boss, storia di un uomo smarrito che fugge da tutto, salvo poi ritrovarsi ancora più solo e vuoto di prima, riassume l’anima del disco: la vita è fatta di paradossi, alti e bassi, vittorie e sconfitte. Il disco offre pessimistiche ballate (Point Blank, Independence Day) su cui emerge il classico The River, su una coppia che incontra l’amore, una gravidanza prematura e si perde nella malinconia, ma anche brani rock apparentemente più spensierati, pur sempre permeati dalla doppiezza dell’esistenza, spina dorsale del progetto.
“Dirty Mind” Prince (ottobre 1980)
Il ventiduenne Prince diventa con il suo primo classico Dirty Mind una delle sensations più formidabili degli anni ’80. Suona praticamente tutti gli strumenti su un 16 piste, mescola con audacia funk, r&b, new wave e pop. L’audacia non manca neanche nei testi: il sesso, da sempre tema caro al pop con doppi sensi più o meno chiari, viene trattato in modo esplicito. Princecanta di sesso orale (Head), threesome (lo splendido rock di When You Were Mine), incesto (Sister). Sono trenta minuti di musica diretta e grezza e di erotismo esuberante e sfacciato. Dirty Mind incarna tutti gli elementi che consegneranno Prince al mito e a ogni tipo di controversia.
“Making Movies” Dire Straits (ottobre 1980)
Con Making Movies Mark Knopfler raggiunge il suo apice compositivo e trova lo stile che lo accompagnerà per il resto della carriera. L’uscita dalla band del fratello David diviene uno stimolo per mostrare il suo stile musicale romantico e per ampliare il range di influenze del gruppo, legate fino a quel momento a un rock-blues piuttosto classico. L’importanza delle tastiere di Roy Bittan, in prestito dalla E Street Band, è chiara sin dai primi tre leggendari brani del lato A: Tunnel of Love, ammirata per uno dei migliori assoli di chitarra del 1980; Romeo & Juliet, ballata che esalta il fingerpicking di Knopfler e la sua maturata coerenza narrativa; Skateway, un singalong accompagnato da una chitarra jazzy. Jimmy Iovine, coproduttore dell’album, anche lui ex collaboratore di Bruce Springsteen, riesce a dare coerenza anche negli episodi meno importanti, riuscendo dove altri avevano fallito nei primi due album.
“Ace of Spades” Motörhead (novembre 1980)
Idolatratati tanto dai punk che dai metallari, i Motörhead appartengono a entrambi i mondi ideologicamente così lontani nel 1980. Già amatissimi grazie ai loro precedenti Bomber e Overkill, ripropongono il loro furioso rock’n’roll anfetaminico ed entrano nella storia con il celeberrimo singolo Ace of Spades, l’inno degli inni rock, due minuti e quarantanove secondi di inferno che spingeranno l’album fino al quarto posto delle classifiche britanniche, consolidando lo status di Lemmy e della sua voce graffiante. La copertina dell’album che vede il trio vestito da cowboy non è una banale foto tamarra in stile anni ’80, ma rappresenta perfettamente il lato A dell’album con le sue influenze western e southern. La produzione di Vic Maile cattura la potenza sonora di quella che potrebbe essere la perfetta colonna sonora di una festa molto pericolosa.
“In the Flat Field” Bauhaus (novembre 1980)
La prima uscita dell’etichetta britannica 4AD è il debutto dei Bauhaus, considerato uno dei primi dischi gothic rock. I Bauhaus non aderiscono allo stereotipo goth, combinano al suono tagliente del punk la teatralità glam e ovviamente una passione per temi e atmosfere tetri e inquietanti. Il ronzio di Double Dare attira l’ascoltatore in una trance, il passo dell’album accelera progressivamente fino alle grida maniacali Peter Murphy, un po’ Iggy Pop, un po’ David Bowie, per il ritornello di In the Flat Field. La sezione ritmica di Kevin Haskins e David J esplode nella title track e in Spy in the Cab. La semplicità della chitarra di Daniel Ash serve allo scopo anche con accordi brutali. Il finale drammatico di Nerves chiude un esordio irripetibile.
“Sound Affects” The Jam (novembre 1980)
Quando Paul Weller compone Sound Affects è appena ventiduenne ed è già il suo quinto album in tre anni. All’epoca il leader dei Jam stava consumando Revolver dei Beatles e stava maturando una certa disillusione nei confronti della temperie politica che aveva caratterizzato l’Inghilterra negli anni ’70. La narrativa diretta degli esordi dunque lascia spazio a canzoni più astratte, influenzate da Blake e Shelley, entrambi citati sulle note di copertina. Start!, primo singolo estratto, cita Taxman e dimostra un rinnovato interesse pop, la potente Set the House Ablaze potrebbe essere un singolo qualsiasi di una indie band ballabile degli anni 2000, le chitarre al contrario di Dream Time ricordano I’m Only Sleeping. Il funk delle linee di basso, invece, è curiosamente un omaggio a Off the Wall di Micheal Jackson, uscito l’anno precedente. Definito dall’autore stesso il miglior album dei Jam, Sound Affects è un capolavoro del rock e dell’estetica inglese dell’epoca.
“Sandinista!” The Clash (dicembre 1980)
Dopo aver rivoluzionato il mondo del punk con London Calling, i Clash alzano ancora il livello di difficoltà con le 36 canzoni di Sandinista!. La band immerge ancor più le mani nella tradizione nera, non si piega alle regole del nuovo punk e pubblica un album infinito che aggiunge dub, rap, gospel al già esplosivo mix di punk, r&b e reggae che li ha resi celebri. Una delle critiche più comuni all’album è la presenza di brani incompiuti ed esperimenti mal riusciti, e molti si sono anche prodigati a produrre una loro personale scaletta ridotta, ma chiaramente è un’operazione che svilisce l’idea del disco, un viaggio sonoro libero e disordinato. Uno degli album più coraggiosi mai usciti.