Il 1973 è una di quelle faglie storico-sociali attorno alle quali lo scontro tra passato e futuro si fa particolarmente aspro. Come spesso accade, è l’arte a registrare le scosse con maggior nitidezza: se il cinema premia lo sguardo retrospettivo del Padrino e di Amarcord — titolo che di per sé entra nel vocabolario come «rievocazione in chiave nostalgica» — la musica realizza in quegli stessi giorni uno dei suoi più inequivocabili slanci verso l’avvenire con The Dark Side of the Moon. È un rock lanciato nello spazio siderale, ancor più che in quel primo concerto via satellite che l’anno lo aveva aperto: l’Elvis in mondovisione di Aloha From Hawaii è ormai un re detronizzato, simbolo di un ancien régime che solo pochi anni prima rappresentava il mutamento.
La nuova modernità del 1973, invece, è già tesa verso una ricerca di comunicazione globale. Quello stesso satellite che raccoglie e distribuisce l’immagine di Presley si appresta a diffondere i primi vagiti di internet e finanche dei cellulari. Ma la rapidità di connessione si trova a fare i conti con una strisciante incomunicabilità di cui proprio il disco dei Pink Floyd cerca in qualche modo di avvertirci. Anche perché c’è un altro scontro in atto, un’altra faglia aperta tra il decennio comunitario da poco concluso e quello che Tom Wolfe ribattezzerà «me decade».
Il 1973 vede l’industria discografica avviarsi verso il punto più alto della propria parabola. Un vertice di tale opulenza da rendere davvero arduo stilare una simile classifica, una top 25 pur basata su un criterio quanto mai stringente: quali opere (escludendo dischi dal vivo, collettivi e antologici) sono riuscite ad attraversare mezzo secolo di storia continuando a parlare al presente? Una domanda che ne racchiude almeno altre due: cosa le rende immortali? E quanto della musica — e, in generale, della cultura — successiva è stato anticipato e presagito?
Pur serrando le fila, non si può far a meno di lasciar fuori pietre miliari come l’esordio dei Queen, l’eponimo dei Black Sabbath, i post-beatlesiani Mind Games e Living in the Material World e gli Stones di Goat’s Head Soup. E molto resta ancora fuori: perché il 1973 è anche l’anno di tante commistioni tra rock, prog e folk, anch’esse tese alla comunicazione globale come i precursori della world music e soprattutto quell’impetuosa ondata fusion della quale ci limitiamo a citare, quasi simbolicamente, l’Herbie Hancock di Head Hunters, un artista già capace di conciliare ricerca e successo commerciale a cavallo tra territori musicali fino a quel punto così distanti. Perché in musica non tutte le faglie sono fatte per separare.
Raw Power
Iggy and the Stooges
Febbraio 1973Un vecchio adagio dell’industria musicale dice che il terzo album è quello della verità. Nel 1973 gli Stooges di Iggy Pop sono attesi all’esame della terza prova, e le reazioni che ne accompagnano l’esito non sono entusiastiche. Un eufemismo bell’e buono, se si pensa che Tony Defries, manager di Bowie e con lui promotore del nuovo disco, avrebbe ordinato alla band di rifare tutto daccapo, traumatizzato dal primo ascolto delle brutalissime Gimme Danger, Penetration, Your Pretty Face Is Going to Hell. Ma è proprio quell’inedita irruenza sonora dettata dalla voce di Iggy e dalla chitarra di Jams Williamson, più congeniale al punk da venire che non agli stessi Stooges degli esordi, ad assicurare all’album una risonanza così persistente, tenendo pienamente fede al titolo.
The Dark Side of the Moon
Pink Floyd
Marzo 1973Cos’altro si può dire che non sia mai stato detto in mezzo secolo di fruizione? Nulla, probabilmente. Nulla può spiegare razionalmente l’aura mistica che sin dai primi ascolti ha circonfuso solchi e copertine. Nulla può convincerci che un album del genere possa essere legittimamente inserito in qualsivoglia genere musicale predefinito, come si cerca di fare periodicamente dal giorno della sua uscita. Nulla può parafrase una canzone sulla morte espressa senza parole, solo un pianoforte degno di un redivivo Debussy e il tripudio di una voce femminile altrettanto inspiegabilmente rimasta ferma lì, nello spazio siderale. Musicalmente è un miracolo, sul quale potrebbero essere d’accordo perfino Gilmour e Waters. Ma il vero miracolo, oggi, sarebbe proprio questo.
Closing Time
Tom Waits
Marzo 1973Si apre con una canzone d’amore dedicata a un’automobile, questo disco d’esordio che somiglia a un notturno, non soltanto per l’ombroso ritratto in copertina di un giovane Tom Waits seduto al piano. Troppo facile reiterare il solito paragone con il whisky invecchiato, lo stesso che avrebbe grattato sulle corde vocali del songwriter di Pomona per plasmare l’inimitabile grana vocale che in questo debutto è ancora di là da venire. Midnight Lullaby, Martha e Rosie restano ancora oggi un grappolo centrale di rara intensità, e la title track, riletta nel 2023, ci fa soltanto desiderare che l’orario di chiusura venga eternamente posticipato.
For Your Pleasure
Roxy Music
Marzo 1973In questo caso, il maggior valore maturato dall’album è quello di documento. For Your Pleasure è una sorta di istantanea su disco, capace di catturare il momento preciso in cui Brian Eno sta per compiere il balzo dal proscenio del glam rock alla sperimentazione in studio, di cui renderemo conto più avanti. Un ultimo quadro sonoro di famiglia, per Brian Ferry, avvolto in un altro ritratto, quello di una giovane e sensualissima Amanda Lear in copertina. All’interno, una musica che Robert Christgau avrebbe descritto come «almost not not bad». Giudizio che forse oggi il celebre critico ritoccherebbe, rinunciando alla litòte.
Larks' Tongues in Aspic
King Crimson
Marzo 1973Lingue d’allodola in gelatina: è la ricetta gourmet dei King Crimson appena rinnovati da Robert Fripp con gli ingressi di Bill Bruford, John Wetton, Jamie Muir e David Cross. L’ingrediente principale, in dosi ancor più generose rispetto al recente passato, è l’improvvisazione collettiva. La si percepisce subito, ascoltando la lunga title track, testimonianza di un gruppo ben più disinvolto della formazione precedente. Rispetto a quel prog di prima maniera Larks’ Tongues in Aspic brilla per contrasto, oggi come cinquant’anni fa.
Houses of the Holy
Led Zeppelin
Marzo 1973Un marzo di un certo spessore, quello del 1973. Chiude la cinquina dei capolavori del mese il quinto capitolo della discografia di Plant, Page, Jones e Bonham. Che nonostante i ritardi di produzione per problemi tecnici dimostrano una tranquillità e una creatività così disarmanti che la stessa title track viene scartata dall’album, per comparire solo due anni dopo su Physical Graffiti. Una cosa mai vista. Ma stiamo parlando del disco che si apre con quella tripletta devastante formata da The Song Remains the Same, Rain Song, Over the Hills and Far Away. E pazienza se qualcuno continua a ironizzare sulla prima traccia, traendone il titolo per la propria recensione: la canzone è sempre la stessa. In fin dei conti è proprio quello che caratterizza i classici.
Aladdin Sane
David Bowie
Aprile 1973Per il certificato di immortalità basterebbe l’iconografia, quel fulmine sull’occhio destro, celebrato marchio della buonanima di David. Il quale porta in scena un nuovo alter ego, che nel giro di tre mesi decreterà la fine (prematura?) del povero Ziggy Stardust. Cogliendo con acutissimo fiuto lo spirito dei tempi, la nuova creatura si muove lungo un tour dell’orrore statunitense — per ogni brano, una città ispiratrice — impressionante oggi come allora. Una scrittura che a sua volta è figlia del caos e degli eccessi del tour reale, incasellato lungo l’agenda del primo Bowie produttore, già incontrato tra le tracce di Raw Power. Da quel caos a stelle e strisce deriverà un viaggio agli inferi risolto solo tre anni dopo con la fuga berlinese.
Desperado
Eagles
Aprile 1973L’altra faccia dell’America, quella più tradizionale e perciò reazionaria, la troviamo sulla copertina del secondo album degli Eagles. Una retorica da far west per un concept ispirato alla banda di Bill Doolin e dei fratelli Dalton, fuorilegge di fine Ottocento le cui scorribande non possono che trovare un parallelo con quelle della banda Frey-Henley-Leadon-Meisner. Un soggetto scovato da Glenn Frey nel libro regalatogli da un vecchio amico che darà prova del suo talento nel giro di qualche mese: Jackson Browne. Desperado è un altro di quei dischi che vengono fuori alla distanza, forte di classici come la title track e Tequila Sunrise, di un sound che sta per affinarsi e di armonie vocali che nei loro passaggi più felici farebbero invidia a Crosby, Stills e Nash.
Tubular Bells
Mike Oldfield
Maggio 1973Quattro secondi. È il tempo necessario per attestare l’eterna popolarità di quest’opera prima, abbecedario eccentrico di strumenti mai così in primo piano nella storia del rock. Quattro secondi netti per esporre il tema che ormai per tutti è «quello dell’Esorcista». Ma prendendosi l’agio di abbandonarsi allo stream si riscoprono frammenti motivici e ritmici che non sapevamo appartenere al nostro orecchio collettivo. Dal punto di vista storico-discografico, peraltro, è l’album con cui ha inizio la fortuna della Virgin. Quella di Mike Oldfield invece, almeno dal punto di vista commerciale, sarebbe arrivata solo dieci anni dopo con Moonlight Shadow. Eppure il talentuoso compositore e polistrumentista sarebbe tornato più volte a Tubular Bells, emendandolo e riarrangiandolo in quattro occasioni. Un altro modo per perpetuarne la popolarità.
Countdown to Ecstasy
Steely Dan
Luglio 1973Non è il disco migliore degli Steely Dan. Non è nemmeno quello che rappresenta al meglio il loro sound, non ancora tornito e levigato con la stessa finezza che contraddistingue Aja (1977). Ma è il disco giusto per il 1973, il commento sonoro di una band il cui duo di testa Fagen-Becker capisce bene l’andazzo inserendosi in un trend (e in buona parte dettandolo) che porterà la band e i suoi ascoltatori a danzare lungo i confini di rock, pop, funk e jazz. Ascoltare oggi Bodhisattva ammirando le immagini burroughsiane in copertina è un autentico esercizio di rievocazione storica. Ma la musica non lo è: nei suoi tratti anticipatori se ne coglie tutta l’indiscutibile modernità.
New York Dolls
New York Dolls
Luglio 1973I New York Dolls firmano il loro capolavoro proprio al primo colpo. Il che è coerente con la loro storia di eccessi e con la vetusta parabola dell’angelo bruciato troppo in fretta, facilmente applicabile alla morte del leader Johnny Thunders e a quella ancor più prematura del batterista Billy Murcia, annegato in una vasca da bagno all’immediata vigilia del loro primo ingresso in studio. Di tutto ciò porta le stigmate l’eponimo album aperto dall’urlo di Personality Crisis, brano che traccia una linea di diretta consanguineità con i T. Rex, gli MC5 e soprattutto gli Stooges, nell’albero genealogico che di lì a poco porterà all’acida fioritura del punk. A quel punto, coerentemente con la caducità che li contraddistingue, i New York Dolls non ci saranno già più.
Innervisions
Stevie Wonder
Agosto 1973Tre giorni dopo l’uscita di questo disco Stevie rimane coinvolto in un gravissimo incidente d’auto che lo porta a un passo dalla morte. Uscito dal coma, riceve le visite del manager Ira Tucker, che cerca di rassicurarlo sul fatto che sarà ancora in grado di suonare come prima. «Gli portammo il suo clavinet in ospedale. Aveva paura a toccarlo, non sapeva se sarebbe stato capace di suonarlo. Poi finalmente si decise… Non lo dimenticherò mai». L’immenso e illeso talento di Stevie è tutto in questo capolavoro, premiato dai Grammy come album dell’anno, ma giunto fin qui in virtù di quella stessa visione interna evocata dal titolo, la cui ampiezza abbraccia funk, soul, jazz, pop, afro e latin. Tutto condensato in un unico groove, a cui è tuttora impossibile resistere.
Let’s Get It On
Marvin Gaye
Agosto 1973Oggi probabilmente meriterebbe la fascetta “Parental Advisory: Explicit Content”. Mai prima d’allora il sesso era stato così liberamente trattato in musica: tanto che Let’s Get It On potrebbe essere legittimamente interpretato come contraltare del socialmente impegnato What’s Going On. Più semplicemente, il range espressivo del compianto Marvin gli permette di dar voce in maniera altrettanto credibile a istanze e pulsioni che vanno dal politico al personale. È quasi freudiano, anzi, il legame istituito tra le sorti e le turbative di quei temi, rimasti al centro del discorso black music nei cinque decenni successivi.
Brothers and Sisters
The Allman Brothers Band
Agosto 1973Brothers and Sisters è l’atto inaugurale dell’epoca post-Duane Allman, la cui morte è replicata un anno dopo da quella di Berry Oakley, anch’egli vittima di un incidente motociclistico sulle stesse strade di Macon, Georgia. Le più tangibili conseguenze musicali vedono Dickey Betts assumere il ruolo di leader accanto al fratello superstite, addirittura sorpassato dal punto di vista compositivo per quantità e qualità dei brani. Ramblin’ Man e soprattutto la celeberrima Jessica portano la firma di Dickey e fanno da traino per il primo successo commerciale della band, proprio nel momento più tragico della sua carriera.
Future Days
Can
Agosto 1973Jazz, funk, kraut rock e prog in salsa elettronica, con piglio tutto teutonico, della cui cultura risente anche l’aspetto maggiormente improvvisativo, anch’esso chirurgicamente calcolato da Michael Karoli, Irmin Schmidt e Jaki Liebezeit. Batterista, quest’ultimo, che ancora oggi potrebbe competere con le drum machine quanto a precisione (e anche a freddezza). Stiamo parlando comunque di un progetto che arriva al rock partendo dai territori di Stockhausen, promotore in prima persona presso i suoi allievi Holger Czukay e Schmidt. E soprattutto stiamo parlando di un unicum, il solo vero esponente di quella che all’epoca sarebbe stata chiamata “musica cosmica”. Vale la pena riscoprirlo.
Selling England by the Pound
Genesis
Settembre 1973Nel 1973 l’Inghilterra si vende un tanto al chilo, con un’ipocrisia socio politica che ha dell’atemporale, magnificamente raccontata attraverso un’arte musicale altrettanto fuori dal tempo. In questo senso, Selling England by the Pound resta un formidabile classico, non fosse altro che per la capacità di rintracciare nell’epoca vittoriana tanto le radici di quel vizio nazionale quanto lo stesso linguaggio adoperato per criticarlo. L’austerità che sta per travolgere le economie mondiali si rispecchia in quell’autarchia tutta britannica che ha già in sé i semi della futura Brexit (e di ciò sembrano essere consapevoli anche i Jethro Tull del contemporaneo A Passion Play). Dal letame nascono i fiori, direbbe il poeta: tali sono gli epici otto minuti di Firth of Fifth e la successiva, dolcissima, More Fool Me.
Berlin
Lou Reed
Ottobre 1973Su invito del produttore Bob Ezrin, che gli rimprovera di lasciare in sospeso le trame delle sue canzoni, Lou Reed decide di dare un seguito in forma di concept album all’omonimo pezzo già apparso nel suo primo LP solista. Calata nella frammentata Berlino degli anni ’70, l’ultradeprimente love story dei due amanti si snoda lungo una trama dalle tinte nerissime, in un’escalation di paranoia, schizofrenia, tossicodipendenza, violenza domestica, depressione e suicidio. Il tutto accompagnato da un’inedita pesantezza orchestrale. Un mix che la critica del tempo stronca quasi unanimemente etichettando il disco come un disastro. Salvo poi fare l’abituale inversione a U, fino a considerarlo il capolavoro dell’artista americano.
Goodbye Yellow Brick Road
Elton John
Ottobre 1973In questo caso non serve nessuna inversione, giacché lo sfavillante doppio di Elton resterà in vetta alle charts americane per otto settimane, viaggiando per un periodo ancor più lungo in zona podio praticamente in tutti i paesi di area anglofona (in Australia, addirittura, è tuttora l’album più venduto di tutti i tempi). A cosa si deve questa fortuna critica? I riferimenti al Mago di Oz contenuti sin dal titolo depongono per una lettura che nel 1973 è quanto mai condivisa: il passaggio dall’età dell’innocenza alla maturità non è affare soltanto del giovane Reginald Kenneth Dwight, come dimostrerà la doppia vita di Candle in the Wind. In secondo luogo, i testi di Bernie Taupin raggiungono forse il maggior grado di simbiosi con le linee melodiche dell’interprete. Ed è forse proprio la capacità interpretativa di Elton a fare la differenza, specie in un momento che si pone come apice della sua stagione migliore, prima di una lunga e sdolcinata decadenza pop.
Burnin’
The Wailers
Ottobre 1973Tra i tanti generi citati dal doppio di Elton John non può mancare il reggae giamaicano, che in quegli anni esplode a livello internazionale. Basati per l’ultima volta in modo paritario sul duo Marley-Tosh, i Wailers si concentreranno poi attorno a un unico leader assumendo la denominazione Bob Marley and The Wailers. Nel 1973 la band pubblica due album, ma la schiettezza di Burnin’ — in buona parte figlia proprio delle tensioni tra i due membri più carismatici — fa presto a prevalere sul più morbido Catch a Fire, foggiato dalla Island Records a misura del mercato internazionale. Dopo soli sei mesi Burnin’ riesce a rendere globali le vere radici del reggae, distillando quel Trenchtown sound destinato a sconvolgere proprio per la sua autenticità, così lontana dall’eurocentrismo musicale.
Quadrophenia
The Who
Ottobre 1973Nell’anno che porta sul grande schermo Jesus Christ Superstar, c’è chi punta con decisione in direzione dell’opera rock. Format, tra l’altro, già sperimentato egregiamente quattro anni prima con il leggendario Tommy. Stavolta Pete Townshend opta per un racconto più realistico, mettendo in musica e versi alcune dinamiche della società britannica vissute in prima persona attorno alla metà degli anni ’60. Un conflitto che trascende il dualismo tra mod e rocker, una schizofrenia che va ben oltre la bipolarità: il protagonista della storia è scisso in addirittura quattro, come la stessa band (che vive un primo momento di dissociazione a vantaggio dei rispettivi progetti solisti) e come lo stesso album, diviso in due vinili e quattro facciate: Quadrophenia.
For Everyman
Jackson Browne
Ottobre 1973Il miglior commento alle doti compositive del giovane Jackson Browne, qui al secondo album, lo elargisce Glenn Frey in un documentario sui primi anni degli Eagles. Raccontando di quando lui e Don Henley cercavano ispirazione e metodo per iniziare a scrivere materiale originale, ringrazia il destino che li vide condividere un minuscolo appartamento nella periferia losangelena, proprio sopra a quello di Jackson. «Ogni mattina sentivamo il suono del suo pianoforte attraverso il pavimento. Suonava una strofa e la ripeteva, anche venti volte di fila finché non otteneva ciò che voleva. Poi la strofa successiva, altre venti volte, e così per ore e ore. Dopo non so quanti giorni capimmo: è così che si scrive una canzone. Jackson ha cambiato la nostra vita». Non solo quella dei suoi vicini di casa, aggiungerei.
Head Hunters
Herbie Hancock
Ottobre 1973In questo densissimo ottobre del ‘73 c’è spazio anche per la fusion, movimento con cui la cultura occidentale (non soltanto musicale) è tenuta a confrontarsi con attenzione. In questa sede ci limitiamo a menzionare un solo esempio, forse il più diffuso a livello mondiale, tra gli album che in quest’anno continuano a mescolare gli stilemi jazz con la potenza elettrica del rock. Una commistione verso la quale, curiosamente, Hancock non era neppure così propenso, prima che Miles Davis lo sottoponesse alla doppia terapia In a Silent Way-Bitches Brew. Dopo il transitorio lavoro solista Fat Albert Rotunda (1970) e gli avanguardistici Mwandishi (1971), Crossings (1972) e Sextant (1973), la quadratura del cerchio arriva con Head Hunters, ancora oggi tra gli album più venduti della storia del jazz. Ma e poi jazz, questo?
(No Pussyfooting)
Brian Eno & Robert Fripp
Novembre 1973Nel 1963 il compositore Terry Riley aveva iniziato a comporre “musica ostinata”, escogitando uno strumento per creare loop attraverso la sincronizzazione di due macchine a nastro: il Time Lag Accumulator. In pratica il nonno della loop station, e il padre dei Frippertronics sviluppati in seguito da Robert Fripp. Il quale, dieci anni dopo, riprende assieme a Brian Eno l’idea di Riley. Fripp siede davanti al registratore con la chitarra, Brian si occupa di attivare a suo piacimento la registrazione, su cui poi il primo improvviserà in sovraincisione. Il tutto per un progetto puramente sperimentale, decisamente avanti per i tempi. Non solo per quelli di cinquant’anni fa.
The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle
Bruce Spingsteen
Novembre 1973Nell’anno del debutto il Boss sforna ben due album. Non appena calano le vendite (in realtà mai davvero decollate) di Greetings from Asbury Park, N.J., eccolo pronto a scrollarsi di dosso l’etichetta di nuovo Dylan affibbiatagli suo malgrado. Bruce si rinchiude nuovamente tra le pareti del Blauvelt, studio newyorkese low cost, mentre la casa discografica già brandisce il benservito. Ma questo secondo tentativo si rivela una cornucopia di hit, con un sound incredibilmente più coeso e maturo rispetto all’esordio. La chitarra elettrica del Boss si riprende lo spazio che gli è dovuto, e attorno al leader è percepibile il compattarsi della futura E Street Band (aspettando Little Steven). Infine i versi, «straordinari amalgami di romanticismo e crudo realismo», come si legge nella coeva recensione di Rolling Stone. Alla Columbia Records, insomma, si ricrederanno molto in fretta.
Band on the Run
Paul McCartney and Wings
Dicembre 1973Le ferite sono ancora aperte, a tre anni dal più doloroso scioglimento di sempre. E nel 1973 ognuno le lenisce come meglio può, pubblicando un album solista. Se John sfiora le vette di Imagine in Mind Games e George continua a meditare sul tema Living in the Material World, Ringo ha il merito di riunire la band quantomeno nei crediti di copertina (i tre ex Beatles suoneranno su tracce separate del suo LP eponimo). Ma il risultato migliore lo raggiunge senza dubbio Paul, che stanco della nebbia londinese decide di volare verso Lagos per incidere il disco negli studi nigeriani della EMI. Pessima idea, considerando le apparecchiature scadenti, il jet lag e la rapina a mano armata con cui vengono accolti. Ma alla fine ci sta, e le sue (dis)avventure si scoprono in linea con quelle narrate nella superba suite rock che apre e intitola il suo miglior album post Beatles, e che viene premiata con il Grammy come miglior performance di gruppo. Chissà se per un attimo gli altri tre avranno avuto nostalgia dei bei tempi.