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Il punk-blues in 15 album fondamentali

Non solo White Stripes. Da quello che Wim Wenders considerava «uno dei più grandi bluesmen di tutti i tempi» a Jim Jones, una selezione di dischi dove lo spirito del blues incontra il marciume del punk

Foto: Getty Images

Storicamente il punk e il blues sono sempre stati considerati due generi in antitesi tra loro: il punk ha rappresentato la rottura, la novità, il blues la tradizione, la conservazione. In realtà, questa idea si è limitata a considerare solo un aspetto del blues, la sua forma, ignorando la sua vera natura. A questa visione ha contribuito la presenza, soprattutto in alcuni artisti blues di successo, di un manierismo e un tecnicismo che hanno spogliato il blues della sua anima più ribelle e peccaminosa, della sua carica più dirompente e rivoluzionaria.

Eppure già negli anni ’60, con i gruppi garage rock e i primi lavori di Captain Beefheart all’insegna di un blues scarnificato, primordiale e non convenzionale, si sperimentava un connubio tra le strutture tipiche del blues e lo spirito dissacrante che avrebbe caratterizzato il punk propriamente detto.

Nella prima metà degli anni ’70, poco prima dell’avvento del punk, il pub rock inglese, con band quali Dr. Feelgood, Nine Below Zero e Inmates, aveva cercato di riportare il blues, il rhythm’n’blues e il rock’n’roll alle origini, alla loro essenza più cruda e selvaggia, quella di una musica istintiva, immediata, lontana da intellettualismi, dagli inutili orpelli ed eccessi del progressive rock e della psichedelia: una musica che affondava le radici nel blues, ma faceva propria l’energia e l’irruenza che saranno tipiche del punk.

La contaminazione tra punk e blues prende forma in maniera più compiuta e definita nella California di fine anni ’70, e più precisamente a Los Angeles, per opera di Chris Desjardins, meglio noto come Chris D., poeta, regista, scrittore e critico musicale della rivista punk Slash, fondatore dei Flesh Eaters, animatore della scena punk californiana di fine anni ’70, produttore dello storico album d’esordio Fire of Love (1981) dei Gun Club, guidati dal carismatico Jeffrey Lee Pierce. Saranno proprio i Gun Club a gettare le basi dell’ibridazione tra punk e blues con altri album capolavoro come Miami del 1982 e The Las Vegas Story del 1984.

Nel frattempo in Australia Nick Cave intraprende lo stesso percorso a ritroso nel tempo, prima con i Birthday Party, poi con i Bad Seeds. Come Pierce, Nick Cave viene dal punk, ma ama visceralmente il blues. Sempre in Australia, Kim Salmon, cantante e chitarrista degli Scientists, band culto mai giustamente valorizzata, dà vita a uno swamp-noise-blues psicotico e malsano (l’aggettivo “swamp” identifica il tipico suono sporco e “paludoso” del gruppo di Perth).

Per le sorti del garage-punk-blues degli anni ’90 una band fondamentale sono i Gories di Mick Collins (in seguito leader di altri gruppi di culto come i Blacktop, gli Screws e i Dirtbombs), uno dei personaggi-chiave dell’underground degli ultimi trent’anni, anima nera di Detroit e anello di congiunzione tra il proto punk di MC5 e Stooges e il soul della Motown. A lui si deve una rilettura delle radici con un approccio radicale, primitivo e selvaggio.

A traghettare, infine, il blues nel Terzo Millennio, contaminandolo con soul, funk, r&b, rockabilly, rock’n’roll, noise e punk è Jon Spencer, da più di trent’anni personaggio di culto e caposcuola dell’underground più rumoroso e deviato prima con i Pussy Galore, poi con la più nota Blues Explosion, che ha aperto la strada al successo planetario dei White Stripes di Jack White, altro brillante interprete della musica delle radici in chiave punk.

Una menzione speciale meritano, inoltre, alcune etichette dell’underground americano e non solo, come la Crypt di Tim Warren (oggi con sede ad Amburgo), le californiane In the Red di Larry Hardy e Sympathy for the Record Industry di Long Gone John, la Estrus di Dave Crider (da Bellingham, Washington), la Voodoo Rhythm di Reverend Beat-Man (da Berna), che hanno pubblicato alcuni tra i migliori dischi garage rock, garage punk, punk-blues, rockabilly e rhythm’n’blues degli ultimi anni. Hanno contribuito soprattutto ad affermare negli anni ’90 un nuovo stile musicale, all’insegna della bassa fedeltà sonora (detto appunto lo-fi), caratterizzato da un approccio primitivo e rudimentale al blues e al rock’n’roll, talvolta con registrazioni ai limiti dell’udibile. In particolare la Crypt è nota per aver pubblicato una collana di dieci raccolte dal titolo Back from the Grave, dedicate al garage punk degli anni ’60.

Quella che segue è una lista di album fondamentali, irrinunciabili, esaminati per ordine di importanza storica, seguendo anche una scansione per lo più cronologica (dai capisaldi del genere ai dischi più recenti).

“Fire of Love” The Gun Club (1981)

I Gun Club sono una band che come poche altre ha saputo coniugare la tradizione musicale americana (le radici blues, folk, country e rock’n’roll) con la lezione dissacrante del punk: da un lato il recupero del blues del Delta e del rock’n’roll delle origini, dall’altro una musica selvaggia, tribale che aveva il suo punto di forza nella personalità carismatica del leader, Jeffrey Lee Pierce (prematuramente scomparso nel 1996, consumato da una vita di eccessi, a base di alcol e droga). La loro discografia copre l’arco di un decennio (dal 1981 al 1993), ma il loro indiscusso capolavoro resta l’esordio Fire of Love, nel quale affiora l’anima rurale dei Gun Club. Jeffrey Lee Pierce era figlio della metropoli (Los Angeles) ma col cuore legato alle radici: un bluesman che finì per caso nel calderone punk, un punk-rocker che amava il blues più di ogni altra cosa. Da qui l’omaggio a Robert Johnson in Preaching the Blues, ma a rendere immortale Fire of Love sono soprattutto classici quali Sex Beat, She’s Like Heroin to Me, Jack on Fire. Uomo schivo e controverso, non estraneo a stereotipi razzisti e sessisti (in For the Love of Ivy, dedicata a Poison Ivy dei Cramps, cantava “ero a caccia di negri nel buio”). Dal regista Wim Wenders è stato definito «uno dei più grandi cantanti blues di tutti i tempi».

“Songs the Lord Taught Us” The Cramps (1980)

Anche la musica dei Cramps, un rockabilly primitivo (dalla band definito psychobilly, a indicare un rockabilly psicotico), è legata alle radici, pur con un’attitudine punk. Non sono convenzionalmente punk-blues, ma senza di loro sarebbero impensabili band della scena garage-blues contemporanea come i Gories, gli Oblivians e la stessa Jon Spencer Blues Explosion. Marchio di fabbrica del loro stile sono il canto spiritato e beffardo di Lux Interior, le chitarre asciutte e scheletriche della conturbante Poison Ivy, il ritmo monotono della batteria di Nick Knox. Una loro peculiarità è la mancanza del basso. Il loro mondo è quello della nascente scena punk-rock newyorkese che orbita attorno al locale CBGB. Registrano il primo folgorante album, Songs the Lord Taught Us, con il produttore Alex Chilton (noto anche come cantante dei Big Star), nel leggendario Sun Studio di Memphis, lo stesso nel quale incisero i primi successi Elvis Presley, Johnny Cash e Jerry Lee Lewis. In scaletta un pugno di canzoni frenetiche e incalzanti, alcune autografe (tra le più memorabili TV Set, Garbageman, I Was a Teenage Werewolf), altre cover di classici come Strychnine dei Sonics e Fever di Little Willie John.

“Prayers on Fire” The Birthday Party (1981)

Nati a Melbourne ma trasferitisi presto a Londra, i Birthday Party, guidati dalla mente malata di Nick Cave (sconvolta dagli effetti dell’eroina e dell’alcol), hanno fatto dell’eccesso e della provocazione la loro cifra stilistica e attitudinale. La loro musica, incentrata sui grugniti animaleschi di Cave e su sonorità dissonanti e inquietanti, attinge al free jazz, al rockabilly, al Delta blues e al blues “dadaista” di Captain Beefheart, trasfigurati in un blues-punk psicotico e malsano, intriso di perversione e paranoia e avvolto in atmosfere cupe e angoscianti. Iloro brani (Zoo Music Girl, Nick the Stripper, King Ink) sono scorribande sonore deviate e lancinanti, che mettono in scena un teatro dell’osceno e dell’assurdo, deforme rappresentazione del malessere e dei disagi drammaticamente vissuti da Nick Cave e compagni. La loro influenza su band come gli Scientists o i Jesus Lizard (da annoverare, questi ultimi, tra i protagonisti del rock indipendente americano di scuola noise rock) è stata decisiva.

“Blood Red River 1982-1984” Scientists (1981)

Insieme ai Birthday Party gli australiani Scientists sono stati tra i più brillanti nel rileggere il suono delle radici in chiave punk: dopo la prima fase garage punk e power pop, il loro rock’n’roll diventa allucinato e distorto, punto di incontro tra il furore animalesco degli Stooges, il rockabilly depravato dei Cramps, il blues malsano dei Birthday Party e il roots punk visionario e sciamanico dei Gun Club. Mente creativa della band è Kim Salmon, cantante e chitarrista, che muove i suoi primi passi dopo aver ascoltato l’esordio dei Ramones. Sarà tuttavia l’ascolto dei Cramps a imprimere una svolta decisiva: la band di Perth emigra prima a Sydney, poi a Melbourne, dove realizza il mini-Lp Blood Red River: in scaletta sei brani, che approfondiscono il lato oscuro e malato della band, fonte di ispirazione per buona parte del noise-punk-blues degli anni ’90 (solo per fare un nome, i Chrome Cranks). Si passa dall’angosciante Set It on Fire alla torbida e tenebrosa title-track, dalla psicosi urbana in stile Birthday Party di Revhead fino alla morbosa The Spin, dove il canto di Salmon si trasforma in un urlo declamatorio e bestiale alla Nick Cave.

“The Axeman’s Jazz” The Beasts of Bourbon (1984)

Il nome di Kim Salmon è legato anche a un’altra formazione storica del rock australiano, i Beasts of Bourbon (da Sydney). Nella loro musica il blues deviato degli Scientists si fonde con lo psychobilly dei Cramps. A guidarli è Tex Perkins, voce roca e cavernosa, un incrocio tra Lux Interior e Nick Cave. All’inizio nato come side project, il gruppo è un cantiere aperto soggetto a continui cambiamenti di organico, nel quale transitano membri di Scientists, Hoodoo Gurus, Church e Lubricated Goat. Il loro primo album The Axemen’s Jazz nasce da una session improvvisata della band in preda ai fumi dell’alcol: quattro ore di registrazioni e nessuna sovraincisione. Lo stile è inconfondibile: un ruvido e ubriaco country-blues-punk, di ascendenza stonesiana, che si snoda attraverso nove brani, tra i quali spicca una cover di Psycho (di Leon Payne, non dei Sonics). Anche se hanno avuto un riscontro commerciale molto limitato, i Beasts of Bourbon (oggi tornati a nuova vita col nome di Beasts) sono sempre stati molto rispettati e stimati dalla critica.

“I Know You Fine, but How You Doin'” The Gories (1990)

Se c’è un motivo per cui Mick Collins occupa un posto preminente nella storia del rock’n’roll più crudo e selvaggio, questo è senza dubbio l’aver dato vita ai Gories, fondamentali per le sorti del garage-blues degli anni ’90. Mick Collins (voce e chitarra) era un mod ed è proprio nella comunità mod di Detroit che conosce i futuri compagni Dan Kroha (seconda voce e chitarra) e Margaret “Peg” O’ Neill (batteria). Sarà l’ascolto delle raccolte Back from the Grave a spingerli a formare una band. Sin dagli esordi il trio di allora giovani ventenni suona un rock’n’roll grezzo, scalcinato e tribale, pervaso da spirito voodoo: ritmiche basilari e ossessive di batteria, chitarre scheletriche e l’incredibile voce soulful di Collins sono gli ingredienti del loro sound. Tre gli album pubblicati (i primi due interamente raccolti nel cd I Know You Be Houserockin’ su Crypt), dei quali il secondo rimane il migliore della discografia, registrato a Memphis sotto la supervisione di Alex Chilton (già produttore del primo album dei Cramps): una miscela graffiante ed esplosiva di rock’n’roll, soul, rhythm’n’blues, garage punk anni ’60, Bo Diddley e Howlin’ Wolf. Nitroglycerine è il loro manifesto sonoro.

“Memphis Sol Today!” Gibson Bros. (1993)

Registrato nel Sun Studio di Memphis, Memphis Sol Today! è l’atto conclusivo della band di Columbus, Ohio, formata da Monsieur Jeffrey Evans (voce, chitarra) e Don Howland (voce, chitarra), con l’aggiunta di Jon Spencer (voce, chitarra). È il loro disco più abbordabile, se messo a confronto con le cacofonie del precedente The Man Who Loved Couch Dancing (1990), e rappresenta il compimento di quel sogno rock’n’roll che da Columbus li ha portati alle meraviglie di Memphis, raccontate da Jeffrey Evans nelle note di copertina. La musica segue il percorso tracciato dal primitivo rock’n’roll dei Cramps e dal primordiale rhythm’n’blues dei Gories. Tredici i brani in tutto, per lo più cover di oscuri classici della tradizione, riletti con un approccio a metà tra ossequio e dissacrazione, tra devozione e oltraggio. Dopo lo scioglimento Jeffrey Evans proseguirà la sua avventura nei più rurali ’68 Comeback, Don Howland formerà i Bassholes, mentre Jon Spencer, dopo una breve esperienza negli Honeymoon Killers (nell’ultimo devastante album Hung Far Law del 1991), continuerà a dedicarsi al suo progetto principale, la Blues Explosion.

“Now I Got Worry” The Jon Spencer Blues Explosion (1996)

Insieme ai White Stripes la Jon Spencer Blues Explosion ha avuto il merito di portare al successo un genere che altrimenti sarebbe rimasto relegato nel circuito underground, oggetto di interesse solo di una ristretta cerchia di cultori. Dopo un passato nelle formazioni più radicali dell’underground americano (i Pussy Galore, i Boss Hog, i Gibson Bros e gli Honeymoon Killers), Jon Spencer, originario di New York, raggiunge la notorietà con la Blues Explosion, trio punk-blues e noise rock formato insieme a Judah Bauer (chitarra) e Russell Simins (batteria): niente basso in onore dei maestri Cramps. Jon Spencer (voce, chitarra) è un performer tra i più incendiari in circolazione, la sua Blues Explosion, soprattutto dal vivo, un’implacabile macchina da guerra. Il loro blues è totalmente stravolto: una centrifuga di soul, funk, r&b, punk, noise e rock’n’roll, all’incrocio tra Elvis, gli Stooges, i Rolling Stones e i Cramps. Le radici della tradizione musicale americana vengono rivisitate con un approccio brutale, punk e una (in)sana propensione al divertimento più sfrenato, al sudore e alla fisicità tipici del rock’n’roll. Dieci in tutto i capitoli principali della loro discografia, fra i quali vanno menzionati l’esordio Crypt Style del 1992 e i due capolavori Orange (1994) e Now I Got Worry (1996). Quest’ultimo unisce l’efferatezza lo-fi, la furia anarcoide degli esordi con le sperimentazioni e il “modernismo” di Orange, per un totale di 16 tracce che sono dinamite pura. Tra gli ospiti Rufus Thomas (leggenda del soul e del rhythm’n’blues), Money Mark (tastierista dei Beastie Boys) e Thermos Malling dei Doo Rag. Per i rumoristi al contempo amanti della tradizione questo disco diventerà la nuova fonte cui abbeverarsi.

“Popular Favorites” Oblivians (1996)

Gli Oblivians hanno segnato una tappa importante nella storia dell’underground americano e sono uno dei più influenti gruppi garage-punk-blues degli anni ’90. Come nella Jon Spencer Blues Explosion anche negli Oblivians le radici vengono maltrattate con selvaggia attitudine punk, radicalità lo-fi e una strumentazione scarna ed essenziale: i tre componenti della band, Greg Cartwright, Jack Yarber ed Eric Friedl, si alternano tra chitarra, voce e batteria. Gli album fondamentali del trio di Memphis sono Soul Food, Popular Favorites e Play 9 Songs with Mr. Quintron, pubblicati dalla Crypt. Il vertice della loro discografia è comunque Popular Favorites, registrato in parte a New York (da Jerry Teel, bassista dei Chrome Cranks), in parte a Memphis. Il disco è quanto di meglio si possa ascoltare in quegli anni e non sfigura accanto ai classici del genere: 16 devastanti episodi, tra blues allucinato e distorto, rockabilly e garage punk frenetico, scanzonato rhythm’n’blues e furioso punk-blues.

“Love in Exile” The Chrome Cranks (1996)

Originari di Cincinnati, Ohio, stabilitisi a New York, i Chrome Cranks proseguono il recupero delle radici in chiave punk intrapreso dagli Honeymoon Killers: con l’ingaggio del bassista Jerry Teel, ex Honeymoon Killers (alla chitarra), il convulso punk-blues della band newyorkese si fa ancora più robusto e corposo. I Chrome Cranks rappresentano il volto malato e decadente del punk-blues americano, riflesso delle laceranti contraddizioni di una metropoli come New York. Suonano un rock’n’roll imbastardito da massicce dosi di noise, garage punk e psychobilly. Il loro blues non è quello scanzonato e giocoso della Blues Explosion, ma il suo fratello sofferto, allucinato, quasi dark. Dopo il folgorante esordio omonimo del 1994 e il più raffinato Dead Cool (1995), arriva Love in Exile, il disco della maturità, nel quale affiorano spunti jazz (Hit the Sand), r&b (We’re Going Down) e tribali (The Receiver). Tra le esperienze più rilevanti successive allo scioglimento della band merita di essere ricordato il country-blues-r’n’r sgangherato e deviato dei Knoxville Girls (scomparsi dopo appena due album), con Jerry Teel, Bob Bert (ex Sonic Youth, Pussy Galore e Chrome Cranks) e Kid Congo Powers (Gun Club, Cramps).

“Bassholes” When My Blue Moon Turns Red Again (1995)

Tra le band passate in rassegna finora, i Bassholes sono la prima a rappresentare il prototipo della two-man-band: il cantante/chitarrista Don Howland (ex Gibson Bros), voce svogliata e indolente, e il batterista Lamont “Bim” Thomas (subentrato a Rich Lillash), col suo caratteristico drumming epilettico e anfetaminico. Il duo di Columbus, Ohio, rende omaggio al blues del Delta, rivisitato con stile psicotico e stralunato ed esplora la sua più genuina indole punk nel monumentale ed eclettico When My Blue Moon Turns Red Again, il migliore album della band, con 21 brani di selvaggio e infuocato punk-blues, arricchito dagli interventi di sax, organo e armonica: una musica fatta certo non per i puristi del blues, ma per chi ha già “educato” l’orecchio a suoni ostici e urticanti.

“Forgive Thee” Cheater Slicks (1997)

Nell’underground americano i Cheater Slicks si sono guadagnati la fama di perdenti del rock’n’roll. Con il loro carattere schivo, poco incline ai compromessi, refrattario alle lusinghe del music business, hanno incarnato alla perfezione un’idea di musica cruda e viscerale, chiassosa e approssimativa, che colpisce dritto allo stomaco e al cuore. Il trio di Boston (voce, due chitarre, batteria) ha in un certo senso inventato un suono: una caotica orgia a base di punk-blues, rock’n’roll sghangherato e ubriaco, disperato e ossessivo, con forti venature noise e psichedeliche. Il loro capolavoro è il doppio album Forgive Thee, che può essere considerato l’Exile on Main St. della bassa fedeltà: come quest’ultimo, è una sorta di summa dello scibile rock, riproposto attraverso una rilettura selvaggia e a elevato tasso alcolico.

“Ultraglide in Black” The Dirtbombs (2001)

Mick Collins non è un musicista qualunque. È un genio, un uomo che da più di trent’anni vive totalmente il blues, il punk, il soul e la musica delle radici. È il padre spirituale del garage-blues degli anni ’90. Dopo aver fondato gli esaltanti Blacktop (artefici dell’unico bellissimo album I Got a Bad Feeling About This del 1995), si concentra sul suo progetto principale, i Dirtbombs: due bassi, due batterie e la sua chitarra sono il biglietto da visita. La musica dei Dirtbombs è il nuovo rock di Detroit, una miscela trascinante, irresistibile di garage punk, blues, soul della Motown, aperta a influenze anni ’70 (nelle venature glam di Dangerous Magical Noise) e bubblegum pop (nell’ultimo disco Ooey Gooey Chewy Ka-Blooey!). Un amalgama che raggiunge il suo massimo equilibrio nel secondo album Ultraglide in Black: accanto a una cover dei Thin Lizzy (Ode to a Black Man) sfilano altre graffianti riletture di classici del soul e del rhythm’n’blues (Smokey Robinson, Sly Stone, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, Marvin Gaye, Barry White).

“Elephant” The White Stripes (2003)

Provengono da Detroit e sono una delle rivelazioni del nuovo millennio. Sull’onda del garage revival anni ’90 Jack White e Meg White (in origine data per sorella, in realtà moglie, poi ex) raggiungono la notorietà con il successo di vendite di Elephant (2003). Il duo si propone in una veste minimale (chitarra e batteria), scegliendo un pittoresco look rosso/bianco e allestiscono un roots rock totale, in cui si intrecciano country, folk, blues, gusto pop e radici rock’n’roll di scuola lo-fi, con qualche incursione punk. Considerato il loro lavoro più rappresentativo, il disco è trainato dal famosissimo singolo Seven Nation Army e grazie al suo riff memorabile arriva al primo posto della classifica inglese, al terzo di quella americana. Elephant è nello stesso tempo una delle ultime grandi testimonianze di una stagione gloriosa, quella appunto del punk-blues, ormai quasi giunta al termine.

“Burning Your House Down” The Jim Jones Revue (2010)

Chiunque sia alla ricerca di un valido e credibile erede di Jon Spencer lo troverà in Jim Jones. Ex cantante di Hypnotics e Black Moses, per poco più di un lustro (2007-2014) ha guidato una delle band più eccitanti ed esaltanti che il panorama underground abbia mai prodotto: la Jim Jones Revue, quintetto londinese che ripercorre trasversalmente settant’anni di storia del rock’n’roll, omaggiando le radici (Little Richard, Jerry Lee Lewis) con lo spirito iconoclasta dei figli degeneri di Detroit (MC5 e Stooges), l’urgenza e la foga del punk. Tra le urla sguaiate del leader, chitarre distorte e il martellante rintocco boogie-woogie del piano, la musica dei Jim Jones Revue non conosce un attimo di tregua, come dimostrano il brutale esordio registrato in presa diretta e il successivo Burning Your House Down, in cui la furia indomita del gruppo è incanalata in brani registrati con maggiore pulizia sonora e perizia strumentale. Finché ci saranno in giro personaggi come Jim Jones, la musica del diavolo avrà lunga vita.

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