L’ennesimo annuncio dell’uscita del nuovo album dei Cure, anzi dei nuovi album, contiene una novità: pare che uno dei dischi uscirà a nome del solo Robert Smith, il primo in assoluto, e trattasi di un disco – udite udite – noise (mentre lui ha sempre detto che semmai ne avesse pubblicato uno sarebbe stato acustico). Ora, non è chiaro se si tratti di noise rock, di harsh noise, di noise wall o di noise pop: e vabbè, quisquilie. Non ha stupito tanto la notizia, quanto il fatto che gli altri membri della band si siano rifiutati di pubblicarlo a loro nome: reazione giustificata da «ma come, dopo dieci anni di attesa ai fan diamo un disco di rumore?».
Ma siamo sicuri che i fan si facciano questi problemi? Perché in realtà la discografia dei Cure contiene elementi noise, duri, incasinati, dove non si capisce un cazzo. Non hannomai farto un disco intero così e in parte è dovuto al grande eclettismo della band che raramente si trincea in un genere specifico, neanche quando li infilano a forza nel calderone goth. Ma senza dubbio possiamo trovare nella loro produzione dei brani che ci spingono a pensare che magari il tentativo di un disco rumoroso a nome Cure potevano pure farlo.
Ecco quindi 10 pezzi dei Cure particolarmente “rumorosi”.
Pornography (1982)
La title track di quello che bene o male tutti considerano uno dei capolavori dei Cure è senza dubbio un brano noise: pieno di cacofonie, nastri preparati che fanno impallidire i Wolf Eyes, muri di chitarre atonali e spastiche, una voce che rincorre il Wozzeck di Berg, insomma un casino che si dipana tra esplosioni e implosioni in cui l’unica concessione alla sfera del “ben temperato” è il giro di basso sintetico (anzi, di pedaliera Korg Taurus). Nel pezzo viene compresso in pochi minuti il disagio del mondo moderno, che satura il cervello d’informazioni e vari, in cui la cosa oscena – la pornografia – è nell’occhio di chi guarda ed è quindi il mondo intero. Ci sono campionamenti di uno spezzone radio con una recensione negativa e l’audio di documentario televisivo sul sesso, le cui voci sembrano evocare un giudizio universale malato, ci sono accartocciamenti sonori che sembrano la versione intonarumori di Being for the Benefit of Mr. Kite! dei Beatles e una chitarra che tutto cerca tranne che accordi normali, sembrando più una pressatrice di fabbrica. I testi allucinati di Smith, in odor di serial killer represso. Tutta questa violenza accumulata diventa energia per dire: “devo combattere questa malattia / trovare una cura” e il pezzo nella cosa si ritira come un vibrione colto di sorpresa.
Pornography è un album nato mentre i Cure bazzicavano la no wave e l’industrial di gente come Foetus, Lydia Lunch (con la quale Smith ebbe una corrispondenza di amorosi sensi) e Throbbing Gristle (fu a un loro concerto del ’79 che Robert fece amicizia con Steve Severin dei Banshees e il resto è storia). Non è un caso che sia anche lambito dal noise, a volte sembra più di stampo nipponico che anglosassone (il grande successo dei Cure in Giappone potrebbe esserne una prova). Di tutti i brani dell’LP la title track è però l’unica che esprime perfettamente il senso di eccesso e di implosione delirante che di lì a poco sfalderà la band in preda a un collasso nervoso.
Give Me It (1984)
The Top è uno dei miei dischi del cuore per varie ragioni: a parte il lato “dark psichedelico” assolutamente bizzarro e figlio di un Syd Barrett, da cui Smith sembra prendere il testimone, uno dei motivi è questo brano qui. La I Am the Warlus dei Cure è una cavalcata siderale contro gli spigoli del rumore trapanaorecchie: tutto fa frizione in questo pezzo, come un tendine che esce dalla guaina e si scortica sull’osso del polso, dall’urlo iniziale di Smith ai testi impregnati di Lsd in cui la nevrosi la fa da padrone come in un bad trip che induce alla visione di maiali che si impiccano indossando magliette viola e varie allusioni erotiche al limite del cannibalismo gore. Non è chiaro cosa chieda Smith in questo massacro di chitarre metalliche e inascoltabili che procedono in una cavalcata maniacale, forse un organo sessuale? Forse una soddisfazione immediata di un bisogno primario? Forse, diciamolo, si tratta di droga? Quest’ultima ipotesi è la più probabile: è infatti il periodo delle session del “tè delle cinque” nelle quali Smith si confortava del superlavoro diviso tra Cure, Glove e Banshees gonfiandosi di sostanzine. Di tutti i brani di The Top (acidi per definizione), Give Me It è quello più noise in assoluto tanto da diventare lo standard del concetto di “estremo” per i Cure, tanto che difficilmente più avanti arriveranno a questi livelli di repellenza (sfiorata forse solo in Shiver and Shake contenuto in Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me, che però è più punk che altro). La versione che troviamo in Concert è però se possibile ancora più pesante: i bpm sono accelerati e al caos generale si aggiunge il sax di Porl Thompson che si esprime in sequenze free ostiche (che nell’originale sono seppellite dal resto del mix). Un vero punto di non ritorno.
Forever (1984)
Nello stesso anno di Concert i Cure eseguirono dal vivo una versione di Forever lancinante. Per chi non lo sapesse, Forever era un brano che cambiava a ogni set, una sorta di playground dove la band poteva improvvisare insieme tutto, dai testi alla batteria:,ed era basato sul giro di quella che su Seventeen Seconds è chiamata Three. Anzi, più che era, è: i Cure l’hanno suonata con una certa goduria anche di recente. In questa versione, contenuta solo nel lato B della cassetta di Concert chiamata Curiosity, Smith canta e grida sguaiatamente testi visionari e il gruppo fa casino seguendolo, accelerando, sfasandosi, con l’immancabile sax di Porl a rendere tutto spappolato fino al collasso del brano e a questo punto pensiamo anche degli strumentisti che sembrano letteralmente prendersi a capocciate soniche. E tanto per chiarire ironicamente la situazione, alla fine del pezzo Smith si rivolge al pubblico in questo modo: «Thank you, goodnight. You’ve been the noisiest audience I’ve ever listened to». A buon intenditor poche parole, ma molto rumore.
The Kiss (1987)
Se in The Head On the Door la stranezza viene concentrata in un pop sfasato ma che alla sporcizia concede solo la parentesi di Screw, che se fosse prodotta in altro modo potrebbe essere un pezzo dei Big Black di Steve Albini, su Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me le danze si aprono proprio con il noise fagocitante e urlante della chitarra di Smith il cui wah-wah pattina disgustato e malevolo sul pezzo per ben sei minuti e rotti con la chiara intenzione di spaccare lo strato di ghiaccio sotto il riff di basso e tastiera (basso preso a cazzotti, ricordiamolo), in un crescendo che raggiunge un climax smembrante nel finale in cui la chitarra più che uno strumento sembra un animale ferito e in fin di vita. Il brano è una paranoia erotica che trasforma un semplice bacio nell’errore più grande della storia: cantato da Smith come se avesse partecipato a un’orgia dalla quale non si esce vivi o come se – novella Biancaneve – avesse mangiato la mela avvelenata del peccato e cercasse inutilmente di sputarla, rimane uno dei pezzi più sconvolti e violentemente noise rock della band.
Cut (1992)
Prima di ritrovare un sentore noise di un certo tipo dovremo aspettare Wish del 1992, disco influenzato dalle nuove tendenze angloamericane e quindi caratterizzato da un uso preponderante delle chitarre che saranno tre, accordate all’unisono, e soprattutto distorte. Dopo la parentesi intimista di Disintegration, che poco concedeva al rumore a parte i feedback di Fascination Street che sono a tutti gli effetti harsh, si torna al rock. Bene, Cut è uno di quei brani in cui il caos e il rumore la fanno da padroni: ma se nell’originale il mix mantiene gli strumenti ben calibrati e intellegibili con tanto di intro di violoncello che non ti aspetti, è vero che la versione live contenuta in Show, il documento audio del tour di Wish, è l’esempio di cosa possono fare i Cure se si mettono a noiseggiare duro. Non si capisce un cazzo: solo chitarre che feedbackano, che urlano mangiate dal riverbero, confuse tra di loro come in una rissa sanguinaria. Insomma, è l’odio espresso dal testo per la persona amata che improvvisamente diventa fredda come il ghiaccio e la storia finisce di botto sotto il peso di 17 secondi in cui tutto brucia. Di fuoco sono appunto queste chitarre che esplodono nelle orecchie (non è escluso che i Cure fossero in questo periodo ispirati ai Cranes, i cui concerti erano particolarmente estremi e che furono chiamati infatti a dividere il palco con loro durante il tour).
End (1992)
Sempre tratto da Wish, che contiene sia brani pop oriented come Friday I’m in Love, sia tracce di una certa durezza. A parte Cut, c’è il brano finale End, una pesante e sfinita coltre di chitarre che si danno a un riffone doom sul quale sbattono le chitarre soliste tipo aerei sulle Twin Towers della musica. Una sincera confessione a cuore aperto di Smith che non ne può più di indossare una maschera, convinto di essere arrivato a un punto in cui andare avanti e arrendersi sono la stessa cosa: “Per favore non amatemi, non sono nulla di quelle cose”, dice mentre parte un assolazzo “magnato” dagli effetti che sembra quasi un’enorme zanzara succhiasangue. La voce sbraita cavalcando un enorme muro di chitarre noise sia dritte sia in reverse, tanto che i Sonic Youth fanno quasi comunella con loro (e d’altronde Thurston Moore ringrazierà Robert Smith nei credits del suo primo disco solista, Psychic Hearts). Nota importante: durante i live Simon Gallup era solito prodursi in assolo di basso distorto che prevedevano fischi a non finire, una specie di versione infernale degli ego trip dal vivo di Jaco Pastorius.
Watching Me Fall (2000)
Skippando il disco forse meno riuscito – per quanto variopinto – della discografia dei Cure, ovvero Wild Mood Swings del 1996, ci ritroviamo a quello che secondo Smith & co. è il terzo capitolo della Trilogy, i cui passi precedenti sono Pornography e Disintegration, entrambi scritti in un momento di passaggio tra età critiche ben precise (20 e 30 anni). Bloodflowers è un disco strano, di mezza età ma non maturo, attraversato da nostalgie sonore. Sembra lo sforzo sovrumano di un malato terminale musicale che cerca di tornare ai vecchi fasti prima dell’ospedalizzazione forzata. Un disco che nonostante o forse proprio per questo ha una forza poetica non indifferente. Tra i brani, l’unico che esprime un’attitudine noise rock pachidermica è però questo. Una narrazione di una serata trasgressiva giapponese in cui Smith va a mignotte, drogato, perdendosi in lussurie quasi automatiche e spersonalizzanti, tanto che la decadenza gli esplode in faccia, palese e inarrestabile quanto insostenibile. Smith si lamenta per quasi 11 minuti di pezzo, sostenuto da chitarroni che nelle disarmonie sembrano un parto Skin Graft. Nonostante non siano linee estreme come nei precedenti esempi, l’intenzione è chiarissima: farla finita col concetto di canzone e melodia.
Lost (2004)
Dopo quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo album dei Cure (e al solito non era vero) esce l’omonimo disco del 2004, da molti snobbato e non a ragione. Perché a parte la presenza di brani più “leggeri” e la produzione di Ross Robinson che mette a punto un sound a metà tra l’emo degli At the Drive In e il nu metal dei Korn, la traccia di apertura è talmente devastante che se il disco fosse stato tutto così avremmo oggi un nuovo Pornography. Così non è, ma The Cure rimane un signor disco e Lost, piazzata a inizio scaletta, è una cavalcata in crescendo in cui i Cure sembrano gli Arab On Radar versione gotica: stessa attitudine brutale e primitiva, stesso approccio ai testi disarmanti dove il vecchio fauno desidera la carne giovane consapevole che si perderà in un gioco più grande di lui. Dieci e lode per queste chitarre dissonanti che sembrano trattori impazziti a servizio di uno Smith che si lacera le corde vocali ancora una volta esasperato e fuori di sé, con intro e outro di rumore puro tra l’analogico e il digitale: non c’è altro da aggiungere.
A Foolish Arrangement (1992)
E ovviamente non possiamo esimerci dal passare ai lati B, che a volte nella discografia dei Cure nascondono chicche non indifferenti. È il caso di A Foolish Arrangement, lato B di A Letter to Elise che si sposta nel campo del noise pop più puro con una grazia che ben si sposa al fragore degli arrangiamenti (basso distorto, rumori cosmici, una sensazione di pressione sonora al costato) e al testo di Smith ispirato a Coleridge (la protagonista femminile della canzone è appunto Christabel come il famoso poema dello scrittore inglese) che ovviamente è a base di un amore tormentato, “particolare” e confuso. È un mistero perché il brano sia stato escluso da Wish vista la sua innegabile bellezza (il riff poi sembra una versione 2.0 di Just Like Heaven), forse è stato eliminato per la sua complessità e completezza, qualità che in un disco così slabbrato come Wish diventano subito difetti. È comunque da brani come questo che comprendiamo come i Dinosaur Jr – non a caso – possano indicare i Cure tra le band che li hanno più ispirati….
Splintered in Her Head (1981)
Altro pezzo che può essere definito proto noise per la quantità di cacofonie, disastri sonori e smarmellamenti vari, questo lato B della nota Charlotte Sometimes vede Smith martoriare una armonica a bocca e altri non meglio identificati strumenti a fiato in un mare di eco, sopra un fill di batteria continuo e tribale e un riff di basso ostinato contraltato da una chitarra acuminata che vanno poi a confondersi con una tastiera fredda e dissonante. La voce è straeffettata e produce veri e propri orchi con i suoi pitch bending nelle zone più basse dei toni. Sembra anche che fatichi a trovare una conclusione, penetrando il cervello come poche cose al mondo (d’altronde il titolo è eloquente in questo senso). Frutto probabilmente di una riuscitissima jam session e ispirata al libro di Penelope Farmer che dà il titolo al lato A del singolo, Splintered sembra a tutti gli effetti la sorella minore di Pornography ed essendo uscita prima ne è forse la prova generale. Noi fan speriamo in un ravvedimento della band ammutinata contro Smith affinché pubblichino a nome Cure quello che – si spera – sarà la summa dei loro rumorazzi, delle loro sovversioni sonore. D’altronde lo dicevano proprio loro: “signal to noise”, no?