Se c’è un gruppo rock anni ’70 amato in Italia, questi sono i Genesis. La band inglese ha conquistato il pubblico italiano sin dall’uscita di Nursery Cryme (1971). Mentre in patria raccoglievano un pubblico sparuto, da noi i Genesis suonavano in teatri e palazzetti di fronte ad appassionati innamorati della loro musica, affascinati dalla presenza carismatica di Peter Gabriel, dal drumming creativo di Phil Collins, dalle invenzioni così distanti dal classico guitar hero di Steve Hackett, dai bassi multi-manico di Mike Rutherford e dalle immaginifiche tastiere di Tony Banks. In questa fase l’Italia regala fama e fortuna alla band spedendo gli album ai piani alti delle classifiche e non facendo mai mancare calore ed entusiasmo durante le esibizioni dal vivo.
I Genesis erano nati nel 1967 tra i banchi della prestigiosa Charterhouse School di Godalming, nel Surrey. Dopo un inizio incerto e alcuni cambi di formazione avevano abbracciato in pieno la fortunata corrente del prog proponendo una cinquina di album che sono vere summe di una fusione perfetta tra rock, musica classica, folk inglese e molte altre sfumature. I brani dei Genesis sono combinazioni uniche tra melodia, accordi inusuali, ritmi cangianti, arrangiamenti che sono perfetti incastri, senza sbavature o lunghi assoli. Non c’è particolare che non sia quello giusto.
Spinta dal carisma di Peter Gabriel, che ama visualizzare ogni brano con surreali travestimenti, l’ascesa del gruppo parte dall’Italia (e, prima ancora, dal Belgio) e pian piano si spande a macchia d’olio fino a raccogliere vasti consensi in tutto il mondo.
Qualcosa però va storto: nel 1975 Gabriel abbandona il gruppo per seguire la sua indole più avventurosa, già evidente in The Lamb Lies Down on Broadway. Paradossalmente a quel punto il pubblico inizia a crescere. Phil Collins prende possesso del microfono e si rivela più che degno sostituto dell’istrionico predecessore. La band va avanti a vele tese. Anche l’abbandono, nel 1977, di Steve Hackett, non preoccupa più di tanto i tre superstiti che fiutano l’aria, sentono che i tempi stanno cambiando e si adattano a essi, lasciando da parte i barocchismi del prog a favore di un pop sempre più commerciale. La scelta si rivela ancora una volta vincente: tra la fine dei ’70 e l’inizio dei ’90, i Genesis diventano una band tra le più importanti della scena rock mondiale, con tour trionfali e piazzamenti nelle classifiche di tutto il pianeta.
Con la fine degli anni ’90 una nuova crisi funesta la band: nel 1996 infatti anche Phil Collins abbandona, costringendo Rutherford e Banks ad assoldare un nuovo cantante: il bravissimo Ray Wilson (ex Stiltskin). Questi cerca di fare del suo meglio per rimpiazzare il batterista-cantante convincendo solo a tratti il pubblico. Il tonfo commerciale dell’album realizzato con il vocalist decreta di fatto la fine dei Genesis.
Nel 2007 una fortunata reunion con Collins ha fruttato nuovi stadi colmi, poi altri tentativi non andati a segno e lo stallo al quale ancora oggi migliaia di fan assistono, con la speranza che qualcosa si muova, prima che sia troppo tardi. Nel frattempo le carriere soliste si sono mosse con grande fortuna per almeno tre di loro (Gabriel, Collins, Rutherford con i suoi Mike and The Mechanics). Steve Hackett continua da anni a portare in giro spettacoli di successo basati sul vecchio repertorio della band, mentre Tony Banks (vero depositario del classico suono Genesis dei tempi d’oro) è l’unico che non ha saputo piazzare alcun album solista in classifica, ripiegando su una serie di lavori classicheggianti.
Con l’esclusione dei dischi dal vivo, ecco la classifica dei quindici lavori in studio dei Genesis, dall’inascoltabile all’imprescindibile.
15. “Invisible Touch” (1986)
Il punto più basso mai raggiunto dai Genesis e, paradossalmente, il loro disco più venduto. Oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo per un lavoro oggettivamente orrendo. A cominciare dai suoni (quelli plasticosi tipici dei peggiori anni ’80) e proseguendo con le composizioni. C’è modo e modo di essere commerciali. Qui il problema sono proprio le canzoni: brutte, di una bruttezza infinita. Certo, non tutte: le lunghe Tonight Tonight Tonight, Domino e The Brazilian, per quanto funestate dai suoni di cui sopra, sanno ancora graffiare, ma davanti alla pochezza della title track, di Land of Confusion, di Throwing It All Away e, soprattutto, di Anything She Does c’è veramente poco da fare.
14. “Abacab” (1981)
Se i due precedenti (Duke e And Then There Were Three) riuscivano ancora a inventarsi un equilibro tra materiale commerciale e altro maggiormente ricercato, con Abacab la virata verso il pop più ordinario è pressoché totale. Il trascinante brano che fornisce titolo all’album fa ben sperare, superato quello però non resta molto: ritmati pezzi funk con tanto di fiati (No Reply at All) e fugaci ricordi del passato (Dodo / Lurker) si alternano a momenti oltremodo scialbi (Man on the Corner, Like It or Not, Keep It Dark, Another Record), fortunatamente impreziositi ogni tanto da un giro armonico o una melodia più raffinata. Da segnalare la presenza della straniante Who Dunnit, probabilmente il pezzo più odiato dai fan dei Genesis, in realtà divertente parentesi new wave alla Devo.
13. “Genesis” (1983)
Le cose vanno leggermente meglio due anni dopo con il disco omonimo, che in almeno due momenti della prima facciata sa proporre un ottimo mix tra l’ormai appurata tendenza commerciale e la voglia di proporre qualcosa di più sofisticato, come i vecchi fan si attendono. Il singolo Mama (scelta quantomeno strana che si rivelerà vincente) e la mini suite Home by the Sea / Second Home by the Sea sono perfette combinazioni tra vecchi e nuovi Genesis, tutte e due rivestite di una velata inquietudine nei temi trattati (una torbida storia di prostituzione nel primo caso, una casa infestata dai fantasmi nel secondo). Da dimenticare invece That’s All e quasi tutti i brani della seconda facciata, già premonitori dello sfacelo di Invisible Touch.
12. “We Can’t Dance” (1991)
Dopo il tonfo artistico di Invisible Touch i tre Genesis capiscono che è necessario tornare alla qualità che almeno fino al 1980 li aveva contraddistinti. We Can’t Dance riesce in larga parte nell’intento rivelandosi un album di brani raffinati, spesso di lunghezza superiore alla media, dai suoni caldi e pastosi che finalmente lasciano da parte quelli sintetizzati di pochi anni prima. Non è un ritorno al prog rock del passato, ma un ottimo tentativo di costruire canzoni stimolanti e creative, per chi le compone e chi le ascolta. Driving the Last Spike, Dreaming While You Sleep, Living Forever, Fading Lights e il singolo No Son of Mine sono ottime dimostrazioni di questa svolta. D’altro canto permangono purtroppo alcuni momenti infelici (Jesus He Knows Me, Hold on My Heart), con il top negativo di I Can’t Dance, brano di una bruttezza insuperabile.
11. “Calling All Stations” (1997)
È l’unico lascito della formazione comprendente gli storici Banks e Rutherford insieme al cantante scozzese Ray Wilson e a due batteristi: l’israeliano Nir Zidkyahu e l’americano Nick D’Virgilio. I tre uniti avrebbero dovuto contribuire a non far rimpiangere il dimissionario Phil Collins. Cosa in gran parte riuscita. Calling All Stations è un album di ottima fattura, pop di classe con poche cadute di tono (il singolo Congo, Small Talk) e molte belle canzoni (la title track, Not About Us, The Dividing Line) interpretate con grande trasporto dalla voce calda di Wilson. Per la maggior parte del pubblico il personaggio Phil Collins era però qualcosa di imprescindibile in un album dei Genesis. Ciò ha determinato l’insuccesso del disco e di parte del tour, con il conseguente ripensamento dei due membri originari e il benservito al povero Ray. A conti fatti un vero peccato.
10. “From Genesis to Revelation” (1969)
L’esordio della band, con Hackett e Collins ancora da venire, il batterista John Silver e il chitarrista Anthony Phillips, membro fondatore nonché principale fautore dello storico Genesis-sound a base di chitarre a 12 corde arpeggiate. All’epoca di From Genesis to Revelation i ragazzi non hanno nemmeno vent’anni e le idee sul futuro sono nebulose. Il produttore Jonathan King li ha scovati alla Charterhouse, previa consegna di un demo, e li ha immediatamente portati in studio per fargli incidere un concept album di pop in larga parte acustico e orchestrale, basato nientemeno che sulla Bibbia. From Genesis to Revelation è tanto ingenuo quanto piacevole nel dipanarsi di ariose melodie che diverranno un marchio di fabbrica. La voce di Peter Gabriel è ancora acerba ma già in grado di attirare l’attenzione.
9. “Duke” (1980)
L’avvicinamento alla canzone messo in atto nel precedente And Then There Were Tthree trova in Duke un ulteriore tassello. I singoli (Turn It on Again, dall’insolito ritmo in 13/8, e la sciatta Misunderstanding) vanno forti in classifica e l’album contiene ottimi brani come Heathaze e Please Don’t Ask (sul matrimonio a pezzi di Phil Collins, evento che gli ispirerà il successo solista di In the Air Tonight). Ma il meglio va cercato in quella che avrebbe dovuto rappresentare una suite a coprire la prima facciata, poi spezzettata in due parti: Behind the Lines / Duchess / Guide Vocal sul lato A e Duke’s Travels / Duke’s End sul lato B (originariamente a unire le due sezioni c’era la suddetta Turn It on Again). Questa serie di brani rappresenta l’ultimo grande affresco dei Genesis che riescono a creare una nuova forma di prog, più asciutta e meno magniloquente, ma sempre di gran classe.
8. “And Then There Were Three” (1978)
Con l’abbandono di Steve Hackett il trio composto da Phil Collins, Tony Banks e Mike Rutherford comincia un adattamento ai tempi che lo porterà a successi stellari. Nel 1978 non è più tempo di prog, i ritmi secchi della new wave e la danzabilità della disco music imperversano. La strada è semplice: adattarsi o rimanere fuori dai giochi. Per il momento i tre optano per comporre una serie di brani dal ristretto minutaggio ma ancora pregni di quell’inventiva che aveva caratterizzato il loro passato. Undertow, Burning Rope, Say It’s Alright Joe e The Lady Lies sono pezzi bellissimi, con tutta la magia del suono Genesis in un contesto più stringato. Anche il singolo Many Too Many fa decorosamente il suo dovere di brano più commerciale ma dalla grande melodia. La mazzata arriva però alla fine: Follow You, Follow Me, che farà faville negli USA, è ben poca cosa rispetto al resto. Ma saranno purtroppo canzoni di questo tipo a segnare la strada del gruppo negli anni a venire.
7. “A Trick of the Tail” (1976)
Peter Gabriel ha appena lasciato la band e tutti si chiedono come andranno avanti gli altri senza il carismatico cantante. A nessuno viene in mente che Gabriel non era certo il maggior compositore della band, quel ruolo è ancora nelle salde mani di Banks e Rutherford, con validi contributi di Hackett e Collins. I quattro non si lasciano intimorire, mettono da parte le asperità di The Lamb e tornano al sound più romantico di Selling England by the Pound. A sorpresa il ruolo di cantante viene rilevato da Phil Collins, la cui voce pare clonata da quella del suo predecessore, in seguito si scoprirà che sul palco è anche molto simpatico e comunicativo. Questo farà dimenticare presto maschere da fiore e compagnia bella. A Trick of the Tail arriva in breve a vendere più di tutti i precedenti, forte di composizioni come Dance on a Volcano, Entangled, Ripples e Los endos (finale in gloria dei concerti, con ampie concessioni a stilemi jazz-rock). Su tutte spicca il capolavoro Mad Man Moon, momento di altissima poesia a cura di Tony Banks.
6. “Wind & Wuthering” (1976)
Nel 1976 i Genesis sono lanciatissimi. Forti del successo di A Trick of the Tail se ne escono con un ulteriore album che calca la mano su un prog sinfonico malinconico e autunnale, figlio di quel vento e tempesta a cui è dedicato (con riferimento alle Wuthering Heights di Emily Brontë). Collins innesta nuovi dettami jazz-rock (Wot Gorilla?), Banks tira fori dal suo cilindro altri grandi affreschi (One for the Vine, All in a Mouse’s Night, Afterglow), Hackett esce allo scoperto con un brano struggente, tra i più belli da lui concepiti (Blood on the Rooftops) e Rutherford gioca a impratichirsi con le atmosfere del pop (Your Own Special Way) che da lì a poco renderanno la band una perfetta macchina sforna-successi.
5. “Trespass” (1970)
Dopo l’acerbo esordio di From Genesis to Revelation (che si rivela deludente anche a livello di vendite) i Genesis si rinchiudono in un cottage, con le orecchie sature di In the Court of the Crimson King, per dare alla propria musica una veste più avventurosa, del tutto personale nell’indugiare tra l’acustico più pastorale e l’elettrico più spinto. Un nuovo batterista (John Mayhew) e il contratto con la Charisma Records, etichetta indipendente tra le più attive, portano al concepimento di quello che da molti è considerato il primo vero album del gruppo. Qui le atmosfere acustiche create dalle 12 corde incrociate di Anthony Phillips e Mike Rutherford la fanno da padrone, con scorci bucolici che paiono usciti dal quadro di copertina (squarciato dalla lama di un coltello). Poi, quando meno te lo aspetti, ecco l’aggressione di The Knife, con Hammond e chitarre a ruggire imperiose. Manca ancora qualche tassello, ma la strada verso il capolavoro è già spianata.
4. “Selling England by the Pound” (1973)
Il disco più amato dai fan dei Genesis nonché il primo vero successo in patria, grazie anche al singolo I Know What I Like, frammento pop surreale che ricorda quanto i Genesis amino da sempre inserire momenti più ironici e leggeri nelle loro opere. Selling è un album di grande compattezza, il più maturo inciso fino a questo momento, ed è forte di autentiche opere d’arte quali Firth of Fifth, Dancing with the Moonlit Knight e The Cinema Show. La musica è esattamente quel prog sinfonico e lussureggiante che il pubblico italiano dell’epoca tanto adora. I testi (specie quelli scritti da Gabriel) sono colmi di metafore, doppi sensi, strali politici, religiosi, sociali e sessuali, con un po’ di logorrea nella lunga The Battle of Epping Forest. Se siete dotati di un buon impianto hi-fi il bass pedal (una pedaliera che Mike Rutherford usava per riprodurre i bassi mentre era impegnato alla chitarra) durante la sezione centrale di Firth of Fifth vi spettinerà.
3. “Foxtrot” (1972)
Dopo la magia di Nursery Cryme, Foxtrot lancia i Genesis verso le stelle, con la possente apertura di Watcher of the Skies, e li catapulta poi in una vicenda di speculazione edilizia del futuro (Get ‘Em Out by Friday). Il suono si è fatto meno acustico, più teso, atto a sfruttare in pieno le varie possibilità offerte dalle chitarre, dalle tastiere e da una sezione ritmica sempre più compatta. Il motivo per cui Foxtrot passa alla storia è però la presenza di Supper’s Ready, la più bella suite rock mai concepita, che con i suoi 23 minuti occupa quasi per intero la seconda facciata. Sette sezioni che raccontano la storia di due innamorati che si perdono l’uno negli occhi dell’altra, salvo poi essere catapultati in una diversa realtà e affrontare una serie di avventure e incontri che li porteranno al cospetto dell’apocalisse. Qui la sfrenata fantasia di Peter Gabriel concepisce una favola psichedelica che gli permetterà di sfoggiare sul palco svariati travestimenti per visualizzare le fasi della narrazione. Supper’s Ready rappresenta l’eterna lotta tra il bene e il male e l’urlo finale di New Jerusalem risuona forte nelle anime degli estimatori della band, non c’è ascolto senza che una lacrima di emozione faccia capolino.
2. “The Lamb Lies Down on Broadway” (1974)
L’album più avventuroso dei Genesis, il più moderno, un passo avanti rispetto ai suoi tempi e per certi versi ancora oggi all’avanguardia. Qui c’è già dentro il punk (nelle rappresentazioni dal vivo Gabriel sfoggia una voce spesso sgraziata, capello corto, petto nudo e giubbotto di pelle, un anno prima dei Damned e dei Ramones), il post punk, l’ambient e molte istanze sonore che caratterizzeranno gli anni a venire. Peter viene lasciato libero di concepire una vicenda allucinata che ha come protagonista un teppista portoricano risucchiato in un mondo astruso alla ricerca di qualcosa di sé che prima ignorava. Racconto denso di metafore e ispirato dalla visione dei film di Alejandro Jodorowsky, The Lamb a larghi tratti si prefigura come l’anti Selling England by the Pound. Tanto aggraziato era quello, quanto ruvido e claustrofobico è questo, con i quattro restanti Genesis a concepire atmosfere che variano da brano a brano, fino a rendere il doppio album una vera enciclopedia di possibilità musicali. Un’opera ancora oggi non del tutto compresa, misteriosa e colma di domande senza risposta.
1. “Nursery Cryme” (1971)
Nursery Cryme è il disco perfetto dei Genesis. Un’album che profuma di antico, di macabro e di grottesco, a cominciare dalla copertina: una figura femminile dal sorriso enigmatico intenta a giocare a croquet con una serie di teste mozzate. Immagine impressa su uno sfondo di campagna inglese, con i lati crepati come un quadro lasciato ad ammuffire in qualche soffitta. Un immaginario tipicamente British fatto di vecchie storie di fantasmi prende vita tra gli arpeggi di chitarra e le folate di Mellotron, con la voce del ventenne Peter Gabriel a raccontare della testa del vecchio-bambino rinchiusa in un carillon, nella celeberrima The Musical Box. Nursery Cryme poi si dipana tra gli intarsi acustici di For Absent Friends e Harlequin, la furia di The Return of the Giant Hogweed, l’ironia di Harold the Barrel, la magniloquenza di Seven Stones e l’entusiasmante finale di The Fountain of Salmacis, che affonda le radici nella mitologia greca. La formazione si stabilizza con l’uscita di Mayhew e Phillips e l’arrivo dei due talenti Hackett e Collins. Ora i Genesis sono pronti a volare alti e lo fanno da subito con la loro opera più affascinante. Sette brani che sono veri incubi vittoriani, saliscendi emozionali colmi di morbosità e inquietudine.