C’è stato un periodo nel quale Robert Smith era convinto di farla finita quando avrebbe raggiunto i 25 anni. In quel periodo il leader dei Cure era troppo lucido, o troppo sconvolto decidete voi, e l’oscurità e la morbosità della sua musica lo stavano fagocitando. Col senno di poi si può capire: partiti nel 1976 come punk band, i Cure (che prima si chiamavano Malice e poi Easy Cure) riescono a raccogliere, all’inizio degli anni ’80, l’eredità dei Joy Division. Musica scheletrica, ipnotica e paranoica si univa a testi che si calavano nel pozzo delle umane paure: il timore di crescere, di non essere adatti a un mondo nel quale vince chi è più scaltro e approfittatore. Personaggi come Ian Curtis e Robert Smith sono quasi alieni calati in una società che se ne frega della sensibilità, dell’arte e delle debolezze. Non resta che la soluzione finale, alla quale arriva Curtis e che anche Smith accarezza. Ma c’è una cura: la musica. Questa ha il compito di sfondare il muro della desolazione per concedere a chi suona e ascolta una sorta di catarsi, una forza nella quale trovare il coraggio di esistere, nonostante tutto. Per questo arrivato a 25 anni Robert Smith non si suicida e da quel momento il suo gruppo raggiungerà un numero sempre più grande di persone, unite nella ricerca della cura.
Nella loro esistenza i Cure hanno attraversato diversi momenti musicali e hanno dimostrato di non essere solo un gruppo dark/goth. Beh, un gruppo in senso stretto a dire il vero non lo sono stati spesso. A parte Robert Smith l’unico fedele quasi al 100% è stato il bassista Simon Gallup, al fianco del leader sin dal 1980, gli altri sono stati ottimi musicisti che si sono alternati, spesso entrando e uscendo a più riprese. Ma i Cure al giorno d’oggi non hanno più bisogno di dimostrare di essere una band, oramai sono un’istituzione di cui Smith (che da tempo, un giorno sì e un altro pure, minaccia di sciogliere il gruppo) muove i fili. E non importa se nel tempo i Cure sono stati dark, pop, dance, se sono stati tristi o allegri, è proprio il loro essere non monolitici che ha permesso loro di portare avanti il loro messaggio sonoro per tutto questo tempo.
Ogni loro canzone è dotata di un fuoco, di una voglia di andare oltre, quella che ha consentito a Robert Smith di non fare la fine di Ian Curtis, un desiderio di vita che è capace di spingersi oltre la cupezza e quasi guardarla dall’alto. Ok, esiste, esistono le brutture ed esistono i momenti difficili, ma da quella foresta intricata si può e si deve uscire. Serve solo la giusta cura.
13. “Wild Mood Swings”(1996)
Che Robert Smith amasse disorientare i suoi fan è cosa risaputa, ma che riuscisse a condire la musica dei Cure con tanto di trombe mariachi, strumenti sudamericani e atmosfere jazz nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Vista in un’ottica di sperimentazione la cosa poteva anche essere stuzzicante, il problema è che in Wild Mood Swings sono proprio le canzoni a non essere forti come ci si aspetterebbe. Si salvano la malinconica Treasure e la notturna Jupiter Crash (a proposito della collisione tra Giove e una cometa avvenuta nel luglio 1994), per combinazione i due momenti che più si avvicinano alla produzione ‘classica’ della band.
12. “4:13 Dream”(2008)
A tutt’oggi l’ultimo album in studio dei Cure, con il ritorno in formazione di Porl Thompson, chitarrista attivo nei primissimi giorni che riesce nel miracolo di creare una ridda di suoni infiniti con il suo strumento. Detto questo il disco non fa gridare al miracolo, con troppi episodi di scialbo pop-rock e le uniche buone eccezioni della fascinosa Underneath the Stars, dell’inquietante The Scream e della sghemba Freakshow.
11. “The Cure”(2004)
Il disco dei Cure che ha ottenuto più successo in Italia, prodotto da Ross Robinson (Korn, Slipknot, Limp Bizkit), ma nonostante ciò senza alcun riferimento a scenari musicali più spinti verso il metal. La chitarra la fa da padrona in una serie di canzoni i cui testi si soffermano su tematiche care a Smith: amori spezzati, incomunicabilità, perdita di identità. I brani migliori sono la traccia di apertura Lost, caratterizzata da ritmi pesanti e rabbiosi, e Us or Them, uno dei pochi testi totalmente realisti di Robert Smith, basata com’è sul clima di terrore post 11 settembre.
10. “Bloodflowers”(2000)
Bloodflowers nasce con nobili intenti: rappresentare la terza parte di una “trilogia dark” composta per il resto da Pornography e Disintegration. Considerati i capisaldi di cui si parla il progetto è destinato sin dall’inizio a non funzionare, visto che la pur buona qualità di Bloodflowers non riesce certo a eguagliare i due lavori in questione. Sorta di concept album riguardante l’invecchiamento (tema molto caro a Robert) e la perdita delle possibilità, l’album ha buoni momenti in brani lenti e stratificati (anche troppo), con atmosfere malinconiche e ampie durate, solo una traccia su nove infatti (There Is No If…) si attesta al di sotto dei cinque minuti.
9. “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”(1987)
A seguito del successo di The Head on the Door Robert Smith ci prende gusto e firma uno dei suoi album più pop, chiaramente pop alla sua maniera, con addirittura citazioni funk (Hot Hot Hot!!!). In generale il clima che si respira è di grande ottimismo, con Smith a dichiarare che per la prima volta si sente in grado di dare in pasto al pubblico il suo lato più solare, vedi tracce come Catch o Fight, definita dal leader la canzone più strana che i Cure abbiano mai inciso.
8. “Wish”(1992)
Dopo il ritorno in grande stile al dark di Disintegration il lavoro successivo segue direzioni contrapposte. Da una parte accentua i momenti oscuri e atmosferici (vedi le superbe From the Edge of the Deep Green Sea e To Wish Impossible Things), dall’altra torna alle atmosfere di Kiss Me Kiss Me Kiss Me, con brani scanzonati e leggeri come Friday I’m in Love e Wendy Time. L’equilibrio regge e l’album trova nella convivenza dei due opposti la sua ragione d’essere. Da segnalare che, negli intenti di Robert Smith, il brano finale (intitolato non a caso End) sarebbe dovuto essere l’ultimo dell’ultimo disco del gruppo, prima dello scioglimento.
7. “The Top”(1984)
Il disco più avventuroso dei Cure, quello pregno di momenti drogati e cupamente etnici. In questo periodo Robert Smith è fresco dell’abbandono del suo ruolo di chitarrista nei Banshees, ma il clima sabbatico della formazione capitanata da Siouxie si avverte in pieno in brani come Shake Dog Shake, Give Me It e nella conclusiva The Top. Altrove vengono a galla tentazioni pop (che da lì a poco si faranno sempre più marcate), un pop surreale e scombinato, vedi il delizioso singolo The Caterpillar, con Robert a martoriare un violino, o la bizzarra Bananafishbones.
6. “The Head on the Door”(1985)
Se sono i Cure più poppeggianti quelli che preferite, questo è il disco che fa per voi, quello nel quale la band tenta di avvicinarsi a un linguaggio più alla portata del grande pubblico, senza però dimenticare del tutto le loro atmosfere tenebrose. Obiettivo centrato, il nuovo album piace miracolosamente sia ai vecchi che ai nuovi seguaci non perdendo nulla dell’alone misterioso e introspettivo del quale è dotata la band. I due singoli estratti Close to Me e In Between Days sono perfettamente esemplificativi, con la prima che diventerà un vero inno della band, aiutata dal peculiare video, con i componenti del gruppo che interpretano il brano con strumenti di fortuna, chiusi in un armadio che cade dalla cima di una scogliera.
5. “Three Imaginary Boys”(1979)
Lo sfolgorante debutto dei Cure, qui un trio composto dal leader a voce e chitarra, Michael Dempsey al basso a Lol Tolhurst alla batteria. Uno dei dischi più scarni mai incisi, post punk fino al midollo che lascia già intravedere la sua anima oscura. I tre non sono musicisti dotati di tecnica particolare, anzi sono piuttosto scarsi, nondimeno riescono a creare un sound unico, secco e scheletrico, con l’abilità di comporre grandissime canzoni quali 10:15 Saturday Night, Accuracy, Fire in Cairo e la title track. A dir poco assurda la riproposta del classico hendrixiano Foxy Lady spogliato di tutti i virtuosismi e restituito nella sua essenza più minimale. Da segnalare anche So What?, con un Robert Smith ubriaco che legge al microfono la pubblicità di un set per decorare le torte.
4. “Faith”(1981)
Uno dei dischi più disperati dei Cure, con le tonalità di grigio della copertina (l’immagine sfocata di un’abbazia avvolta dalla nebbia) ad anticipare una serie di lente e depressive litanie dai titoli più che eloquenti come The Funeral Party o The Drowning Man. Anche qui i Cure sono un trio (Robert Smith a voce, chitarra e tastiere, Simon Gallup al basso e Lol Tolhurst alla batteria), ma l’impianto strumentale si è fatto decisamente più corposo rispetto ai primi due album, quasi sinfonico a tratti, con avvolgenti aloni di tastiere che ammantano le chitarre psichedeliche di Smith (tanto sottovalutato come strumentista quanto fondamentale per il suono dei Cure). Attenzione alla versione su cassetta che riportava una lunga suite strumentale di 27:29: Carnage Visors, colonna sonora di un cortometraggio di Ric Gallup, fratello di Simon, poi inserita nella ristampa deluxe del CD.
3. “Seventeen Seconds”(1980)
Il disco che nel 2020 festeggia il quarantennale si muove sulla falsariga di Three Imaginary Boys (per i suoni asciutti e spogli), ma allo stesso tempo ne accentua la componente dark, coadiuvato dall’ingresso di Simon Gallup e dalle tastiere di Matthieu Hartley. Il classico suono Cure inizia da queste 10 canzoni rarefatte e nebbiose come le fronde ritratte nella foto di copertina, con piccole odi all’assenza (Secrets, Three), tracce strumentali atmosferiche (A Reflection, The Final Sound) e incubi (At Night), per arrivare all’inquietante solitudine di A Forest, brano destinato a diventare un classico, non solo dei Cure ma di tutto il movimento dark.
2. “Disintegration”(1989)
Quando sembra che i Cure abbiano svoltato del tutto in direzione pop (vedi The Head on the Door e Kiss Me Kiss Me Kiss Me) ecco che, del tutto inaspettatamente, Robert Smith fa un passo indietro e si riappropria della sua anima più dark per dare alle stampe un disco che sfoggia tutta la maturità musicale acquisita in 10 anni di lavoro. Disintegration è un’opera matura da ogni punto di vista, con il cantante che giunto a 30 anni fa un bilancio del tempo passato e si concede qualche abuso di droghe allucinogene che influenzeranno pesantemente la produzione del disco. Nell’album trovano spazio brani capolavoro quali l’iniziale Plainsong, Fascination Street e la lunga The Same Deep Water as You, non mettendo del tutto da parte la dimensione più pop della band, ma offrendone una versione assai più straniante. Il singolo Lullaby ne è la piena dimostrazione.
1. “Pornography”(1982)
L’album definitivo dei Cure e uno dei più importanti del movimento goth, Pornography è dolore allo stato puro, un dolore catartico che si imprime a fuoco sulla pelle ed è in grado di trasformare l’ascoltatore. Ci si può abbandonare a questa discesa nel maelström e, stando bene attenti a non lasciarsi ghermire troppo, si può uscirne rinnovati. “Non importa se moriremo tutti”, canta dolente Robert Smith in One Hundred Years, su un tappeto di urla chitarristiche e una sezione ritmica degna del miglior motorik kraut. Da qui è un susseguirsi di rabbiose invettive contro la violenza della vita, una violenza che diventa pornografia quando qualcuno si prende la briga di giudicare. Smith dichiarerà al proposito: “Vedere qualcuno scopare una scimmia non mi colpisce particolarmente. Mi colpisce di più vedere qualcuno che attacca qualcun altro per averlo fatto. Per molte persone, la pornografia è legata a vecchi valori”. La rivista inglese Uncut arriva a definire il disco “un claustrofobico capolavoro del disgusto di se stessi”. Anche nella versione in cassetta di Pornography è presente un lungo brano inedito di oltre 13 minuti, Airlock: The Soundtrack, nuova colonna sonora per un cortometraggio di Ric Gallup.