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I 20 migliori album usciti nel 1992

Il 1992 non è stato il fratello sfigato del 1991. Anche nell'anno del post ‘Nevermind’ sono usciti grandi dischi. Da PJ Harvey e Lou Reed ai classicissimi di R.E.M. e Rage Against the Machine, ecco i migliori

Foto: Gie Knaeps/Getty Images

Come tutti quelli che hanno un fratello maggiore in gambissima ed elogiato da tutti, il 1992 in musica ha sempre dovuto confrontarsi con un precedente ingombrante, finendo per risultare largamente sottovalutato. Il 1991 era stato “the year punk broke“, con il grande successo di Nevermind a erodere la barriera tra underground e mainstream. Quest’ultimo si era comunque difeso bene, con dischi come Achtung Baby degli U2 e il black album dei Metallica, mentre il rock britannico nel senso più ampio del termine aveva prodotto capolavori in grado di delimitare le caratteristiche di un genere (il trip hop di Blue Lines dei Massive Attack), di rappresentarne una sintesi altissima (lo shoegaze di Loveless dei My Bloody Valentine) o di fare genere a sé (Screamadelica dei Primal Scream).

Come tutti i fratelli minori più avveduti, però, il 1992 ha saputo trarre vantaggio dalle conquiste ottenute dal fratello maggiore, e ha prodotto un gran numero di album imperdibili.

Al di là della distinzione tra underground e mainstream, che come detto proprio a cavallo tra 1991 e 1992 perde sempre più di significato, nel compilare questa lista abbiamo notato che la gran parte dei 20 migliori dischi del 1992 è fatta di musica “nuova”, indipendentemente dalla casa discografica con cui esce o dall’età dei suoi artefici, ne sono un esempio i Sonic Youth accasatisi alla Geffen o i Rage Against the Machine, usciti con la Epic ma il cui messaggio non può certo essere considerato mainstream. A colpire è anche il numero di ottimi album d’esordio (7 su 20 in questa lista) destinati a lasciare il segno e a rappresentare il primo capitolo di carriere rilevanti, basti pensare a PJ Harvey, ai Pavement e agli stessi Rage Against the Machine.

Insomma, se il 1991 aveva portato l’underground nel maistream, il 1992 ha visto numerosi musicisti underground produrre opere tra le migliori delle loro intere carriere.

Per tornare al paragone con il 1991, poi, anche nel 1992 sono usciti album in grado di delimitare le caratteristiche di un genere (lo stoner di Blues for the Red Sun dei Kyuss), di rappresentarne una sintesi altissima (il crossover dei Rage Against the Machine) o di fare genere a sé (l’esordio dei Pavement).

E del fatto che il 1992 sia stato un grande anno per la musica ci siamo accorti anche scorrendo i nomi di quelli che abbiamo dovuto lasciare fuori dai primi 20: fra questi, pesi massimi dell’hip hop come Ice Cube e Dr. Dre, album amatissimi dai fan come Wish dei Cure, la Madonna di Erotica, operazione anticipatrice di tanti “pacchetti” di pop contemporaneo, e Amused to Death di Roger Waters, che su queste stesse pagine è stato scelto come migliore album solista dell’ex Pink Floyd.

I criteri che ci hanno guidato nella scelta dei primi 20, qui proposti in ordine cronologico di uscita, sono stati principalmente tre: eredità dell’album a trent’anni dalla sua uscita, rilevanza per la scena musicale nel momento dell’uscita stessa e, inevitabilmente anche se in misura minore, gusto personale.

“Little Earthquakes” Tori Amos (gennaio 1992)


L’esordio in proprio della ventottenne Myra Ellen Amos mette in luce il talento di una cantautrice mainstream senza essere commerciale, vocalmente dotatissima senza eccedere in stucchevoli virtuosismi, di una pianista che usa lo strumento come un’appendice del proprio corpo per raccontare storie intense, a volte drammatiche, altre “solamente” struggenti. «Soul music cerebrale» scrive il Melody Maker con una definizione quanto mai azzeccata per la musica di un’artista unica, per la quale persino i paragoni con Kate Bush sono una semplificazione eccessiva.

“Magic and Loss” Lou Reed (gennaio 1992)

Il fondatore dei Velvet Underground chiude con questo album un trittico clamoroso, apertosi con New York (1989) e proseguito con Songs for Drella (1990), il tributo a Andy Warhol realizzato con l’amico-nemico John Cale. La dedica allo scomparso Doc Pomus, amico e mentore di Reed a inizio carriera, spiega la “perdita” della seconda parte del titolo. «È un album sulla morte e su come conviverci», scrive David Fricke sull’edizione americana di Rolling Stone, «il resoconto di un testimone oculare di una battaglia persa contro il cancro, del lutto e dei piccoli miracoli che, per chi rimane, segnano l’inizio del processo di ripresa». Come era scritto nelle note di New York, non c’è niente di meglio di chitarre, basso e batteria. Reed, coerentemente, conferma quasi in toto la band (e i suoni) di quell’album, con Michael Blair alla batteria al posto di Fred Maher, Rob Wasserman al basso e il chitarrista Mike Rathke, che diventa anche coproduttore.

“Generation Terrorists” Manic Street Preachers (febbraio 1992)

“Il rock’n’roll è la nostra epifania: cultura, alienazione, noia e disperazione”, cantano i quattro di Cardiff in Little Baby Nothing, incisa assieme alla ex pornostar Traci Lords. Bastano questi pochi elementi per definire da un lato la loro musica e i loro testi, dall’altro il loro desiderio di finire sulle copertine. Grazie anche a sparate tipo «venderemo 16 milioni di copie di questo album e poi ci scioglieremo» vengono accusati di essere più bravi a parlare che a suonare. In realtà i Manic Street Preachers sono la versione aggiornata della grande truffa del rock‘n’roll di sexpistolsiana memoria, e anche in questo caso fortunatamente sotto i lustrini ci sono le canzoni. E che canzoni. Una su tutte: Motorcycle Emptyness, inno alla solitudine sotto le luci al neon che rinnova i fasti della grande tradizione melanconica del rock britannico.

“3 Years, 5 Months and 2 Days in the Life of…” Arrested Development (marzo 1992)

Né Est né Ovest, né New York né Los Angeles. Con l’esordio degli Arrested Development è Atlanta, una delle “capitali” del Sud, a diventare sia pur per breve tempo il terzo polo dell’hip hop. Sul palco e in studio il leader è Speech, ma il Professor Griff della situazione è il sessantenne Baba Oje, consigliere spirituale della band, veterano dell’esercito, attivista per i diritti dei senzatetto e provetto pattinatore. Siamo comunque ben lontani, anche nell’immaginario, dai territori “combat” dei Public Enemy, anche perché il collettivo non si muove su uno sfondo metropolitano, bensì nell’ambiente rurale della Georgia. Tra citazioni blues e presenze femminili in formazione, un unicum nella scena hip hop che vende cinque milioni di copie e vale ai suoi autori un Grammy come migliore band emergente, anche grazie al traino di un singolo delizioso come Mr. Wendal.

“Dry” PJ Harvey (marzo 1992)

La cosa più entusiasmante accaduta al rock indipendente britannico fra l’uscita di Screamadelica e l’esordio degli Suede è l’opera prima di un trio che, fin dal nome, ha il suo centro di gravità nella ventitreenne cantante e chitarrista Polly Jean Harvey. Cresciuta in una fattoria nel Dorset, sfugge alle classificazioni perché non somiglia a nessuno dei suoi contemporanei. «Non conosco la scena musicale di oggi, e quindi presumo di non esserne influenzata», dichiara al New Musical Express. Quelle contenute in questo disco sono moderne canzoni blues, punk nell’approccio, scarnamente rock’n’roll nei suoni. Un album che è l’inizio di una carriera lunga e sfaccettata, probabilmente ancora in grado di riservare novità e sorprese.

“Going Blank Again” Ride (marzo 1992)

Due anni dopo il debutto di Nowhere, tuttora uno dei capisaldi della storia shoegaze, i Ride fanno il bis con un album meno suggestivo ma più attento alla forma dei singoli episodi. Senza snaturarsi, il quartetto di Oxford punta a una maggiore accessibilità: se l’iniziale Leave Them All Behind e la conclusiva OX4 sono sorelle dei brani dell’opera prima, Twisterella si rifà direttamente ai Byrds e Making Judy Smile addirittura ai Beatles, aggiungendo alla ricetta shoegaze ingredienti presi a prestito dalla cucina degli insuperabili maestri della canzone pop.

“Check Your Head” Beastie Boys (aprile 1992)

MCA, Mike D e Ad-Rock riprendono in mano chitarra, basso e batteria e tornano a suonare come una band “classica”, come negli anni dei loro inizi hardcore. Ne esce un album in cui le chitarre dell’esordio Licensed to Ill convivono con i campionatori e l’hip hop senza compromessi del seguito Paul’s Boutique. Una raccolta di brani eterogenei e accessibili, tra omaggi a Dylan e Hendrix ma anche a Barrington Levy e ai Frontline, band di culto dell’hardcore newyorkese, la culla della formazione. A quest’ultima si aggiunge Money Mark, chiamato dai tre ad aggiustare una cancellata durante il soggiorno californiano per le registrazioni di Paul’s Boutique. Le sue doti di tastierista non erano certamente inferiori a quelle di carpentiere, tanto da farlo diventare in pianta stabile il quarto Beastie Boy.

“Henry’s Dream” Nick Cave & The Bad Seeds (aprile 1992)

«Un potente mix di dissolutezza ferale e bellezza surreale e inspiegabile». La sintesi retrospettiva di Mojo fotografa alla perfezione il settimo album di Nick Cave con i Bad Seeds, alla cui formazione si sono aggiunti Martin P. Casey al basso e Conway Savage alle tastiere. Il disco è stato registrato in California e scritto in parte in Brasile, per anni domicilio del capobanda, che nelle interviste racconta di canzoni fortemente influenzate dai poverissimi musicisti di strada ascoltati nel Paese sudamericano, con le loro chitarre acustiche con al massimo un paio di corde e il loro modo di porsi violento e diretto. Tra le altre fonti d’ispirazione di un album che ha in Straight to You uno dei futuri classici di Cave, la vita della mistica belga Cristina la Mirabile (per il testo di Christina the Astonishing) e il libro di poesie The Dream Songs del poeta americano John Berryman (per il titolo della raccolta).

“Slanted and Enchanted” Pavement (aprile 1992)

Un debutto che lascia a bocca aperta. Non tanto e non solo non per la solidissima scrittura dei pezzi, quanto perché è davvero difficile definire la musica del gruppo. A chi somigliano i Pavement? Un po’ ai Pixies, un po’ ai Fall, un po’ ai Sonic Youth, ma sempre in piccole percentuali. Così come piccole sono le percentuali di new wave, guitar pop e folk presenti in questo disco. E chi, dopo di loro, suonerà “alla Pavement”? Forse nessuno. Meglio allora dire che i Pavement fanno genere a sé, e andarsi ad ascoltare pigri capolavori a bassa fedeltà come Summer Babe (Winter Version), In the Mouth a Desert e Here, fra i momenti indimenticabili di un album che è stato scelto da Spin come miglior disco dell’anno e successivamente inserito da Pitchfork tra i cinque migliori degli anni ’90.

“The Southern Harmony and Musical Companion” The Black Crowes (maggio 1992)

Un album passatista fin dalla copertina, un suono fuori moda che attinge a fonti più che tradizionali. In un anno in cui tutto sembra voler rompere con il passato, la band dei fratelli Robinson riesce nell’impresa di risultare credibile ed entusiasmare anche il pubblico meno tradizionalista. Per non parlare dell’ufficio contabilità della casa discografica, che conta gli incassi di un album vendutissimo. Hard rock, country e soul si mescolano in canzoni di rara incisività, con riff che rimandano alla grande tradizione dei southern rock. Remedy è la hit che li fa conoscere al di fuori del già folto circolo degli affezionati, ma a stupire è la conclusiva Time Will Tell, omaggio quasi gospel al Bob Marley di Kaya.

“Blues for the Red Sun” Kyuss (giugno 1992)

Il sole rosso del titolo è quello del deserto della California, luogo dell’immaginario di una band che con questo album fissa i canoni dello stoner rock, realizzandone nello stesso tempo uno dei capolavori. Percentuali variabili di hard rock, blues e psichedelia compongono gli episodi di un disco acido e ipnotico, frutto dell’incontro tra sonorità provenienti dal passato ma tutt’altro che classico. Sei anni più tardi Josh Homme e Nick Oliveri si ritroveranno nei Queens of the Stone Age, senza tuttavia ripetersi quanto a originalità e suggestione.

“It’s a Shame About Ray” Lemonheads (giugno 1992)

Rispetto a molti altri album di questa lista, la mezz’ora scarsa di musica firmata da Evan Dando è stata oggi largamente dimenticata. Ed è un peccato, perché si tratta di una clamorosa raccolta di canzoni pop, in cui il musicista di Boston suona come un Gram Parsons anni ’90, alla velocità dei Ramones, con una presenza scenica e una voce perfette per farne un sex symbol della generazione X. Forse è stata proprio l’attenzione dedicata al personaggio (e non al musicista) Dando a far passare in secondo piano il valore di un album ingiustamente ricordato soprattutto per la pur bellissima cover di Mrs. Robinson, in realtà aggiunta solamente nelle ristampe e non presente nell’edizione originale.

“Your Arsenal” Morrissey (luglio 1992)

Prodotto da Mick Ronson, il terzo album solista di Morrissey è decisamente uno dei migliori della sua carriera post Smiths, ma è senz’altro in grado di non sfigurare anche accanto agli illustri antecedenti della band di Manchester. Merito di canzoni assai ispirate, dall’agrodolce gusto glam. Come la pungente We Hate It When Our Friends Become Successful e il ritratto dal vero di The National Front Disco. Proprio quest’ultima, assieme alla bandiera britannica in cui si avvolge a Finsbury Park aprendo il concerto dei Madness, costerà al cantante accuse di nazionalismo e polemiche infinite.

“U.F. Orb” The Orb (luglio 1992)

Dopo Technique dei New Order (1989), Pills ‘n’ Thrills ‘n’ Bellyaches degli Happy Mondays (1990) e Screamadelica dei Primal Scream (1991), il filotto degli album che si fanno beffe della distinzione tra rock, dance ed elettronica viene completato dal secondo album del collettivo guidato da Alex Paterson. Techno, house, dub e ambient convivono in maniera più che pacifica in un ibrido che del rock, più che i suoni, conserva lo spirito e una giusta dose di follia: quella che porta a pubblicare un singolo come Blue Room, 40 minuti di divagazioni con il maestro del dub Jah Wobble al basso e il produttore Steve Hillage alla chitarra.

“Dirty” Sonic Youth (luglio 1992)

Hanno firmato per la Geffen prima dei Nirvana, poi hanno assistito al clamoroso successo commerciale della band di Seattle. Quando esce Dirty rilasciano interviste in cui ci scherzano su («Siamo i papà dei Nirvana», dicono al New Musical Express), ma il sospetto è che ne vogliano ripetere anche i fasti commerciali, tanto da affidare produzione e mixaggio a Butch Vig e Andy Wallace, il duo di Nevermind. Ne esce l’album più accessibile tra quelli pubblicati fino a quel momento, forse quello più vicino al rock classico, anche se non mancano omaggi espliciti al mondo a cui i Sonic Youth non smetteranno mai di appartenere, come la presenza di Ian MacKaye dei Fugazi in Youth Against Fascism, la cover di Nic Fit degli Untouchables, gruppo hardcore fondato dal fratello Alec MacKaye, e la JC dedicata a Joe Cole, roadie dei Black Flag ucciso durante una rapina mentre si trovava in compagnia di Henry Rollins. Sono ancora i Sonic Youth, ma non quelli a cui il loro pubblico era abituato. Del resto Kim Gordon, citata da Michael Azerrad nel suo American Indie l’aveva detto chiaro: «Siamo stati così influenti perché abbiamo mostrato alla gente che si può suonare ogni tipo di musica si desideri».

“Dirt” Alice in Chains (settembre 1992)

Fra gli album-simbolo della stagione d’oro del grunge, quello della formazione di Seattle è forse il più vicino al metal, declinato attraverso massicce dosi di hard rock e psichedelia. A conferire unicità al suono della band è l’eclettismo della chitarra di Jerry Cantrell, ma è la voce di Layne Staley a rendere indimenticabili i gridi di dolore di brani come Junkhead e Down in a Hole, i cui testi sono allusioni tutt’altro che sfumate alla propria esperienza di tossicodipendente, conclusasi tragicamente con la morte del cantante, avvenuta dieci anni dopo l’uscita di questo album.

“Us” Peter Gabriel (settembre 1992)

Dopo il botto commerciale di So, album variegato e a tratti pirotecnico trasformatosi col tempo in una splendida raccolta di singoli, l’ex Genesis torna dopo ben sei anni con un disco apparentemente più meditato, senz’altro più omogeneo. Co-prodotto da Daniel Lanois, la cui mano si sente parecchio, allinea canzoni molto intime che raccontano di difficoltà personali (il matrimonio di Gabriel è finito da poco) ma anche della voglia di guardare avanti. Come negli album che l’hanno preceduto, le sonorità non sono propriamente rock, ma mescolano musiche provenienti da diverse parti del mondo per trarne un pop dal sapore unico, anche grazie all’inconfondibile voce del cantante. Notevole la sfilata di musicisti che hanno partecipato alle registrazioni: oltre agli ormai abituali Tony Levin (basso), David Rhodes (chitarra) e Manu Katché (batteria), si ascoltano tra gli altri le voci di Sinéad O’Connor e Peter Hammill, le tastiere di Brian Eno e il basso di John Paul Jones.

“Copper Blue” Sugar (settembre 1992)

Dopo la cupezza dei primi album solisti post Hüsker Dü, Bob Mould torna a suonare in trio e assieme a Dave Barbe (basso) e Malcolm Travis (batteria) sforna l’album che non ti aspetti, pieno di brani pop obliqui ed elettrici. Come il singolo A Good Idea, omaggio ai Pixies tanto conforme all’originale che potrebbe stare direttamente su Doolittle. Fra le poche band statunitensi messe sotto contratto dalla Creation di Alan McGee, gli Sugar colgono con questo “esordio” una significativa vittoria in trasferta anche sulle pagine della stampa britannica, aggiudicandosi il titolo di album dell’anno sia per il settimanale New Musical Express, sia per il mensile Q.

“Automatic for the People” R.E.M. (ottobre 1992)

Mentre si godono l’enorme successo di Out of Time (1991), i R.E.M. decidono di non andare in tour. In compenso girano cinque diversi studi di registrazione nei quali, in un anno intero di lavoro, pensano e ripensano alle loro nuove canzoni. Ne esce un album che racconta di una band in stato di grazia, tanto che anche nel resto degli anni ’90 i R.E.M. non sbaglieranno un colpo. Meno elettrico e più downtempo dei dischi precedenti, si poggia su grandi canzoni a volte impreziosite dagli arrangiamenti orchestrali di John Paul Jones. Come l’affresco di gioventù di Nightswimming e la struggente accettazione dei propri limiti di Everybody Hurts. Vendutissimo, non fa rimpiangere i risultati commerciali del disco che l’ha preceduto e viene scelto da Melody Maker e dall’edizione americana di Rolling Stone come album dell’anno.

“Rage Against the Machine” Rage Against the Machine (novembre 1992)

Nello stesso anno della rivolta legata al caso Rodney King, da Los Angeles arriva l’opera prima di una band che mette in copertina la foto di un monaco vietnamita datosi fuoco per protestare contro le limitazioni alle manifestazioni del credo buddista. La foto è del 1963, ma l’album è più attuale che mai, un esordio dirompente nei suoni e nei messaggi. Il primo si può riassumere in una sola parola: crossover, l’incrocio tra rap (il cantato di Zack de la Rocha), hard rock (la chitarra di Tom Morello) e funk (il basso di Tim Commerford e la batteria di Brad Wilk). Altri (dagli Urban Dance Squad ai Red Hot Chili Peppers) l’avevano fatto in precedenza, ma il plus di questo album è dato dai messaggi contenuti nelle canzoni: dall’esplosivo singolo Killing in the Name, che si scaglia contro le istituzioni militari, alla conclusiva Freedom, che invoca la liberazione dell’attivista politico nativo americano Leonard Peltier.

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