10. “Catenaccio” di Tom Cawley
Il disco più “Weather Report” di questa lista è l’esordio solista di un pianista, compositore e professore alla Royal Academy of Music, Tom Cawley, che per il sistema di gioco più odiato del mondo ha composto un delicato frullato di bossa nova, sintetizzatori e voce. Catenaccio è il primo disco jazz dedicato alla Serie A e, tra pezzi con titoli memorabili come Zona Mista, Regista e Rabona, vi farà muovere molto di più dei calciatori che applicano con quel sistema ogni domenica allo stadio.
9. “The Oracle” di Angel Bat Dawid
Per il Guardian Angel Bat Dawid è la “stella più luminosa” della nuova scena jazz, e The Oracle, il suo primo album – ispirato al personaggio omonimo di Matrix, “una donna potente che offre saggezza in un mondo andato fuori di testa”, e interamente registrato sulle note vocali dell’iPhone –, è un esordio straordinario che riporta il clarinetto nei suoni del nuovo millennio, celebrandone le infinite potenzialità timbriche ed espressive. Come se non bastasse, Angel ha anche una voce straordinaria.
8. “Polyhymnia” di Yazz Ahmed
Scritto in cinque anni su commissione per il Wow! International Women’s Day Festival di Londra, Polyhymnia è il terzo album della trombettista Yazz Ahmed, seguito dell’apprezzatissimo La Saboteuse. È un album dedicato a cinque donne coraggiose (e al movimento delle suffragette), a cui sono dedicate altrettante composizioni, tutte illuminate da influenze e stili musicali diversi. C’è 2857, scritta con approccio matematico e intitolata come il bus su cui Rosa Parks si rifiutò di cedere il suo posto; Barbara, per la sassofonista Barbara Thompson, e Lahan Al Mansour, con le sue scale e crescendo arabeggianti, dedicata alla prima regista saudita. “Volevo che i musicisti improvvisassero per raccontare la rabbia e l’orrore del razzismo, e la frustrazione di chi combatte per l’uguaglianza e ha tutti contro”, ha detto Ahmed, che in Polyhymnia sveste i panni della solista e fa un passo di lato, lasciando che la musica racconti la storia di queste donne coraggiose.
7. “A Wall Becomes a Bridge” di Kendrick Scott Oracle
«Ogni volta che vedo un muro, vedo l’ammissione della nostra fragilità», ha detto Scott. «Come potevo io, e noi come collettivo di musicisti, usare queste vulnerabilità non come punti di separazione, ma di convergenza? Tutte le note, sia scritte che non scritte, sono pensate per guidare l’ascoltatore alla scoperta di sé», ha detto Kendrick Scott Oracle del secondo album per Blue Note. A Wall Becomes a Bridge è un trionfo di melodie raffinate e grandi groove, e rappresenta il perfetto collegamento tra i suoni della tradizione e le innovazioni degli ultimi anni. Non è un caso che tra i musicisti ci sia il dj Jahi Sundance, collaboratore di Mos Def e Robert Glasper.
6. “Fyah” di Theon Cross
Theon Cross è una delle figure fondamentali della nuova scena di Londra: suona nei Sons of Kemet con Shabaka Hutchings, e la sua tuba, uno strumento come minimo trascurato, appare in tantissimi dischi della generazione che ha riportato il jazz nelle playlist dei millennial. Con Fyah, Cross dimostra di essere anche un grande bandleader, e guida il batterista Moses Boyd e la sassofonista Nubya Garcia in otto brani straordinari.
5. “Coin Coin Chapter Four: Memphis” di Matana Roberts
Aiutata da Hannah Marcus dei Godspeed You! Black Emperor e Sam Shalabi dei Land of Kush, Matana Roberts continua il suo viaggio nella memoria del popolo afroamericano con il quarto capitolo del progetto Coin Coin, questa volta dedicato a Memphis, raccontata attraverso la storia della nonna materna, cresciuta all’epoca della segregazione razziale. Si tratta di un collage sonoro in cui le testimonianze del razzismo si intrecciano con la tradizione musicale e spirituale della città, dal folk al blues, fino al free jazz. Illuminato da cori gospel, violini, chitarre, arpa, fisarmonica, vibrafono e ovviamente il sassofono, Memphis è un disco incredibilmente denso, difficile da approcciare, ma che ha lo spessore di una tesi di dottorato, capace di contenere la storia di una donna, di una città e la tradizione musicale di un popolo.
4. “KingMaker” di Joel Ross
Joel Ross è il musicista jazz dell’anno: ha 23 anni, ha suonato con Herbie Hancock e Makaya McCraven e, con lo splendido esordio KingMaker, di cui ha firmato 11 dei 12 brani in scaletta, ha dimostrato di essere uno strumentista eccezionale – suona il vibrafono, il terzo strumento “dimenticato” di questa lista –, un compositore brillante e anche di saper sparire per lasciare spazio agli altri musicisti della band. In più, scrive melodie difficili da dimenticare e prive di ogni tipo di manierismo. Non è un caso che, nonostante sia l’esordio di un musicista poco più che ventenne, l’album è uscito per la leggendaria Blue Note.
3. “Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery” The Comet Is Coming
Sospesi tra divagazioni cosmiche ed esplosioni elettroniche degne di un rave, i Comet Is Coming sono il progetto più contaminato e affascinante del sassofonista “King” Shabaka Hutchings, e nel corso del 2019 sono diventati un po’ il nome simbolo della nuova scena londinese, collezionando una lunga serie di sold out e partecipazioni a festival di ogni tipo, tra cui l’ultima edizione di Club to Club. Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery è il loro primo album per Impulse! Records, la leggendaria etichetta che ha già accolto Hutchings e i suoi Sons of Kemet. Definito dal trio come “un souvenir di un viaggio nel subconscio”, il secondo album dei Comet Is Coming mescola il jazz più ancestrale con grime, hard rock e afrobeat, un frullato di generi unico e inconfondibile, che evoca tanto John Coltrane quanto le storie di Philip K. Dick.
2. “All My Relations” di Cochemea
All My Relations è il disco jazz perfetto per chi è incuriosito dalla nuova giovinezza del genere ma non sa da dove cominciare. Ha un respiro vintage e un groove solido, è divertente, spirituale e in alcuni passaggi persino ballabile. Ascoltarlo è come leggere un bignami di tutte le influenze che hanno attraversato il genere negli ultimi anni: funk etiope, afrobeat, elettronica cosmica, percussioni indiane e africane. In più, ha l’unico vero “singolo” jazz dell’anno: Mitote.
1. “Arrival” Fire! Orchestra
“Credo che il disagio che proviamo di fronte alla musica difficile dipenda dal fatto che ci sentiamo minacciati dalle cose che non capiamo, e le allontaniamo”, ha detto Craig Richards di I Want to Like You But I Find It Difficult, la serie di concerti organizzati negli spazi di Fondazione Prada a Milano. L’esempio perfetto, per il dj londinese, è proprio il jazz, che nella musica della Fire! Orchestra assume la forma più complessa e apparentemente inaccessibile che ci sia: l’improvvisazione radicale, in questo caso per un’orchestra di 14 elementi, o free jazz. A un decennio dalla sua fondazione, l’ensemble fondato dal sassofonista Mats Gustafsson ha perso alcuni elementi, ma si è arricchito di un quartetto d’archi e delle voci, soprattutto di quella di Mariam Wallentin – già nei Wildbirds and Peacedrums –, che in Arrival veste anche i panni di autrice dei testi e compositrice. Il quarto album del collettivo è un disco difficile, pieno di passaggi dissonanti e violenti, ma anche di melodie straordinarie, crescendo emozionanti, contaminazioni con blues, kraut e sonorità etniche, e persino di una cover degli Chic, At Last I Am Free. Rispetto al periodo di Exit!, il collettivo di Gustafsson ha scelto un approccio meno libero: nonostante Arrival sia stato registrato in meno di 72 ore, è il disco più “scritto” dell’ensemble. Se prima essere un collettivo significava lasciare libertà assoluta a tutti i membri, adesso sembra che l’idea si quella di comporre le differenze, di cercare di un sentimento comune. Arrival è un album violento e gentile, triste e felice, malinconico, spirituale, immenso, senza orizzonti.