Nel corso degli anni, la band di David Byrne è stata tante cose: giovani rampanti del CBGB, interpreti radicali del punk-funk, superstar innovative degli anni ’80 e molto altro ancora. È una carriera incredibile, che vale la pena riscoprire con la nostra guida a tutta la discografia.
Gli imperdibili: “More Songs About Buildings and Food” 1978
I Talking Heads si sono conosciuti in una scuola d’arte, e nel corso degli anni sono diventati i giovani più radicali della scena punk nata nel CBGB. Nel secondo LP della loro carriera, il primo prodotto dallo scultore del suono Brian Eno, trasformano il suono teso, nervoso e minimalista dell’esordio in un paradiso new wave. David Byrne apre le danze con la splendida Thank You For Sending Me an Angel, e osserva l’America dal cielo in The Big Country, mentre il batterista Chris Frantz e la bassista Tina Weymouth uniscono le forze per una cover di Take Me to the River di Al Green.
Gli imperdibili: “Fear of Music” 1979
La copertina nera – disegnata dal chitarrista/tastierista Jerry Harrison – suggerisce una certa austerità, ma la musica del terzo album del gruppo è profonda, ricca e ariosa anche quando Byrne canta di depressione (Air) o guerriglia urbana (la disco-rock di Life During Wartime, basata sulla sua vita nel Lower East Side di New York). La mostruosa jam I Zimbra introduce perfettamente le atmosfere di tutto il disco con un ritmo martellante e africano, mentre Byrne trasforma un blaterare dadaista in un inno da pista da ballo. È il disco più cupo della band, e alterna l’estasi cosmopolita di Cities e la paranoia di Memories Can’t Wait con le chitarre serene di Heaven. Il culmine è Drugs, una delle canzoni sulla droga più inquietanti della storia.
Gli imperdibili: “Remain in Light” 1980
«Ci dicevano che il disco suonava troppo nero per le radio bianche e troppo bianco per le radio nere», ha detto Byrne del quarto LP della band. Ma la fusione tra punk e funk di Remain In Light ispirerà generazioni di musicisti, portando quei beat liquidi dritti nel futuro. I Talking Heads hanno messo insieme l’afrobeat di Fela Kuti, i rituali voodoo di Haiti e la scena hip hop di New York in canzoni dal ritmo folle come Born Under Punches e Crosseyed and Painless, e nella hit Once in a Lifetime Byrne si trasforma in un televangelista esistenzialista, regalandoci la performance video più incredibile dei primi anni di MTV.
I classici: “Talking Heads: 77” 1977
«Non è più ieri», canta Byrne, e in effetti il debutto della band (prodotto da Tony Bongiovi, il cugino di Jon Bon Jovi) ha aperto la strada a una nuova visione musicale. Mentre le altre band punk del 1977 gridavano rabbia urbana, in canzoni come Don’t Worry About the Government e The Book I Read gli Heads suonavano incredibilmente a loro agio con la cultura popolare, come se ne fossero incantati. Poi in Psycho Killer tutto quell’ottimismo collassa e il basso di Weymouth porta Byrne oltre i suoi limiti.
I classici: “The Name of This Band Is Talking Heads” 1982
Dopo aver registrato quattro album incredibili in quattro anni, per i Talking Heads era arrivato il momento di pubblicare un live. Questo doppio LP, però, è tutto meno che una pausa. Nel corso di 33 canzoni – nella versione deluxe del 2004 – il disco racconta la storia della velocissima evoluzione della band da rocker nervosi e concettuali a gruppo di performer scafati, capaci di ricreare sul palco gli intricati arrangiamenti costruiti in studio. Le chiacchiere sul palco di Byrne, poi, promettono un’esperienza senza precedenti: «il nome di questa canzone è New Feeling. E parla proprio di questo». Una pubblicità efficace.
I classici: “Speaking in Tongues” 1983
«C’era il pericolo che venissimo classificati come una band di strambi sfigati», ha detto Byrne della reputazione nel gruppo nei primi anni ’80. La risposta arriverà con l’LP più giocoso della carriera dei Talking Heads, un disco illuminato dal pop elastico di Girlfriend Is Better e Making Flippy Floppy. La hit Burning Down the House è ispirata ai Parliament-Funkadelic (Bernie Worrell aveva suonato sul loro album) e la fragile e speranzosa This Must Be the Place, la prima vera canzone d’amore di Byrne, è diventata un classico da matrimonio per tutta la generazione X.
I classici: “Little Creatures” 1985
Oramai diventati autentiche star, i Talking Heads si liberano delle poliritmie per dedicarsi a un stile più semplice. Ed è come se la band si limitasse ad accompagnare David Byrne, che passa dalle frizzanti And She Was e Stay Up Late alla satira politica leggera di Road to Nowhere, un affondo all’epoca del presidente cowboy Ronald Reagan. Dopo anni di innovazioni, il gruppo dimostra d’essere capace di fare anche del rock mainstream.
Per approfondire: “Stop Making Sense” 1984
«Non volevamo stronzate», ha detto Chris Frantz a proposito del film concerto diretto da Jonathan Demme. «Volevamo inquadrature fisse, in modo si vedessero bene i musicisti». Stop Making Sense è un super-classico, pieno zeppo di momenti esaltanti, dalle contorsioni di Byrne nel suo completo bianco in Psycho Killer al ballo con la piantana in This Must Be the Place (Naive Melody). Senza la parte visiva, però, l’album dal vivo è un riassunto di una carriera fino a quel momento fuori dall’ordinario.
Per approfondire: “Naked” 1988
I Talking Heads si riuniscono a Parigi per incidere il loro ultimo album. Le canzoni basate sull’acuto spirito di osservazione di Byrne si fondono al soukous del Congo e ad altri suoni del mondo. È la loro versione di Graceland di Paul Simon, in un certo senso. Se alcuni testi suonano forzati (si ascolti The Democratic Circus), la musica non lo è mai. L’eleganza afro-cubana di Mr. Jones e gli echi country di Totally Nude stanno bene assieme, e c’è pure Johnny Marr degli Smiths che suona nel singolo (Nothing But) Flowers, ode a un paradiso primitivista.