Nessuno è perfetto, e tutti, anche i migliori, hanno qualche scheletro nell’armadio. C’è chi ha infilato all’ultimo un brano orribile in un disco, chi ha inseguito i fasti del passato, o ancora chi non aveva l’esperienza giusta per schivare un passo falso. Certo, anche raschiando il fondo del catalogo di David Bowie o dei Beatles è difficile trovare qualcosa che sia “brutto” in senso stretto, ma vale comunque la pena parlarne. Per farsi una risata, o per litigare un po’.
“Walter’s Walk” Led Zeppelin
Se c’è una cosa su cui tutti i fan sono d’accordo, è proprio che Coda non sarebbe dovuto uscire. Il nono e ultimo album dei Led Zeppelin infatti, pubblicato due anni dopo lo scioglimento della band nel 1980, secondo più di una fonte non ufficiale sarebbe il risultato di vecchie registrazioni messe insieme solo per obblighi contrattuali. Pare che la band al momento della morte di Bonham — e quindi dello scioglimento — fosse in debito di album con la Atlantic Records. Quindi, qualcuno armato di colla e forbici dalla punta arrotondata si sarebbe messo lì a tagliuzzare e incollare vecchie demo. Questa teoria spiegherebbe l’esistenza di pezzi come Walter’s Walk, cioè senza un minimo di coesione fra la traccia di voce e quella strumentale. In più, la scelta degli effetti sul timbro di Plant è la peggiore possibile: un delay ravvicinato che dà alla voce soltanto un effetto sterile e impersonale. Nella deluxe edition è incluso anche un Rough Mix senza la voce. Se non lo conoscete, provate ad ascoltarlo. È un milione di volte meglio dell’originale.
“Little James” Oasis
Non vogliamo passare per cinici, ma il peggior pezzo scritto dagli Oasis è proprio quello che Liam Gallagher ha dedicato al figlioccio. Lunga vita all’amore e alla famiglia, per carità, ma il testo raggiunge picchi di smielosità e banalità che sembra quasi la traduzione di un pezzo di Luca Dirisio. L’attenuante è sicuramente il fatto che Little James è di fatto il primo pezzo in assoluto scritto da Liam. Arrangiamenti basilari, accordi semplici e va tutto bene, soprattutto perché il timbro del minore dei fratelli Gallagher fa venire i brividi anche se si mette a leggere gli ingredienti dei frollini come Gassman. Però versi come “Thank you for your smile” o “I’m singing this song for you that’s all” abbassano tutto al livello filastrocca d’amore scritta alle elementari.
“Dogs of War” Pink Floyd
A Momentary Lapse of Reason è il primo disco dei Pink Floyd dopo la separazione da Roger Waters, il primo dove tutte le decisioni importanti sono state prese da David Gilmour, che dichiarava di avere in cantiere il “ritorno alle origini”. Ascoltando Dogs of War, però, sembra più di avere a che fare con una cover band fissata con Animals. A parte il testo dimenticabile – scritto a quattro mani con Anthony Moore -, il brano è un brutto minestrone di tutto quello che dovrebbe essere “alla Pink Floyd”: le metafore politiche, il solo blues, il cambio di ritmo, peccato che non funzioni nulla e non si capisce perché qualcuno dovrebbe scegliere di ascoltarlo al posto di una Money qualsiasi.
“Golden Lights” The Smiths
Golden Lights è la cover di una hit del 1965 scritta da Twinkle, e non si capisce perché gli Smiths abbiano deciso di registrarne una loro versione. Morrissey l’ha definita come «un gesto di giocosa perversione», e questa volta ha proprio ragione. Tra voci effettate (male) e una performance pigra e derivativa, il brano è un disastro e ascoltandola viene da farsi un riposino. La recensione migliore, comunque, l’ha fatta uno dei diretti interessati, il bassista Andy Rourke: «Golden Lights è la nostra Octopus Garden venuta male».
“Rocky Raccoon” The Beatles
Ci sono dibattiti infiniti che durano da 50 anni su quale sia il pezzo peggiore dei Beatles. C’è chi sostiene che possa essere una delle canzonette frivole tipo Ob-La-Di, Ob-La-Da, oppure uno dei pezzi iper-sperimentali e incomprensibili ai più come Revolution 9. La risposta giusta però sta nell’omonimo The Beatles e si chiama Rocky Raccoon. È un brano subdolamente peggiore di quelli sopra perché si traveste da folk americana, facendo anche un po’ il verso a Bob Dylan. Il testo, scritto principalmente da Macca, parla di due rivali in amore che si sfidano a duello. Paul è anche l’unico a cantare e a metà del pezzo il testo si appiattisce a un asettico tududududù ripetuto a oltranza, facendolo quasi assomigliare a quelle hit radiofoniche di Jason Mraz. Poco tempo prima di morire, Lennon si è smarcato dalla co-paternità del pezzo, secondo lui troppo blasfemo per via dei riferimenti scherzosi ad alcuni passi della Bibbia.
“Wild Honey” U2
All That You Can’t Leave Behind, il decimo disco degli U2, segnò il ritorno a sonorità più classiche e a una scrittura più semplice e diretta, tutta dedicata alla ricerca della melodia giusta, del motivetto che ti si stampa in testa. “I’m just trying to find a decent melody”, canta Bono in Stuck in a Moment You Can’t Get Out Of, e in gran parte del disco ci sono riusciti. In Wild Honey no. Il brano è una favoletta pop semplice che vuole essere divertente e leggera, ma non ci riesce. Brian Eno ci ha visto dentro Van Morrison, The Edge una specie di Ob-La-Di, Ob-La-Da, ma forse il più onesto è il batterista Larry Mullen, che ha detto: «Rappresenta un lato giocoso degli U2 che non mostriamo spesso. E non è quello che preferisco».
“China Girl” David Bowie
È davvero difficile trovare un pezzo “brutto” nel senso più puro del termine fra quelli di David Bowie. Gli anni Ottanta però ci accorrono in aiuto, fornendoci una vasta gamma di brani non proprio brutti ma sicuramente mediocri se paragonati alle perle nella discografia del Thin White Duke. China Girl è l’esempio perfetto di questo deficit di fantasia. Questo nonostante il fatto che il singolo, uscito nel 1983 e inserito in Let’s Dance dello stesso anno, è firmato a quattro mani da Bowie e Iggy Pop. E il riff di chitarrina è suonato pure da Nile Rodgers degli Chic. Eppure c’è qualcosa di profondamente sciocco nel mood del brano, oltre che razzista. Il pezzo infatti è stato scritto nel periodo berlinese di Iggy e il suo socio, quando Iggy si era innamorato di una ragazza vietnamita di nome Kuelan Nguyen. Quindi, come lo chiamiamo ‘sto brano? China Girl.
“My World” Guns N’ Roses
Axl Rose ha nascosto al resto della band l’esistenza di My World, e ha fatto bene. Peccato che il brano sia comunque finito nella tracklist di Use Your Illusion II, e di conseguenza nelle orecchie dei 14 milioni di fan dei Guns N’ Roses che l’hanno acquistato. My World è un quasi-rap-quasi-industrial con un testo nosense – You wan’da step into my world / It’s a sociopsychotic state of bliss – e sample di donne che gridano di piacere. Sembra quasi di guardare dentro al cervello di Rose, e non è un bello spettacolo.
“My World” Metallica
Bob Rock aveva detto: «Questo disco suona come una band che improvvisa per la prima volta in un garage», e aveva ragione. Peccato che non sia un’esperienza piacevole: St. Anger ha probabilmente il peggior suono di rullante della storia del rock, una specie di fusto di detersivo vuoto e pieno di armonici fastidiosi che perseguitano tutti i brani del disco, dove spicca in negativo My World. Nel catalogo dei Metallica non c’è niente di più anonimo dei lunghissimi sei minuti di questo brano, una collezione di riff senza fantasia, ritmiche inoffensive e frasi da teenager rabbioso. C’è però un lato positivo: non l’hanno mai suonata dal vivo.
“Stop Whispering” Radiohead
Capita a tutti di fare delle cazzate da giovani e i Radiohead non fanno eccezione. Correva l’anno 1993 e OK Computer era ben lontano anche solo dall’essere concepito. Quando ancora la band si chiamava On A Friday, Yorke scrisse un pezzo che voleva essere un omaggio ai Pixies. Si chiama Stop Whispering ed è una sonatina soft rock che se fosse stata scritta in Italia sarebbe finita dritta a Sanremo, cantata magari da Francesco Renga. Sembra un pezzo dei cugini invertebrati dei Muse, senza un minimo di quel mistero o meraviglioso spleen a cui in seguito ci hanno abituato i Radiohead.