Sono passati trent’anni dal debutto dei Foo Fighters, un lasso di tempo su cui nessuno avrebbe puntato un centesimo all’uscita di un album omonimo che a troppi era sembrato un progetto estemporaneo di una musicista rimasto improvvisamente orfano della band più influente di quel decennio. Invece quel disco scritto e suonato interamente da Dave Grohl era molto di più, era qualcosa di simile al primo album di George Harrison dopo lo scioglimento dei Beatles. Era una dichiarazione d’intenti: guardate che i Nirvana non erano solo Kurt Cobain.
Grazie anche a una leggerezza sconosciuta al compagno, con gli anni il progetto ha finito per trasformarsi in qualcosa che forse nemmeno lo stesso Dave poteva immaginare: stadi sold out, singoli nei primi posti delle classifiche e Grammy quasi regolari. Bene, bravo, bis. Eppure, chi pensava che Grohl avesse già scontato il proprio debito con la malasorte si sbagliava. Dopo dieci album, la scomparsa di Taylor Hawkins, sorta di gemello da madre diversa dell’ex Nirvana, ha costretto la band a reinventarsi nuovamente, forse per l’ultimo valzer. Ad aumentare l’incertezza sul futuro, la notizia di un figlio avuto fuori dal matrimonio che ha costretto Grohl a prendersi una pausa. In attesa di sviluppi, abbiamo provato a mettere in fila gli 11 album della loro discografia, escludendo live e EP, nella difficile scelta del migliore in assoluto.
Concrete and Gold
2017
Pubblicizzato enfaticamente (e stupidamente) come l’album più rock di sempre, il nono lavoro in studio dei Foo Fighters mostra una band senza voglia di stupire il pubblico. Non che manchi qualcosa al disco, ma la sensazione è che Grohl e soci potrebbero pubblicare dischi del genere ogni sei mesi, quasi col pilota automatico. I pezzi per riempire le arene, comunque, non mancano e c’è anche Paul McCartney che suona la batteria.
Echoes, Silence, Patience & Grace
2007
Parte fortissimo per poi perdersi nella seconda parte. Il trittico iniziale è da urlo: The Pretender, Let It Die e Erase/Replace sono tra le cose migliori composte dalla band. Long Road to Ruin lascia immaginare che si prosegua sugli stessi livelli, ma lentamente l’ispirazione va un po’ a perdersi. È un lavoro vario che alla lunga perde mordente per via di alcune soluzioni non sempre all’altezza. Non a caso, seguirà una lunga pausa discografica.
One by One
2002
«Quattro brani erano buoni, mentre gli altri sette non li ho più cantati in vita mia. Ne siamo entrati e ne siamo anche usciti». Queste le parole di Dave Grohl sull’album dei Foo Fighters a cui è meno legato. Eppure One by One avrebbe potuto essere il gemello di There Is Nothing Left to Lose se la travagliatissima gestazione non ne avesse compromesso la resa finale. Andatevi a ripescare la b-side Never Talking to You Again: capirete il perché della frase «no Hüsker Dü, no Foo Fighters».
Sonic Highways
2014
Non è il disco migliore della band e non contiene nemmeno un gran numero di brani rimasti nell’immaginario dei fan, ma è quello con alle spalle il progetto più interessante. Grohl decide di rendere omaggio a otto studi di registrazione americani e in ogni studio compone una canzone a tema. Il risultato sono una splendida serie tv e il resoconto musicale di quel viaggio. Non sempre l’operazione riesce, ma quando succede escono grandi cose come The Feast and the Famine e soprattutto la splendida I Am a River insieme a Tony Visconti.
But Here We Are
2023
La morte di Taylor Hawkins non ferma la band, che recluta l’amico Josh Freese e mette insieme un disco che sembra una via di mezzo tra un tributo, un percorso catartico e qualcosa di necessario per continuare a vivere. Il risultato è emozionante, ma inevitabilmente qualcosa è andato perduto. D’altra parte non si poteva chiedere di più dopo l’ennesima tragedia vissuta da Grohl, che poco tempo dopo l’amico perde anche l’amata madre. Purtroppo, a livello artistico, i pezzi si dimenticano abbastanza in fretta, a parte alcuni esperimenti come quello di The Teacher e il grido disperato della title track. Per qualcuno avrebbero dovuto mollare prima, forse hanno mollato dopo questo album.
Medicine at Midnight
2021
Dopo Concrete and Gold i Foos annunciano una pausa a tempo indeterminato, ma come già avvenuto in passato l’idea dura pochissimo. Non solo la band rientra in studio prima del previsto, ma da quelle sessioni nascono in pratica tre album. Il primo, a nome Foo Fighters, molto più ispirato del precedente, con una varietà di stili inedita per la band. Cambiare fa bene al gruppo, che ritrova un’energia che sembrava un po’ in calo e torna protagonista delle classifiche mondiali. A questo si aggiunge la folle idea di registrare un divertentissimo album di cover dei Bee Gees, Hail Satin a nome Dee Gees, e infine Studio 666, un film horror con loro protagonisti e colonna sonora metal di Grohl. Col senno di poi, vista la morte di Taylor Hawkins, la fine migliore possibile di certi Foo Fighters.
In Your Honor
2005
È lo spartiacque della carriera discografica dei Foo Fighters, non a caso nato dopo uno dei momenti di maggior crisi di Grohl e soci. Dalle voci sempre più insistenti sullo scioglimento del gruppo si passa invece alla più ambiziosa celebrazione possibile dei suoi primi dieci anni. L’idea di un doppio album sembra una follia da nostalgici degli anni ’70 e forse qualche pezzo potrebbe rimanere fuori dalla track list, ma la qualità generale è altissima e coniuga l’appeal radiofonico di sempre con soluzioni inedite. Bello tornare a sentire Grohl in acustico.
Foo Fighters
1995
Molti hanno definito il disco d’esordio dei Foo Fighters l’ultimo urlo del Seattle sound e in parte potrebbe anche essere vero. Foo Fighters è soprattutto il primo urlo di Grohl, che mostra al mondo di non essere una semplice comparsa in una delle avventure musicali più significative di sempre. Allo stesso tempo, Dave cerca di elaborarne il lutto, mescolando vecchi e nuovi stilemi musicali con estrema freschezza. This Is a Call e Big Me gli instant classics.
Wasting Light
2011
I quattro anni intercorsi tra Wasting Light e il precedente Echoes, Silence, Patience & Grace servono a Grohl e compagni per ricaricare le batterie e ripresentarsi al mondo con uno dei loro dischi più riusciti. Il primo singolo White Limo e il video che vede protagonista Lemmy Kilmister lasciano già intendere la voglia del gruppo di dimostrare la propria potenza. È però tutto l’album a sorprendere chi li riteneva in parabola discendente. Il disco sarebbe piaciuto anche a Kurt Cobain.
There Is Nothing Left to Lose
1999
Grohl decide di chiudere i suoi anni ’90 con una serie di brani che avrebbero potuto far parte di ognuno degli album precedenti della band. Il successo di The Colour and the Shape dà però all’ex Nirvana la consapevolezza di aver raggiunto il perfetto equilibrio tra ragione e sentimento, tra rabbia urlata a squarciagola e momenti radio friendly, ma non meno potenti. In pochi avrebbero immaginato un cammino del genere in soli quattro anni. Il mix è micidiale: Stacked Actors, Breakout, Learn to Fly, Generator e Next Year escono tutte da qui. Scusate se è poco.
The Colour and the Shape
1997
L’esordio di due anni prima era stato un fulmine a ciel sereno, la voglia di Dave Grohl di dimostrare di non essere solo un turnista alla corte di Kurt Cobain. Due anni dopo, Grohl ingrana subito la marcia più alta. Il secondo album è sempre il più difficile? Guai a dirlo a lui che, reclutata finalmente una vera band, dà alle stampe quello che forse rimarrà per sempre il suo capolavoro. In The Colour and the Shape è possibile trovare ogni sfaccettatura del suo animo, da quella punk cazzona a quella sentimentale, passando attraverso l’amore per i suoi eroi musicali. È anche l’ultimo disco in cui tiene per sé il ruolo di batterista.