C’è stato un momento in cui il pop è sembrato evolvere verso spazi sconosciuti. Capitava paradossalmente nei glamorousissimi anni ’80. Periodo a ben guardare assai distante dall’immagine che tanti si sono creati; molto del pop in circolazione era tutt’altro che standardizzato. È banale ricordarlo, ma anche i Duran Duran, visti come l’apice commerciale del decennio, offrivano spesso musica tutt’altro che convenzionale. Gli stessi Duran erano nati sotto la pesante influenza di una clamorosa band post punk che portava il nome di Japan e che univa l’afflato wave fatto di ritmiche squadrate e gelidi refoli di synth a perturbazioni glam/art di scuola Roxy Music conditi spesso con atmosfere orientali.
Guardate bene il Nick Rhodes degli esordi (ma anche quello successivo, fino a oggi) e confrontatelo con il cantante dei Japan: David Batt, in arte David Sylvian. Già dal look si capisce quanto Rhodes ammirasse Sylvian e la sua band. Lo stesso Sylvian poi era un tipo glamorousissimo, con un fascino androgino che a un certo punto portò certa stampa a definirlo “l’uomo più bello del mondo”. Ma non era certo un manichino, era un musicista completo dotato di grande acume, curiosità e inventiva, oltre che di una caratteristica voce profonda e vellutata.
Sciolti i Japan dopo il capolavoro Tin Drum (1981), Sylvian si lancia in una carriera solista nella quale crea una nuova idea di pop. E dire che grazie al successo del suo personaggio non gli sarebbe stato difficile offrire prodotti più adatti alla massa rispetto ai Japan. Invece no, sin dal primo album si mette a sperimentare sulla forma canzone, la infarcisce di invenzioni inedite, rendendola elegante ed esplorativa. Si contorna di menti floride (da Holger Czukay a Robert Fripp, passando per Ryūichi Sakamoto e molti altri) e fa strage di cuori piazzando nelle classifiche (in coppia con Sakamoto) una gemma art pop tra oriente e occidente come Forbidden Colours. Da lì album di canzoni colte rivestite di ambient, kraut e musica etnica assemblate senza preoccuparsi troppo di rinverdire il successo iniziale. Anzi, più il tempo passa e più la proposta di Sylvian si fa rigorosa.
Dei tanti dischi fatti in solitaria o collaborazione ne abbiamo scelti e piazzati in classifica dieci. Sono tutte opere essenziali.
Ember Glance: The Permanence of Memory
1991 (con Russell Mills)
David Sylvian e la musica ambient: un amore che si dipana attraverso diversi album, trovando posto anche nelle texture di molte canzoni. Ember Glance: The Permanence of Memory è il commento sonoro a una serie di installazioni artistiche in mostra a Tokyo. Per realizzarlo Sylvian si avvale dell’aiuto del grafico Russell Mills (al lavoro, tra gli altri, con Brian Eno, Cocteau Twins, Peter Gabriel e Nine Inch Nails). Accompagnato da un lussuoso volume di 96 pagine che funge da catalogo della mostra, Ember Glance: The Permanence of Memory contiene due lunghe tracce il cui suono si sfibra magicamente, fino a rendersi fantasmatico.
Manafon
2009
Manafon è l’ultimo album, finora, nel quale si sente la voce di David Sylvian. Si potrebbe dire che è il suo ultimo disco di canzoni, se il termine non facesse un po’ a pugni con il materiale contenuto. Negli anni 2000 infatti Sylvian sviluppa una sua personalissima idea di canzone dalle strutture totalmente aperte, basata in larga parte su improvvisazioni dei musicisti ospiti sulle quali il cantante piazza le sue melodie in piena libertà. Melodie che stentano spesso a prendere il volo, soffocate come sono da continui arazzi free/dissonanti. Manafon va ascoltato per comprendere l’evoluzione dell’artista, ma non è un disco facile.
Blemish
2003
È da qui che Sylvian intensifica il suo cammino esplorativo, cercando di scardinare i limiti della canzone, portandola vicina a certa musica contemporanea, quando non al free jazz e alla musica improvvisativa in generale. A differenza di Manafon, Blemish concede all’ascoltatore alcuni appigli ai quali aggrapparsi per non perdersi nel mare magnum della sperimentazione. Oltre ai baccanali strumentali, i brani mostrano un Sylvian che sa ancora toccare le corde dell’emozione, con il picco di A Fire in the Forest, in compagnia del guru elettronico Christian Fennesz.
Plight & Premonition
1988 (con Holger Czukay)
Uomo dalle nobili frequentazioni, a un certo punto David Sylvian entra in combutta con Holger Czukay, bassista e demiurgo degli storici krautrocker Can. Questi ha già partecipato al primo album di Sylvian, ma quando arriva l’occasione di fare musica improvvisata assieme i due non se la fanno scappare. Il risultato è Plight & Premonition, due lunghe suite che incantano proponendo i vagheggiamenti ambient cari a Sylvian screziati dalla invenzioni di Czukay: onde radio, rumori anomali, campionamenti di varia natura. L’anno successivo i due bisseranno con Flux + Mutability.
Alchemy: An Index of Possibilities
1985
L’anno dopo il primo album, Sylvian ci tiene a mettere le cose in chiaro: lui è un cantante, lavora su canzoni (per quanto sui generis), ma può essere anche altro, un abile sperimentatore che non teme di confondere il pubblico dando alle stampe un album interamente strumentale per mostrare la sua visione a 360 gradi della musica. Alchemy: An Index of Possibilities è un concentrato di elettronica ambientale che si tinge di atmosfere etniche in Words with the Shaman, con l’essenziale collaborazione di un altro guru della sperimentazione, Jon Hassell. Sul lato B trova posto la lunga Steel Cathedral, con Sakamoto e Robert Fripp a tessere incanti tra le lamiere di fabbriche abbandonate.
Dead Bees on a Cake
1999
In Dead Bees on a Cake David si apre a ulteriori esperienze. Semplificando lo potremmo definire il suo disco più pop. Pop chiaramente inteso à la Sylvian: elegante, elaborato, mai banale. Con una lista di collaboratori che sono la crème de la crème (tra gli altri Sakamoto, Marc Ribot, Bill Frisell, Kenny Wheeler, Deepak Ram, John Giblin, Ged Lync, Talvin Singh e Steve Tibbetts) e diverse sfumature inedite che vanno a toccare la musica giapponese e indiana, addirittura il blues in Midnight Sun. I momenti migliori sono quelli in cui il compositore inglese torna alle atmosfere rarefatte dei primi album, con Dobro #1 e The Shining of Things a estasiare.
The First Day
1993 (con Robert Fripp)
Nel 1993 una news bomba scuote gli appassionati: David Sylvian farà coppia con Robert Fripp per un album congiunto. I due sommi sperimentatori insieme faranno faville. Di più, sarà l’occasione per il primo di imbastardire il suo pop rarefatto con le acrobazie sonore del secondo. Il disco nasce perché Fripp vorrebbe Sylvian come cantante dei nuovi King Crimson. La cosa non va in porto, ma in The First Day si può capire come sarebbe andata. Con l’ausilio essenziale di Trey Gunn allo stick e di Jerry Marotta alla batteria, la vocalità e le trame ambientali di Sylvian si sposano a meraviglia con le ragnatele chitarristiche di Fripp in sette brani di esaltante art rock.
Brilliant Trees
1984
Non erano pochi quelli che nel 1984 aspettavano con trepidazione di sapere cosa avrebbe combinato il cantante dei Japan in veste solista dopo l’exploit di Forbidden Colours. Il risultato non tradì le aspettative: Brilliant Trees è uno dei dischi migliori di quell’anno e oggi lo si ricorda ancora come un esordio folgorante. Sylvian va oltre le atmosfere wave-world del gruppo madre e colora le sue canzoni di ritmiche spezzettate (eccelso il lavoro di Steve Jansen, fratello di David e più che inventivo batterista), squarci art-funk, echi celestiali dal quarto mondo (la title track) e momenti di tenue e sospeso struggimento come Nostalgia, ispirata al film omonimo di Andrej Tarkovskij.
Gone to Earth
1986
Anni ’80, glamour, techno pop, lustrini, (apparente) disimpegno. In quel momento David Sylvian se ne esce (su Virgin, mica per una oscura etichetta indipendente) con un doppio album tra art pop e ambient, fasciato da una copertina immaginifica come quelle del decennio precedente. Un pazzo. Nonostante tutto il disco esplode, un ampio pubblico si lascia ammaliare dalle profondità abissali del dittico Laughter & Forgetting / Before the Bullfight e l’abilità di David come autore di canzoni destrutturate raggiunge l’apice. La nobiltà degli interventi esterni (Fripp, Jansen, Richard Barbieri, Mel Collins, Phil Palmer, B. J. Cole, Steve Nye) veste il tutto di meraviglia. Nel secondo disco trovano posto dieci tavolozze ambientali degne del miglior Brian Eno. Eleganza e perfezione ai massimi livelli.
Secrets of the Beehive
1987
Il top di Sylvian arriva nel 1987, ancora fuori dal tempo e dalle mode, in grado però di anticipare la tendenza unplugged che si svilupperà a inizio ’90. Secrets of the Beehive è in larga parte acustico, gli strumenti a corda (David Torn, Phil Palmer) scintillano, il pianoforte (Ryūichi Sakamoto) scava nei recessi dell’anima. Poi fiati, orchestra, percussioni, un’atmosfera al tempo stesso pacata e inquieta, come brace pronta a incendiarsi. Canzoni che sono brezze marine, terse giornate nelle quali respirare la vita, il profumo della pioggia e la sensazione di quiete prima della tempesta. Let the Happiness In, canta David su un etereo tappeto di tastiere cercando di placare i turbamenti dello spirito. Poi la grazia assoluta di September, Maria (ispirata anche questa a un film di Tarkovskij, Sacrificio), Orpheus, When Poets Dreamed of Angels, e, a chiudere il cerchio (ma solo nella versione CD), una versione denudata di Forbidden Colours. Chi ha detto il più bel disco degli anni ’80?