La morte di Phil Spector ha diviso gli appassionati di musica. C’è chi cerca di separare l’uomo dall’artista (vista la sua nota condotta psicotica), chi lo condanna senza appello, chi invece è pronto a giurare che il nostro sia arrivato sulla terra per una missione sopra il bene e il male: il wall of sound farebbe parte di questo disegno oscuro agli esseri umani, ma forse non agli dei. Perché Spector ha modellato la musica prevedendo il futuro: non era un produttore del suo tempo, ma un marziano.
Ha dato gas agli arrangiamenti wagneriani alla potenza in un contesto – quello del pop – che prima concepiva solo suoni alla carta da zucchero e moscerie assortite a volumi moderati. Ecco quindi per voi 10 canzoni che sono quello che sono grazie alla mano in studio del nostro Phil, che non maneggiava solo pistole, ma soprattutto cursori del mixer.
1“River Deep – Mountain High” Ike & Tina Turner (1966)
È probabile che la scintilla che accese la miccia dello squilibrio nella mente di Phil Spector fu l’insuccesso americano del singolo di Ike e Tina Turner River Deep – Mountain High. Phil lo considerava il suo capolavoro ed era quasi certo che sarebbe diventato una grande hit. Fatto sta che il pezzo, scritto tra gli altri dallo stesso Spector, è una sorta di incredibile sinfonia ridotta in 3 minuti e 35 secondi, nella quale c’è solo potenza. In primis nella voce di Tina Turner, con la quale Phil volle espressamente lavorare per provare le sue vocalità inserite nel wall of sound. Ike Turner si imbucò solamente in quanto marito/tiranno pretendendo un contratto per due. Ma qui ci sono solo Spector e solo la Turner, che vivono in una simbiosi di sofferente perfezione (dice Tina che dovette ripetere la canzone migliaia di volte). Secondo la cantante, l’insuccesso negli Stati Uniti fu dovuto al fatto che la canzone sembrava troppo bianca all’orecchio dei neri e troppo nera all’orecchio dei bianchi. In sostanza una canzone senza razza, una perfetta sintesi tra culture che viene invece razzisticamente snobbata dagli stessi che avrebbero dovuto plaudere allo sforzo.
2“Across the Universe” The Beatles (1970)
Per i fan dei Beatles Across the Universe rappresenta un picco poetico non indifferente, addirittura la migliore canzone di John Lennon. Vero è che gli altri Beatles non le diedero mai l’importanza che meritava. Scritta nel periodo “mistico” in cui i baronetti erano in India a meditare, fu per la prima volta pubblicata nel 1969 in una raccolta benefica del World Wildlife Fund in una versione “campestre” con tanto di suoni di pennuti in volo. Lennon non era soddisfatto del risultato e provò a riproporla durante le session dell’abortito progetto Get Back che poi divenne il disco Let It Be. Spector interpreta perfettamente il brano, rendendolo epico e tirando fuori la schizofrenia di fondo della canzone, nata dopo un litigio in casa Lennon (Yoko Ono non era ancora all’orizzonte). La take di Lennon è stonata, la chitarra scordata, la sensazione è di ascoltare una specie di esaurimento nervoso che però si trasforma subito in preghiera cosmica, aggiungendo Spector dei cori soavi e un’orchestrazione esplosiva e lussureggiante, potenziando quello che nella traccia del 1969 sembrava appena abbozzato. Un capovolgimento di fronte.
Probabilmente il più grande omaggio all’arrangiamento di Spector è la cover dei Laibach presente nel loro remake di Let It Be del 1988: la loro Across the Universe è un incredibile “solo voci”, come se i cori di Spector s’impossessassero della canzone, quasi spettri di un’anima tormentata, nel loro caso dalla guerra del Kosovo.
3“Love” John Lennon (1970)
Potevamo scegliere, tra i brani di Lennon prodotti dall’americano, pezzi come Power to the People o Instant Karma in cui la potenza sonica di Spector si esprime al massimo della potenza con i testi politici di Lennon. Invece no: Love rappresenta il cedere disincantato alla propria debolezza, che diventa inattaccabile. Il piano è suonato da Phil in maniera dolcemente colossale e sembra quasi un desiderio di essere finalmente abbracciati dall’amore, con la consapevolezza tragica che è impossibile. Per Spector amare voleva dire vessare, terrorizzare i propri cari segregandoli, puntando una pistola in faccia. La sua interpretazione al piano è una devastante ammissione di aver perso la strada che porta al sentimento. Quella che porterà a Lennon invece sarà ben illuminata e comprende altri due LP dopo questo (Imagine e Rock’n’Roll).
4“Try Some Buy Some” Ronnie Spector (1971)
Ogni fan di Spector ha la sua produzione preferita: la mia è questo singolo di Ronnie Spector (ovverosia Ronnie delle Ronettes, poi moglie di Phil) scritto da un George Harrison in stato di grazia e pensato per rilanciare alla grande la carriera della cantante, addirittura con un intero album da lui scritto. La cosa invece otterrà l’effetto opposto, cioè un colossale flop: questo perché il pezzo dell’ex Beatle era una contorta riflessione sul consumismo capitalista che può trasformarsi improvvisamente in misticismo sincero. Tema incredibilmente denso, ma cantato senza convinzione da Ronnie, che nell’autobiografia conferma candidamente la cosa: non capiva di che cosa cazzo parlasse il pezzo. Spector invece è attratto come una calamita dal brano, che trasforma in una ballata titanica nella quale ci sono tutte le emozioni presenti nella natura umana: chiaramente aiutato dal materiale di partenza (la canzone) di altissima qualità, ma di difficilissima resa. Celebre la parte di mandolini che fa lievitare il tutto da una drammaticità esistenziale allo scioglimento del nodo spirituale, stratagemma che folgorerà Lennon per la sua Happy Xmas (War Is Over) chiedendo esplicitamente a Spector di riproporlo paro in sede di arrangiamento.
Try Some, Buy Some è un brano in cui probabilmente Spector getta tutta la sua in-sensibilità borderline: pare quasi una richiesta di aiuto dall’alto, un alto col quale non si è fatto ancora abbastanza i conti (ricordiamo che il padre di Spector morì sucida quando lui era molto giovane e uno dei suoi figli morì di leucemia a soli 9 anni). Tanto che infatti subito dopo il flop il progetto dell’ album sarà cancellato scatenando in Phil uno dei tanti comportamenti vessatori in una vera e propria escalation nei confronti di Ronnie, che teneva segregata in casa sotto minacce per paura che potesse lasciarlo. La donna riuscì a scappare da quell’inferno solo nel 1972, con l’aiuto della madre liberandosi da quello che la stessa Ronnie descrive nell’epitaffio all’ ex marito: «era un produttore brillante ma un marito disgustoso».
Harrison riproporrà la sua versione della canzone in Living in the Material World, sempre prodotto da Spector, ma la cover più bella è sicuramente quella di David Bowie contenuta su Reality, che ne fa un inaspettato e profetico inno spirituale degli anni 2000.
5“Bangla Desh” George Harrison (1971)
Spector si alleò contro il “male” insieme a Harrison in quella che è una delle prime iniziative di emancipazione dai Beatles da parte del chitarrista inglese. Il Concert for Bangladesh fu infatti uno dei primi concerti umanitari a cui hanno partecipato molte star tra le quali Ravi Shankar e Bob Dylan. Harrison estrarrà Bangla Desh come singolo, prodotto come tutto il resto dell’album da Spector, che per l’occasione applicherà il suo wall of sound al concetto di concerto dal vivo, con diverse stratificazioni di musicisti, ottenendo un risultato strepitoso. Il singolo di per sé un calarsi nella tragedia di questo popolo, l’arrangiamento ha un sentore di una minaccia incombente i cui suoni ti proiettano in un deserto etico, in perfetto contrasto (e quindi con un modus simile a quello di un documentario) con le immagini evocate dal testo, che incitano le masse ad accorgersi di questo sfacelo umanamente inaccettabile. Singolo e album saranno due grandi successi, bissando il consenso ottenuto dal primo triplo di Harrison dell’anno prima, il fondamentale All Things Must Pass prodotto proprio da Spector, album mosso da parecchi contrasti tra i due: ma qui, per fortuna, sono messi da parte per la causa.
6“In and Out of the Shadows” Dion (1975)
Prima della British Invasion, Dion era una vera celebrità, partito da teen idol e trasformarsi in cantante più maturo, convertito al blues, ma anche alla dipendenza da eroina. Uno delle due rockstar presenti sulla copertina di Sgt Pepper’s (l’ altro è Bob Dylan), Dion a un certo punto si ripulisce dopo una grande crisi religiosa e ha la malaugurata idea, nei primi ’70, di affidare la produzione di Born to Be with You a Spector. Ovviamente il disco sarà registrato nel caos più totale, in cinque lunghi anni di gestazione, con Phil ubriaco fracico al comando (che caccerà a pedate anche uno Springsteen e una Cher passati a omaggiare le session). All’interno del disco Dion è un mero strumento vocale dell’anima putrefatta di Spector, che farà dell’album un gioiello di particolari allucinanti, pietre preziose di Broadway incastonate perfettamente tra di loro, potenza decadente e autobiografico di un Bronx (dal quale venivano entrambi) che sogna la redenzione scendere dal cielo come lacrime di stelle.
La toccante In and Out of the Shadows sembra una struggente autobiografia in musica di piccole persone che crollano proprio quando si rialzano in piedi. Ovviamente Dion si dissociò quasi immediatamente dal disco, tanto che fu proprio Spector a pubblicarlo a sue spese solo in Inghilterra, trovando la totale indifferenza della critica e l’unanime insuccesso di pubblico. Ma nei ’90 gente come gli Spiritualized o i Primal Scream citerà il disco come una pietra miliare, portandolo a una rivalutazione pressoché totale, nonostante Dion pensi ancora oggi che si tratti di «musica da funerale». Forse non aveva tutti i torti, giacché il progressivo allontanamento dal music biz di Phil rappresentava già una sorta di prematura dipartita dalla realtà per rifugiarsi nella propria follia.
7“Lord, If You’re a Woman” Darlene Love (1977)
Secondo quando afferma Darlene Love, Spector incominciò a “scapocchiare”di ritorno da Londra, quindi diciamo una volta tornato dall’esperienza con i Beatles, comportandosi come un paranoico. Il pezzo che registreranno sarà Lord If You’re a Woman, curiosamente un brano dal testo femminista che è una preghiera a un dio che finalmente ha fattezze muliebri. La protagonista chiede di aiutarla a liberarsi di un uomo che la vessa e la tratta di merda. Esattamente quello che in quel periodo faceva Spector, anche nei suoi confronti, con il suo allucinato autismo in studio: eppure la produzione di Phil rende il brano un missile soul terra-aria, con una potenza orchestrale che rende il tutto quasi prodotto da un sintetizzatore, da un campionatore trattato, con tutta la giusta angst di una condizione femminile inaccettabile.
Il singolo non avrà molto successo: sicuramente per il coraggio delle tematiche e dell’arrangiamento, ma il motivo in realtà è uno e semplice: «Ero in cabina con le cuffie e gli ho detto: “Non va”. Mi sono tolta le cuffie, le ho posate sulla sedia, ho preso il cappotto e la borsa e sono andata. Non l’ho più rivisto. Me lo sono messo alle spalle. Meglio essere una cantante sconosciuta per il resto della vita che sopportare un produttore che si comporta in quel modo solo per avere un’altra hit”». Lo scollamento tra i due provocherà una mancata promozione del disco, una delle tante ombre che cadranno sulle produzioni di Spector di fine carriera, nonostante il suo tocco fosse ancora magico.
8“Don’t Go Home with Your Hard-On” Leonard Cohen (1977)
Come diceva Ronnie Spector, molte vite sono state danneggiate da Phil e con loro anche molte collaborazioni trasformatisi in un bad trip. Prima tra tutte quella con Leonard Cohen, sulla carta davvero interessante e nella pratica assurda. I due si incontrano a casa di Spector in un periodo in cui la loro reciproca fama è in calo e incominciano a ubriacarsi e scrivere canzoni. Sembra tutto a posto nonostante Phil sia reduce dalla registrazione di Rock’n’Roll di Lennon nella quale farà degli inenarrabili casini. Presto Spector comincerà a schiacciare Cohen tramite la “sottile” intimidazione con pistole sul mixer, bodyguard a pioggia e altre imposizioni. Che culmineranno in uno Spector pistola carica alla mano puntata alla gola di Cohen mentre gli sussurra: «ti amo Leonard». L’affettività disturbata (ma a questo punto diremmo completamente macellata) di Phil esce fuori dalle canzoni di Death of a Ladies’ Man, un viaggio torbido che prevede vouyerismo brutale, sessualità ingorda e amenità di questo tipo.
Di questo disco scegliamo Don’t Go Home with Your Hard-On, non tornare a casa col coso duro, una ballata sguaiata e pomposamente decadente che inizia con un accenno disco per diventare un mostro malato assetato di amplessi che sotterra qualsiasi peggior incubo di Nick Cave. L’arrangiamento è pura eleganza da maniaco seriale. E a proposito di maniaci, Cohen, notoriamente un tipo abbastanza tosto, non è nel periodo migliore per tenere testa a uno Spector sempre più fuori controllo; a un certo punto il produttore sparisce con i master missandoseli per conto suo. Cohen incise la voce solo come traccia per le canzoni e avrebbe voluto perfezionarla: questo non accadrà mai, le tracce andranno in stampa così. L’album spiazzerà i fan di Cohen, ma anche la critica, che lo massacrerà. Col senno di poi possiamo considerarlo il capolavoro di due allucinati che della realtà riescono a fotografare la lucida follia delle passioni, di cui l’amore è solo una piccola sfumatura.
9“Chinese Rock” Ramones (1980)
Se Spector è famoso per le sue orchestrazioni che eccedono da tutte le parti, è anche vero che quando si tratta di andare al sodo lo fa con perizia chirurgica, riuscendo ad ottenere lo stesso effetto anche con pochissimi elementi sovrapposti tra di loro fino a esplodere. Fa testo la produzione di uno dei pezzi più massicci dei Ramones, ovvero la marcissima Chinese Rock (contenuta dall’ unico disco del quartetto prodotto da Spector, End of the Century) che parla appunto della dipendenza da “roccette” di crack. Ebbene il sound riverberato e profondissimo di Spector trasforma i Ramones in un gruppo bubblegum anni ’60 infilato in una caverna metropolitana, quasi un ago piacevole e indolore che si infila nella pelle creando subito dopo un vistoso ematoma che fa male. Non solo, i nostri punk-rocker sembrano quasi saper suonare come dei veri professionisti: sfido io, costretti a picchiare sui loro strumenti per ore senza registrare neanche una nota da uno Spector particolarmente perfezionista e su di giri, cosa potevano fare? Sottrarsi a quello che per loro, abituati a fare una take e via, era una vera e propria tortura divenne impossibile. Leggenda vuole che per la registrazione di End of the Century il nostro li tenesse in ostaggio tirando fuori ben tre pistole e una balestra, ma da questo punto di vista i racconti dei Ramones sono discordanti.
Dee Dee, l’autore della canzone insieme a Richard Hell degli Heartbreakers che la incise per primo, non era proprio in sintonia con il grande vecchio del wall of sound, nonostante fosse stato proprio quest’ultimo a proporsi per registrare i Ramones: probabilmente un po’ si somigliavano almeno per quanto riguardava le bad habits tra droghe e alcol, per questo non potevano che nascere scintille. E infatti il sound del pezzo sembra quasi la versione scura delle Ronettes. Il brano è la dimostrazione che quando due psicosi si uniscono non può che nascere l’antidoto: cioè un prodotto eccezionale. Certo, Dee Dee è ancora convinto che nessuno dei Ramones a parte Joey abbia partecipato all’ album, ma forse era fatto? Chi lo sa, forse era fatto anche Spector non accorgendosi di averli incisi per sbaglio durante le prove.
10“No, No, No” Yoko Ono (1981)
Spector finirà anche per lavorare con Yoko Ono: stavolta non abbiamo notizie di pistole o roba simile, probabilmente perché la Ono era un osso più duro di Phil. Soprattutto aveva già visto le sue stravaganze ed era pronta a prevenirle: inoltre sappiamo che Season of Glass fu pubblicato solo sei mesi dopo la morte di Lennon ed è un disco particolarmente delicato nella discografia della Ono, quindi le pistole era meglio lasciarle a casa. Ono venne tacciata di speculare sul marito deceduto, accusa infamante che il disco spazza via al primo ascolto. Lo stesso Spector si approccia all’album come un omaggio all’amico morto, trasferendo la frustrazione di questa perdita in brani come No, No, No che inizia con quattro spari e un urlo, la ricostruzione dell’ omicidio di Lennon da parte di Yoko (ribadito anche nella agghiacciante e minimale foto di copertina, con gli occhiali di John sporchi di sangue).
Qui Spector si cimenta con la no wave, tirando fuori da chitarre e bassi sonicyouthiani e sfasati e dalle batterie pulsanti e violentemente nervose la squassante dolorosa confusione di un assurdo lutto. Una negazione del sogno d’amore dei sessanta di Baby I Love You: ma questo rifiuto di cedere alla compassione pelosa è l’unico modo di reagire per purificarsi e accettare di continuare a vivere. Col senno di poi, è il suono di un futuro omicida (Spector) che non accetta il destino che lo aspetta, e che cerca di reprimere a tutti i costi l’istinto. La Ono riuscirà a rendere questo disco una catarsi dal male, Spector invece smetterà di lavorare alle produzioni dedicandosi solo al male (ad eccezione di Silence Is Easy degli Starsailor, ultimo guizzo del maestro che gli varrà l’ultima posizione nei piani alti delle classifiche).
Sentendosi isolato e deluso in un mondo sempre più ostile alla musica e diritto come un treno verso il muro del postmoderno, Spector comincerà a fare una vita ritirata chiudendosi nei suoi mostri e lasciandoli volare come pipistrelli. Nonostante abbia fatto proseliti, nonostante abbia lanciato decine di epigoni (tra i quali i Beach Boys), nonostante i grandi successi, la stella di Phil si è consumata per autocombustione. E se è vero che i vecchi dispensano buoni consigli quando non possono dare più cattivi esempi, allora Spector si è sempre mostrato giovane nella sua musica. D’altronde To Know Him Is To Love Him, come diceva il nostro nel suo primo singolo in assoluto dedicato al padre scomparso: il cerchio, ahimè, si è chiuso in un muro di suono.