Rolling Stone Italia

I 25 migliori album italiani del 2024

L’album che manda gli altri rapper dallo psicologo, il lavoro più intimista dell’antistar del nostro pop elettronico, la nostra migliore popstar d’esportazione, la trapper più ascoltata d’Italia. E il disco che metti su quando leggi la classifica FIMI e ti deprimi

Artwork: Stefania Magli. Foto: Simone Cecchetti (1), Nicholas Garlisi (2), Giulia Bersani (3), Andrea Ariano (4), Andrea Bianchera (5)

25

Club Dogo

Club Dogo

Nessuno si aspettava una loro reunion, ma Guè, Jake e Don Joe probabilmente la pensavano diversamente. Così, a 10 anni di distanza dall’ultimo disco, Non siamo più quelli di Mi Fist, i Dogo sono tornati per riprendersi tutto, non solo il primo posto in classifica. Si sono tolti lo sfizio di presentare il disco nel tempio del design meneghino della Triennale, riempire 10 palazzetti a Milano e addirittura un San Siro. Club Dogo, di per sé, è pura essenza Dogo: dalle punchline al boom bap. Un ritorno a casa. (MB)

24

Realtà aumentata

Subsonica

Il suono di un gruppo in cui l’insieme eccede la somma delle parti, ovvero musicisti che si sono guardati in faccia e si sono domandati: vale la pena continuare? La risposta è sì, vale la pena. Magari usando uno stile consolidato, che nel 2024 diamo per scontato se non superato, per mettere in musica due o tre cose sul mondo in cui viviamo. Tra mestiere e “magia”, i Subsonica continuano ad essere una bella anomalia. (CT)

23

Panorama Olivia

Coca Puma

Un esordio che ci ha fatto rizzare le orecchie è sicuramente quello della cantautrice romana che ha buttato fuori un disco come Panorama Olivia: 10 tracce difficili da incasellare e in cui soul, nu-jazz, pop e cantautorato convivono in maniera armoniosa e semplice. Un disco che vi farà entrare in un mondo sonoro decisamente personale, oltre che un ottimo inizio. (FF)

22

New Bianchini

Whitemary

Lei sì che sa far funzionare assieme musica elettronica da ballare e pop. Trasversalmente fiera tra club e canzone, Whitemary piazza un altro disco per arricchire il suo percorso sonoro. Forse meno intrigante del precedente Radio Whitemary, ma sicuramente piacevole, ben prodotto (la cura dei suoni colpisce e l’amore per il dettaglio sonoro si percepisce), con una personalità che manca a gran parte della scena. (MB)

21

Poké melodrama

Angelina Mango

La bella confusione di Angelina Mango, talento in ascesa del nostro pop. Poké melodrama è un romanzetto di formazione ballabile, autobiografia colorata, mai malmostosa, intensa il giusto d’una ragazza cresciuta a Lagonegro, in Basilicata, con un padre morto quando lei aveva 13 anni, un fratello con cui immaginare d’essere nelle Cronache di Narnia, i casini nella testa tipici delle adolescenti, una vita da capire e da inventare. È un mix di festa di piazza italianissima e aspirazioni internazionali che funziona soprattutto nei pezzi autobiografici intensi e nelle smattate in cui Mango balla sui traumi. (CT)

20

Pista nera

Post Nebbia

“I genitori di Leonardo sono pregati di venire a prendere il figlio presso il rifugio Pista Nera in cima alla seggiovia”, dice la voce all’altoparlante che apre l’album, dando il via a una musica inquietante. Il piccolo Leonardo siamo tutti noi perduti in questo presente senza futuro, che i Post Nebbia cantano col loro stile ormai collaudato (ricordate quand’erano nella nostra Classe 2020?), questa volta con un suono più live e tagliente, con meno ironia e più disincanto. Desolazione padana. (CT)

19

Closer

Maria Chiara Argirò

Sarà che vivere a Londra aiuta a non incespicare nel mare magnum della poca qualità generalizzata della musica italiana di oggi, ma Maria Chiara Argirò oltre alla coolness inglese ha dell’ottimo talento tutto italiano di partenza. Closer unisce intimità ad accenni club e – come accade sempre alle cose belle – è stato più considerato dalle più importante testati musicale internazionali che dall’industry italiana. Per fortuna c’è chi prova ancora a unire i due mondi. (MB)

18

Nuovospaziotempo

Emma Nolde

Emma Nolde si ostina a fare bei dischi, scritti bene, prodotti bene, eseguiti bene. Nuovospaziotempo è il terzo in tre anni per la cantautrice toscana, una prospettiva critica sul mondo veloce, frenetico e abbacinante che abitiamo. Dentro ci troviamo anche Niccolò Fabi, il cantautore che l’ha ispirata a cimentarsi con l’italiano, e che qui chiude un cerchio nella carriera di Emma. (MB)

17

Māyā

Mace

Il passo fuori dal mucchio che Mace ha compiuto negli ultimi tre anni, da quel fortunatissimo Obe del 2021 seguito l’anno successivo dall’ancora più azzeccato Oltre, è stato esaltante. In questa tripletta c’è anche Māyā, probabilmente quello dall’ascolto più complesso, ma che resta due spanne sopra la maggior parte dei dischi di molti colleghi. A ricordarci che un altro mainstream è possibile. (FF)

16

Radio Sakura

Rose Villain

Nel seguito di Radio Gotham, arrivato dopo il successo sanremese, Rose mette in scena un mosaico in cui mostra un lato più intimo. Questo è un disco in trovate pop, rap, elettronica, latin e in cui la popstar ha messo più a fuoco il suo sound, rendendolo meno scuro. Let the sunshine in. (FF)

15

Giorni felici

La Rappresentante di Lista

Dopo i pezzi superpop, due Sanremo, il Ciao ciao con Belén Rodriguez, La Rappresentante di Lista è tornata con un disco pieno di canzoni sempre cantabili, ma con uno spirito da band anni ’90, qualcosa di naïf mescolato a un pizzico d’inquietudine, come nel quadro in copertina. «Viene in mente un modo di dire in palermitano: “Se n’è iu u babbìu”. Non è più il tempo di scherzare, di camuffare le cose, di fare giri di parole, di addolcire la pillola», raccontano nella nostra digital cover. (CT)

14

Estradas

Nídia & Valentina

Da un lato Valentina Magaletti, la musicista con cui tutti vogliono collaborare (tra i vari che ci sono riusciti troviamo Philip Selway dei Radiohead, Thurston Moore, Nicolás Jaar), dall’altro la producer portoghese di kuduru Nídia. Da un lato i beat di Nídia, dall’altro le percussioni imprevedibili di Valentina. Estradas è il più internazionale dei dischi “italiani”, se ci passate questa libertà, e non a caso ha conquistato i festival e i club più cool d’Europa con i ritmi che costringono i piedi a un movimento continuo. (MB)

13

Berlinguer. La grande ambizione

Iosonouncane

Ci sta eccome fra i dischi dell’anno questa colonna sonora che accompagna il film di Andrea Segre con Elio Germano sugli anni ’70 di Enrico Berlinguer. Per il tema principale, che in I funerali di Enrico è intonato da Daniela Pes e che è solenne senza essere pomposo, grave senza essere disperato, sereno senza essere allegro, popolare senza essere grossolano. E per il modo in cui Iosonouncane traduce in suoni la «grammatica dell’inconscio» del segretario del PCI. «Se la gente esce commossa dal film», ci ha detto Germano, «lo si deve anche alla musica». (CT)

12

Un segno di vita

Vasco Brondi

Stai a vedere che facendo un disco più lineare, semplice, al tempo stesso pop e impopolare, a suo modo classico, Vasco Brondi ha trovato la strada giusta per mettersi alle spalle le canzoni imperfette ma folgoranti delle Luci della Centrale Elettrica. Senza rinnegare quel linguaggio, ma abbracciando più calorosamente i suoi personaggi, quasi confortando loro e noi, come nel caso di Sara, che crede in chi grida nei dischi. Sono canzoni cantabili in coro, una cosa per niente facile per uno come Brondi. (CT)

11

Alaska Baby

Cesare Cremonini

Lo ha definito un disco «vitale come un esordio»: 12 tracce in cui si mescolano Brit pop, canzone d’autore, groove ipnotici alla Beck e ritornelli che omaggiano i Beatles, il tutto condito da collaborazioni che sono diventate «amicizie e amori» con Elisa (Aurore boreali), Luca Carboni (San Luca) o il pianista di David Bowie, Mike Garson in Dark Room. Non è mai troppo tardi per (ri)cominciare. (FF)

10

Icon

Tony Effe

L’ex Dark Polo Gang fa il bad boy e fa incazzare i sindaci ma, in alcune tracce, mette in mostra anche il suo lato più sensibile (se possiamo chiamarlo così). Le produzioni di Drillionaire funzionano e Tony Effe fa esattamente Tony Effe, tra hit radiofoniche (Miu Miu), spacconeria e riferimenti alla cultura hip hop. Ci vediamo a Capodanno. (FF)

9

I nomi del diavolo

Kid Yugi

C’era bisogno, nella nuova generazione di rapper, di qualcuno che tornasse a dire qualcosa dopo anni dedicati al puro swag senza contenuto. Kid Yugi è il portavoce di questa nuova wave di rapper che si riappropriano di un pezzo di storia importante dell’hip hop, del consciuos rap. Ispirato al Signore delle mosche di William Golding, I nomi del diavolo mischia letteratura e videogame, raccontando il male nelle nostre vite, compresi i morti provocati dall’Ilva. Ok, per il futuro c’è speranza. (MB)

8

Dio lo sa

Geolier

È stato l’artista italiano più ascoltato in Italia nel 2024, il quinto in Europa, nonché il vincitore morale di Sanremo 2024. Ogni anno sembra l’anno di Geolier e mentre il fenomeno Napoli sembra leggermente in discesa dopo i bagordi dello scudetto, la stella di Geolier continua imperterrita a dominare il cielo della musica italiana. Così come per Il coraggio dei bambini, anche Dio lo sa è arrivato in due atti, per una quantità importante di ottima musica. Lui che è erede della tradizione napoletana della parola sul ritmo (citando Enzo Avitabile) continua a mettere mattoncini per quella che pare essere una carriera diversa da ogni altro rapper della sua generazione. Lui, Manu de oro, lui sì rimarrà. (MB)

7

Third

The Winstons

Un pezzo di 12 minuti e mezzo su una sorta di Benjamin Button che nasce anziano e torna embrione. Una canzone spudoratamente beatlesiana. Una ballata che dondola tra un’atmosfera e l’altra. Un brano che sembra assemblato cucendo varie jam. Un’allucinazione psichedelico-naïf che fa molto anni ’60. Un titolo che rimanda ai Soft Machine e in generale una facilità d’ascolto inedita per il trio formato da Roberto Dell’Era, Enrico Gabrielli e Lino Gitto. Mettiamola così: Third è prog adatto anche a chi non hai mai ascoltato prog. (CT)

6

Vera baddie

Anna

«Vera baddie è un disco divertente», ci aveva detto in un’intervista. È vero: il primo album della rapper più streammata del nostro Paese è un manifesto di indipendenza smaltato di rosa. Feat importanti, testi da spaccona (che nasconde un cuore) e produzioni che fanno ballare tutti i teenager di questo Paese. «Io voglio poter dire le stesse cose che dicono i maschi». La baddie come modello di empowerment? Why not. (FF)

5

Stillness, Stop: You Have a Right to Remember

Any Other

Una delle cose belle di Stillness, Stop: You Have a Right to Remember è l’equilibrio tra la pulizia e la delicatezza di certi arrangiamenti, anche vocali, e il fatto che si canti con sensibilità di cercare di mettere in ordine la vita che, come per tanti, è piuttosto incasinata. Un’altra cosa bella: non sembra nemmeno un disco italiano. Non che i dischi italiani siano mediocri per definizione, ma è evidente che Any Other è fuori da ogni categoria del nostro pop e s’inserisce in una apprezzata tradizione di cantautorato anglosassone underground. È il disco di una musicista e no, non è scontato. (CT)

4

Nei letti degli altri

Mahmood

In un Paese che storicamente fatica a costruire popstar credibili ed esportabili, Mahmood è un po’ l’eccezione: NLDA, il suo terzo album, conferma quello che abbiamo scritto. Non solo Tuta Gold: è un disco maturo, solido, ma è soprattutto l’ennesimo step di una carriera unica. (FF)

3

Nevermind the Tempo

I Hate My Village

Dicono: è un manualetto per sbagliare. Sicuramente è un bell’esempio su come non fare un disco nel 2024 se si vuole andare in classifica. Loro l’han fatto comunque ed è strambo, allucinato, stranamente seducente, un album di canzoni scritte per essere tali, a differenza di quelle dell’esordio, ma comunque talmente sghembe da restare oggetti sonori da decifrare. Sembrano rebus? Andate a vedere dal vivo Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro 35), Marco Fasolo (Jennifer Gentle) e Alberto Ferrari (Verdena) e capirete tutto, d’istinto, di pancia. È uno di quegli album in cui senti i musicisti dialogare, prendersi dei rischi, metterci tutta la fantasia che hanno. Nevermind the Tempo è l’album che metti su quando leggi la classifica FIMI e ti deprimi. (CT)

2

Sulle ali del cavallo bianco

Cosmo

Il disco più intimista dell’antistar del pop elettronico italiano. Se il concept, come lui stesso ci ha raccontato, era scrivere un disco pop prodotto dagli alieni, beh, Cosmo ci è riuscito. In primis perché fare un disco pop così libero nell’Italia del 2024 è qualcosa di alieno, nel senso che son bei pochi quelli che si prendono la briga di mettersi in gioco e rischiare come l’artista di Ivrea. Un po’ romanzo borghese, un po’ trip sotto psichedelici, è quello che serve al nostro pop. (MB)

1

È finita la pace

Marracash

L’impressione, quando si ascolta un disco di Marracash, è che finalmente ci sia qualcuno che nei dischi dice qualcosa. Qualcosa di maturo. Nel terribile metaverso in cui siamo capitati, e in cui la musica è un tritacarne che produce beyond music trap per pre-adolescenti, sentire un adulto al microfono ci ricorda, e sottolinea, che un’altra musica pop è possibile. E a quel microfono Marracash ci arriva in forma come sempre, lanciando rime contro il “governo di fasci che dice frasi preistoriche”, i “casi umani che fanno passaggi da Cruciani” e il conformismo odierno. In questo deserto, un profeta. Più che un rapper, sempre più un cantautore. (MB)

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